Che cosa è successo in Svezia? Sessant’anni di politica dei blocchi: tendenze e sorprese – parte terza
- 27 Gennaio 2015

Che cosa è successo in Svezia? Sessant’anni di politica dei blocchi: tendenze e sorprese – parte terza

Scritto da Roberto Volpe

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Che cosa è successo in Svezia? Una prospettiva comparata: la “politica dei blocchi” in Danimarca e Norvegia – parte seconda

 

Il grafico qui sotto illustra l’evoluzione dei rapporti di forza elettorali in Svezia tra centrosinistra (rödgröna), centrodestra (borgerliga) e non allineati. Abbiamo deciso di includere anche i partiti non parlamentari, rimasti sotto la soglia di sbarramento, oggi al 4%: questo perché nei primi anni analizzati sono completamente irrilevanti (poche migliaia di voti) e perché negli ultimi anni, in cui diventano più significativi, evidenziano alcune tendenze nell’elettorato che non sono completamente chiare guardando soltanto al numero dei seggi.

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Il sistema partitico svedese è più facile da osservare di quello dei paesi confinanti perché caratterizzato da stabilità partitica maggiore. È praticamente l’archetipo del modello nordico, talmente perfetto e lineare da essere molto diverso da quello dei vicini. Per dare un’idea, dal 1948 al 1985 sono stati rappresentati in parlamento sempre gli stessi cinque partiti: due socialisti, socialdemocratici e comunisti, e tre non socialisti, agrari, liberali e moderati. Sommati, fino a quell’anno hanno sempre totalizzato più del 98% dei voti validi (negli anni ‘50 addirittura il 99,9%). Tra 1985 e 1988 compaiono due nuovi partiti parlamentari destinati a lunga vita, uno a destra (cristiano-democratici) e uno sul centrosinistra, i verdi.

Guardando l’andamento delle curve siamo immediatamente in grado di escludere un classico stereotipo che gli osservatori casuali associano alla Scandinavia: non c’è una netta supremazia delle forze di sinistra, che anzi sono state minoranza nel paese per buona parte degli anni ‘50 e per quasi tutti gli anni ‘70. Eppure, è ben noto che il Partito Socialdemocratico dei Lavoratori (Socialdemokratiska arbetareparti, SAP o S) ha detenuto la posizione di capo del governo ininterrottamente dal 1936 al 1976, quasi sempre senza partner di coalizione. Quali sono le ragioni di un predominio così schiacciante? Fino al 1970, c’entrano soprattutto con la configurazione istituzionale del paese, bicamerale, e con la distribuzione del voto socialdemocratico, molto omogeneo sul territorio nazionale ma soprattutto forte al massimo nella provincia, in particolare nel nord del paese. Essendo la seconda camera eletta indirettamente, dalle amministrazioni locali, le larghe maggioranze che vi aveva S risultavano in una costante maggioranza assoluta, impedendo qualsiasi possibile alternanza al governo. L’unica opportunità di partecipare al governo, per i partiti di centrodestra, era entrare in coalizione con S: così accadde dal 1951 al 1957, con la partecipazione del partito agrario.

Dal 1970 in poi, con un parlamento unicamerale, il sistema diventa più competitivo e dal 1976 il centrodestra governa per 6 anni consecutivi. Già nel 1973 ottiene più voti, ma una parte viene dispersa finendo ai cristiano-democratici, sotto sbarramento, e i blocchi socialista e non-socialista ottengono esattamente lo stesso numero di seggi. Sono gli anni del più celebre dei leader socialdemocratici, Olof Palme, che è anche l’unico ad aver perso due elezioni in fila.

Insomma, chi parla di predominio della “sinistra” svedese – in genere facendone l’elogio funebre – sta in realtà trattando, o confondendo, quello del partito socialdemocratico. Un partito che nel complesso era più forte anche dei partiti fratelli nel resto del Nord Europa, e che sostanzialmente aveva il monopolio parlamentare della sinistra, con il piccolo partito (euro-)comunista inchiodato fino al termine della guerra fredda intorno al 5% dei voti: poco più di un decimo di quanto avesse S. La vera debolezza della destra, d’altra parte, non era la consistenza ma la frammentazione elettorale: tutti e tre i partiti del blocco hanno, in fasi diverse, occupato il ruolo di prima forza dello schieramento, raramente da soli potevano ambire a qualcosa più del 20% dei voti – mai più del 25% – e hanno tutti conosciuto larghe oscillazioni di supporto elettorale. Con l’ingresso in parlamento dei cristiano-democratici, il pattern inizialmente non è cambiato granché. Comprendiamo così che, per avere speranze di governare, i partiti di centrodestra hanno sempre avuto bisogno di stretta coordinazione.

Dalla fine degli anni ‘80 le cose iniziano a cambiare. Entrano in parlamento, come detto, due nuovi partiti, verdi e cristiano-democratici. La nuova conformazione sembra favorire la sinistra: nel 1988, se ne consideriamo i verdi parte (cosa che possiamo fare solo in retrospettiva), abbiamo un distacco tra i due blocchi pari a 10 punti percentuali e 45 seggi, un record storico. In un contesto di mobilità elettorale già in aumento, proprio agli inizi degli anni ‘90 arriva una grave crisi bancaria, con esplosione della disoccupazione, svalutazione della corona, riduzione del ruolo del settore pubblico. Sembrano le condizioni ideali per l’emersione di un partito antisistema, e in effetti è quello che accade.

Questo partito si chiamava Ny Demokrati, Nuova Democrazia, ed ha diverse cose in comune con quelli di cui abbiamo già parlato: in vari sensi “populista”, fondato da uomini d’affari noti al pubblico per ragioni estranee alla politica, collocato dichiaratamente “fuori dai blocchi” ma su una linea politica di destra, con una retorica (moderatamente) anti-immigrazione. Anche qui, insomma, un partito nuovo occupa uno spazio politico che il centrodestra tradizionale, fedele a un’impostazione liberale tradizionale, continua a rifiutarsi di occupare.

Ny Demokrati si rivela un’esperienza di breve durata (una legislatura) e, pur ottenendo una posizione pivotale,  non mette in dubbio la conformazione dei due blocchi. Questo perché le elezioni del 1991 le vince, seppur di poco, il centrodestra: NyD, dall’alto del suo 6,3%, sosterrà dall’esterno, con l’astensione, un governo ideologicamente tutto sommato abbastanza affine, che sarà in futuro ricordato per i suoi tagli draconiani e per l’alta disoccupazione. Le elezioni successive riportano al governo i socialdemocratici che ottengono il loro massimo storico in termini di voti, con i tre partiti di centrosinistra nel loro complesso ben 15 punti percentuali e 53 seggi sopra il centrodestra.

Una frase come “Gli anni ‘90 sono stati il momento d’oro della sinistra svedese” non la leggeremo probabilmente da nessuna parte (magari sull’Economist) ma i nudi numeri suggeriscono proprio questo – il che dovrebbe ammonire il lettore sulla validità sostanziale di un’analisi come quella portata avanti in questa sede. Diremo più precisamente che sono gli anni in cui il blocco di centrosinistra, da “blocco socialista” propriamente detto – anzi, socialdemocratico – si trasforma compiutamente in una rödgröna (rosso-verde), uno spazio occupato da tre partiti diversi tra loro ma in qualche modo obbligati a collaborare: socialdemocratici, ridotti ormai sotto il 40%, verdi, in costante ascesa, e il rinnovato Vänsterpartiet post-comunista ed euroscettico, che alle elezioni del 1998 ottiene il suo record storico con il 12% dei voti, ben più di quanto il predecessore potesse anche solo sognare.

Dal 1994 al 2006 ci sono 12 anni di governo di minoranza socialdemocratico. Nonostante i verdi avessero avuto la possibilità di formare un governo con il centrodestra nel 2002, ciò non avviene; non si realizza però neanche una coalizione di governo tra i tre partiti di sinistra, solo una “cooperazione formalizzata”. A destra, invece, dopo la terza sconfitta consecutiva assume una posizione di leadership il giovane Fredrik Reinfeldt, a capo del Partito Moderato (M), che pur tra alterne fortune era prima forza del centrodestra già dal 1979. Alle elezioni del 2006, Reinfeldt si presenta a capo di una coalizione pre-elettorale, l’Alleanza, che comprende anche liberali, agrari, cristiano-democratici. Reinfeldt vince portando a casa la prima maggioranza assoluta borghese dal 1979.

La percezione diffusa è che sia iniziata una nuova fase politica. Reinfeldt e il suo ministro delle finanze Anders Borg, giovanili ed energici, iniziano ad apparire sui giornali “borghesi” di tutto il mondo come i modernizzatori che finalmente porteranno la Svezia “oltre l’ostacolo”. Nel frattempo, nel paese, la pressione fiscale diminuisce, i privati si fanno largo nel sistema scolastico e sanitario, la disoccupazione giovanile resta alta, l’indice di Gini aumenta velocemente. Il governo dell’Alleanza è dunque incisivo, popolare nelle sue constituencies e unito dalla leadership forte di Reinfeldt, in opposizione alla sua debole controparte socialdemocratica, la centrista Mona Sahlin, impopolare anche e soprattutto nel suo partito.

Il punto di rottura: le elezioni del 2010

In effetti, le elezioni del 2010 mostrano alcuni segni di profonda discontinuità con la storia politica del paese. Prima di tutto, la distanza tra i due partiti maggiori.

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Per la prima volta, nel 2010, il partito socialdemocratico rischia seriamente di perdere il titolo di forza politica maggiore del paese, che detiene ininterrottamente dal 1917. Lo mantiene per 36000 voti (0,6%) fermandosi al 30,66%, un risultato oggettivamente catastrofico – quasi cinque punti percentuali meno delle precedenti peggiori prestazioni dal 1948 in avanti – e ancor peggiore se si pensa alla sua posizione di partito d’opposizione. L’altro campo vede una lieve crescita complessiva, dell’1%, fino al 49,3%; notare che non si tratta di una maggioranza assoluta, che i quattro partiti borghesi “storici” sommati non raggiungono dal 1979. Chi davvero cresce, togliendo voti a tutti gli altri partiti della coalizione, sono i Moderaterna di Reinfeldt: 336mila voti in più, quasi il 4%, e – dato più significativo – una cifra elettorale superiore al 30% dei voti (30,06%), una cosa che a un partito di centrodestra non capitava addirittura dal 1914: proprio l’ultima elezione in cui il primo partito non era stato quello socialdemocratico. Considerando che i socialdemocratici ottengono il loro peggior risultato in percentuale proprio dal 1914, possiamo dire che l’assetto competitivo originario del sistema sembra seriamente messo in dubbio.
Un’altra prima volta: entrambi i blocchi si presentano agli elettori riuniti in una coalizione pre-elettorale. Oltre all’Alleanza a destra, i tre partiti di centrosinistra stringono un accordo di governo “rosso-verde” fino ad allora inedito, che ha l’obiettivo di tenere assieme le varie anime della sinistra svedese: il vasto elettorato socialdemocratico, di cui i colletti blu e i dipendenti pubblici sindacalizzati (sotto l’ombrello della confederazione “sorella” LO) formano il nucleo centrale; quel mondo cittadino più “movimentista” o la provincia delusa dalla socialdemocrazia, dove è più forte V; l’elettorato preminentemente cittadino, più giovane e di classe medio-alta dei verdi, visti come un “cavallo di Troia” nelle constituencies tradizionalmente di centrodestra, in grado di spostare l’ago della bilancia.

È vero che i verdi attraggono elettori in aree in cui i socialdemocratici sono storicamente più deboli. Ma quello che accade nel 2010, in cui il Miljöpartiet ottiene il massimo storico (7,3% e 25 seggi, terzo partito), è di segno diverso: i verdi si sostituiscono ai socialdemocratici in vaste aree cittadine come partito principale della sinistra. Ora che i verdi hanno un profilo più evidentemente di centrosinistra diventano in un certo senso il partito di riferimento naturale per molti elettori progressisti di città, relegando S intorno al 20% a Stoccolma: una forza di media grandezza.

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Insomma, per la prima volta le configurazioni dei due blocchi sono assimilabili. Abbiamo in ciascuno un partito dominante, ma non egemone, almeno nel senso più forte del termine: fermo al 30%, esso rappresenta almeno il 60% dei voti dati complessivamente al blocco. Se, nel caso di S, questo è un accidente degli ultimi due decenni – e la quota resta più vicina al 70% che al 60%, quando ancora nel 1985 era l’86,6% – per il centrodestra è una novità assoluta: è sempre stato molto raro che un partito ottenesse più del 50% dei voti totali dello schieramento, e questo vuol dire che quasi mai hanno superato il 25% dei voti. Negli anni ‘90 e 2000 M però ha sempre rappresentato più della metà dei voti del centrodestra. Unica eccezione il 2001, in cui collassò al 15,3%: un po’ un accidente, un po’ la dimostrazione di quanto possa essere ondivago l’andamento elettorale dei partiti borghesi in Svezia e in Scandinavia in genere.

Se dunque la nuova conformazione del centrosinistra è dovuta, oltre che al calo del partito egemone, alla crescita delle forze minori, quella del centrodestra si deve a un processo opposto: nel corso degli anni M ha fagocitato l’elettorato dei compagni di avventura. I numeri sono chiari: dal 1991 in poi, liberali e agrari, in passato forze abbastanza rilevanti da esprimere il primo ministro, sono relegati sotto il 10% (con un’unica eccezione, Fp nel 2002, quando raccoglie i voti persi da M). In questi due decenni i cristiano-democratici, pur superando il 10% nel 1998, momento in cui gli altri due partiti borghesi minori rischiano seriamente di scomparire, restano sempre forza di secondo piano. In sostanza abbiamo un partito chiaramente maggiore, ma non del tutto affidabile, e tre partiti chiaramente minori, che devono iniziare a guardarsi dalla soglia del 4%.

Anche solo uno di essi finisse sotto sbarramento, in futuro, per gli altri sarebbe un disastro. Ci ritroveremmo in una situazione simile a quella norvegese, dove nelle ultime tre elezioni le fortune del centrodestra sono state in mano alla sopravvivenza del piccolo partito liberale: nel 2009, finendo sotto sbarramento per poche migliaia di voti, permise al centrosinistra di mantenere la maggioranza parlamentare.

Abbiamo tenuto per ultima l’innovazione in effetti più rilevante delle elezioni del 2010: nel momento in cui sembrano essersi cementati due blocchi speculari, la stessa politica dei blocchi entra in crisi. In questo scenario che abbiamo descritto praticamente come trionfalistico per le forze di centrodestra, dobbiamo ricordare che esse hanno riportato una perdita netta di 5 seggi rispetto al 2006, pur ottenendo più voti. A trascinare la “destra” politica al suo miglior risultato degli ultimi 60 anni (55%) è anche un altro partito, che col 5,7% entra in parlamento per la prima volta ora ma che già nel 2006 aveva sfiorato il 3% dei voti; ed è un partito con cui le forze del centrodestra tradizionale non hanno intenzione di fare compromessi. Siamo finalmente arrivati agli Sverigedemokraterna.

Chi sono gli Sverigedemokraterna? Brevi cenni

Non possiamo dedicarci a una trattazione troppo approfondita del fenomeno SD, perché meriterebbe un’analisi a parte. Il rischio di uno sguardo superficiale d’altro canto è di presentare solo una serie di stereotipi, specie in un momento in cui il partito si trova nell’occhio del ciclone. Cercheremo qui di tracciarne alcune caratteristiche fondamentali rimettendo un esame più approfondito ad opera futura.

Alcuni, tra cui spicca il primo ministro Löfven, hanno definito SD una “frangia neo-fascista”. Se andiamo a guardarne solo la genesi e i primi passi, possiamo dire che non si tratta di un’affermazione infondata. SD nasce da un processo di fusione, terminato nel 1988, di alcuni piccoli movimenti apertamente di estrema destra con base tra Stoccolma e la regione meridionale della Scania. Attira particolarmente l’attenzione uno di questi, dal nome Bevara Sverige Svenskt (“mantieni la Svezia svedese”), un movimento single-issue anti-immigrazione, che vantava la presenza di noti neonazisti e la cui propaganda conteneva amenità come invitare le ragazze svedesi a “non accoppiarsi con negri [sic]”, in quanto “portatori di AIDS” e per “non contaminare la razza”, riservandosi però l’aborto solo nei casi di “emergenza”. Il motto Bevara Sverige Svenskt è rimasto nella propaganda di SD fino agli anni 2000, ma nel frattempo il partito aveva iniziato a trasformarsi.

Inizia un lungo processo di “moderazione” in cui i modelli di riferimento diventano prima il Front National francese (da cui ottiene finanziamenti) e, infine, i partiti “populisti di destra” dei paesi vicini. Il logo del partito, dalla classica fiamma neofascista, diventa una innocua blåsippa (un fiorellino azzurro). Gli elementi più radicali vengono espulsi e alla guida del partito arrivano dirigenti senza background evidente nei movimenti di destra identitaria: queste persone (tra cui l’attuale leader Jimmie Akesson, riprodotto nell’immagine di copertina) in genere provengono dalla Scania, un’area in passato a tradizione socialdemocratica divenuta col tempo “laboratorio” del radicalismo di destra in terra nordica. La Scania è la regione che fronteggia le coste della Danimarca, ed è notevole centro di immigrazione. L’irrigidimento delle leggi migratorie danesi, dovuto all’influenza del Dansk Folkeparti, oltre a trasferire masse di persone nelle terre confinanti è stato importante fonte di ispirazione per i movimenti locali.

Se analizziamo le politiche proposte, oggi SD non è facilmente distinguibile dai corrispettivi norvegesi e danesi, da questi ultimi in particolare. E’ un partito euroscettico, non-liberale, sostenitore del welfare state, sia pur per i soli svedesi; tende però a votare con i partiti borghesi quando ne ha l’opportunità. Dal punto di vista sociale è decisamente conservatore, anche se da questo punto di vista non abbiamo nulla di sorprendente per un europeo del sud; la retorica nazionalista è ancora molto intensa, tanto che esponenti di primo piano negano l’attribuzione di “svedesità” alle minoranze etniche, ivi inclusi gli autoctoni sami, rom ed ebrei, se non “pienamente assimilati” nella cultura svedese.

Dovrebbe essere abbastanza evidente già da questa brevissima descrizione la ragione della natura di paria di questo partito, se possibile – ed è possibile – ancor più profonda di quella degli altri “populisti di destra” di cui abbiamo parlato. La questione è che questi paria hanno iniziato a prendere voti, e parecchi, da ampi settori della popolazione e da tutto lo spettro politico: astenuti, working class in aree tradizionalmente di sinistra, disoccupati – core constituency nel 2010 – e, dal 2014 in modo evidente, anche dal centrodestra moderato, liberale, aperto e “progressista” che ha governato la Svezia negli ultimi 8 anni. E’ quest’ultimo spostamento ad aver cambiato le carte in tavola.

[ Continua: Che cosa è successo in Svezia? Una rinnovata polarizzazione – quarta e ultima parte ]


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Scritto da
Roberto Volpe

Classe 1993, studia Governo e Politiche alla Luiss di Roma e fa parte dei fondatori di Rethinking Economics Italia. Quando ha voglia di rilassarsi scrive di Scandinavia dove può.

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