Populismo e disgregazione sociale. Intervista a Marco Tarchi
- 23 Giugno 2024

Populismo e disgregazione sociale. Intervista a Marco Tarchi

Scritto da Sofia Siemoni

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Il concetto di disgregazione sociale può essere declinato secondo molteplici accezioni. Una di esse è relativa alla perdita di legame tra dimensione politica e cittadinanza. Il fenomeno populista può agire in questa distanza. Per approfondire questi concetti e il ruolo del populismo rispetto alle dinamiche di disgregazione e coesione sociale, abbiamo intervistato Marco Tarchi, Professore emerito di Scienza politica all’Università di Firenze, che ha lungamente studiato queste tematiche e vi ha dedicato numerose pubblicazioni tra cui Italia populista. Dal qualunquismo a Beppe Grillo, edito da il Mulino.


Facendo riferimento a Peter Mair e al fenomeno dello svuotamento dello spazio politico, possiamo spiegare, almeno in parte, il successo dei partiti populisti con la capacità da essi rivendicata di colmare il “vuoto politico” lasciato dai partiti tradizionali?

Marco Tarchi: Certamente sì. Più specificamente, i partiti populisti hanno avuto la capacità di raccogliere, articolare ed esprimere pubblicamente una serie di domande che i partiti tradizionali non consideravano degne di risposta, ritenendo che fossero espressione di minoranze confinate nella marginalità, diversamente da altre, che erano viste come l’avanguardia di ampi moti di opinione: l’esempio più evidente è quello degli ambienti Lgbtq+. Si è invece dimostrato che in materia di immigrazione, di difesa di una concezione tradizionale della sessualità e della famiglia, di preservazione di identità locali, ecc. una consistente parte dell’opinione pubblica era alla ricerca di interpreti delle proprie preoccupazioni. E li ha trovati in formazioni che ne hanno fatto una piattaforma per la loro critica dell’establishment. Nella stessa ottica si possono inquadrare le forme assunte da manifestazioni di una sorta di lotta di classe di nuovo genere da parte di categorie sociali danneggiate dalla globalizzazione e dalla connessa liberalizzazione di alcuni settori economici: produttori agricoli, operai non qualificati, titolari di licenze di commercio. Tutto un pubblico a cui i partiti storici, condizionati dagli interessi dei settori trainanti dell’economia – finanza e grande industria in primo luogo – non hanno dato ascolto né risposte.

 

Relativamente alla crisi dei partiti, si è soliti riferirsi al passaggio che conduce dalla democrazia dei partiti alla democrazia del pubblico. La “popolocrazia”, espressione coniata da Ilvo Diamanti e Marc Lazar, è solo una delle formule che rimandano alla centralità assunta dal popolo nel dibattito politico. Sebbene i partiti populisti si riferiscono spesso a un popolo che appare generico e ampio, la realtà dei fatti costringe a fare i conti con un elettorato profondamente disomogeneo e frammentato per interessi e preoccupazioni. Dinanzi a tale liquidità, quale popolo, dunque, è quello dei partiti populisti?

Marco Tarchi: Quello della “gente comune”, dell’uomo della strada: un concetto tanto generico quanto espandibile ai più diversi strati della popolazione. Non quindi un’entità organica cementata da legami comunitari – che può essere sbandierata come mito per evocare un paradiso perduto ma non può essere proposta come modello concreto – ma una collettività formata da tanti io dispersi e individualizzati, che soffrono questa condizione di anomia ma non sono in grado di sottrarsene e che soltanto riconoscendosi in un leader-ventriloquo possono avere la sensazione, o l’illusione, di riuscire a parlare con una voce sola e così potente da farsi ascoltare in alto, nei luoghi dove si assumono le decisioni. Un’espressione esemplare di questo processo è stata fornita da Beppe Grillo nella fase formativa del Movimento 5 Stelle, che ha saputo costruire un popolo, per quanto effimero, molto più efficacemente di quanto non abbiano fatto i seguaci di Ernesto Laclau, gli animatori di Podemos in primo luogo, troppo condizionati da scorie di vecchi catechismi ideologici.

 

Lei ha fatto riferimento all’affievolimento delle ideologie e al ridimensionamento organizzativo come a importanti cause dell’inadeguatezza dei partiti nell’orientare il voto dei cittadini. In questo contesto, alcuni partiti populisti hanno saputo far leva sulla delegittimazione dei partiti tradizionali, appropriandosi del loro spazio elettorale. Ma in che misura i partiti populisti sono in grado di presentarsi come bussole politiche alternative? Possiedono i tratti necessari per ricostruire (o riconfigurare) una stabile partecipazione politica?

Marco Tarchi: No, e del resto non è questa la loro funzione. Gli studiosi del populismo hanno spesso evocato l’espressione “momento populista” per sottolineare come il successo dei movimenti e dei partiti che si inscrivono in questo ambito sia legato alla percezione diffusa di una situazione di crisi. Le insorgenze populiste hanno carattere ciclico: l’immagine del fiume carsico proposta da Loris Zanatta rende bene l’idea. Sono strumenti, veicoli, canali attraverso i quali si esprimono stati d’animo che nel contesto politico-istituzionale non trovano soddisfazione. E il contatto con i loro sostenitori si mantiene soprattutto, finché sono in auge, sul piano delle emozioni, anche se è accompagnato dalla proposta di provvedimenti concreti, che hanno tuttavia perlopiù valore simbolico. È questo il motore di quello che è stato chiamato overpromising, la tendenza a fare promesse che quasi certamente non potranno essere mantenute, o perché il partito non raggiungerà ruoli di governo o perché, una volta che vi sarà pervenuto, ne sarà impedito dalle situazioni di fatto. Il populismo non contiene ricette operative precise: mira a soddisfare esigenze psicologiche di soggetti insoddisfatti. Più che raccogliere rancori e paure, come sostengono i suoi avversari, condensa aspettative utopiche di un orizzonte pacificato, rassicurato, depurato da conflittualità e quindi post-politico (o, se si vuole, impolitico).

 

Si fa spesso riferimento al cambiamento dei partiti e degli esponenti politici. Ma si parla meno frequentemente del mutamento dei cittadini. La funzione dei partiti è stata spesso paragonata a quella degli autobus: mezzi utili per percorrere alcune tappe da cui, però, il cittadino scenderà. A questo proposito, alla base del cambio dei modelli organizzativi della politica si trova anche un processo di presentificazione degli orizzonti dell’individuo. In altre parole, a volte sembra che il cittadino imputi quasi integralmente la colpa del malfunzionamento della democrazia ai partiti. Ma quanto contribuisce l’individuo moderno a favorire la dissoluzione dei partiti tradizionalmente intesi?

Marco Tarchi: Non va dimenticato che i partiti sono sempre stati, in ogni epoca e sotto qualsiasi denominazione, fazioni costituite da individui allo scopo di esercitare potere. Questo dato di fatto non è stato intaccato dalla retorica profusa dai loro esponenti in merito al “servizio da rendere alla collettività”, a prescindere dal grado di convinzione con cui questo argomento è stato espresso. E per raggiungere o mantenere il potere, gli esponenti dei partiti hanno sempre cercato di svolgere una funzione pedagogica nei confronti di coloro che intendevano guidare, convincendoli della bontà del proprio operato. I precetti religiosi hanno a lungo agevolato questo intento, fornendo una base di legittimazione sacrale a chi esercitava le funzioni di comando. Le ideologie hanno svolto lo stesso ruolo nell’epoca secolarizzata. Una volta esauritasi la forza di convinzione che esse esprimevano, era inevitabile che l’idea del bene comune di una determinata entità sociale si frammentasse, travolta dallo sviluppo degli interessi particolari, che hanno assunto una sempre maggiore capacità di organizzarsi in forme autonome dagli stessi partiti. Nel contesto di un’epoca come quella contemporanea, dominata da uno zeitgeist individualistico – di cui il liberalismo è la matrice storica e il capitalismo la trasposizione empirica più compiuta – era inevitabile che ciò comportasse un drastico ridimensionamento dei partiti e della loro funzione.

 

Riflettendo sul nuovo ruolo del cittadino nel dibattito politico, un elemento suscita particolare curiosità. Poiché l’individuo moderno è più istruito e, dunque, più autonomo nei processi cognitivi, si potrebbe supporre che quest’ultimo sia maggiormente interessato a controllare e influenzare agende e dibattiti politici. Si assiste invece a un suo allontanamento che si traduce nel disimpegno di una partecipazione attiva (si pensi alla figura del militante), ma anche passiva (con un’affluenza elettorale in netto calo). Come si può spiegare questa dinamica? 

Marco Tarchi: Un maggior grado di istruzione, e una maggiore autonomia nel processo cognitivo, possono favorire la comprensione di un tratto essenziale dello scenario contemporaneo, e cioè la sempre più accentuata subordinazione della politica e dei suoi autori ad altri centri di potere, in primo luogo quelli economico-finanziari. I populisti semplificano questo dato di fatto con il ricorso a teorie complottiste e con il culto dei retroscena per rendere più suggestiva la propria predicazione, ma al di là delle esagerazioni e delle elucubrazioni la realtà è quella da cui il loro messaggio acquista forza. Molti cittadini percepiscono che le decisioni destinate a condizionare la loro vita sotto forma di provvedimenti di legge non vengono prese dai rappresentanti eletti ma da altri soggetti che li condizionano, e per questo perdono fiducia e interesse nei confronti della partecipazione alla vita pubblica. A ciò va aggiunto che, grazie alla onnipervadenza degli strumenti di comunicazione, molto del tempo libero dal lavoro o dallo studio di gran parte degli individui è oggi occupato dalla dimensione dei rapporti interpersonali privati, e gli spazi da dedicare ad altro si sono drasticamente ristretti.

 

In Anatomia del populismo emerge con frequenza uno dei limiti maggiori dei partiti populisti, cioè, quello di promuovere un discorso politico che rappresenta un’arma a doppio taglio. Questi partiti possono diventare vittima della volatilità da cui hanno tratto vantaggio. L’overpromising e l’accattivante semplicità dei loro discorsi possono facilmente stancare gli elettori? O permane la tendenza a favorire queste realtà politiche alle elezioni? Quali crede potranno essere i principali scenari futuri?

Marco Tarchi: Come ho detto, la natura del populismo è ciclica e le sue manifestazioni sono legate alla percezione diffusa di situazioni di crisi che necessitano, agli occhi dei potenziali sostenitori, la loro entrata in scena. Di conseguenza, i successi dei partiti populisti sono nella maggior parte dei casi transitori e non resistono alla prova del governo, a meno che non modifichino i loro connotati organizzativi e accettino la via dell’istituzionalizzazione, che però rischia di modificare radicalmente i connotati del loro discorso. Anche in questo caso, l’esempio del Movimento 5 Stelle calza a pennello. Ma se i partiti deludono i loro sostenitori, si trasformano, declinano o scompaiono, non vengono meno i fattori che ne hanno causato la nascita e/o l’ascesa, e quando questi riacquistano forza, la struttura delle opportunità si riapre e ricompare un vuoto nello spazio di competizione politica che deve essere riempito. E nuovi attori, portatori di un rinnovato messaggio populista, svolgeranno questo compito. Come aveva ben visto Margaret Canovan, il populismo è l’ombra della democrazia, da cui non sarà mai possibile staccarlo.

Scritto da
Sofia Siemoni

Laureata magistrale in scienze politiche, indirizzo sistemi elettorali e politici, all’Università “Cesare Alfieri” di Firenze. Tra il 2021 e il 2022 ha intrapreso due corsi in comunicazione politica ed elettorale, affiancandoli alle esperienze sul campo di alcune campagne elettorali a cui ha partecipato. Ha partecipato al corso 2023 della scuola di formazione “Traiettorie. Scuola di lettura del presente”.

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