“80. L’inizio della barbarie” di Paolo Morando
- 21 Febbraio 2016

“80. L’inizio della barbarie” di Paolo Morando

Recensione a: Paolo Morando, 80. L’inizio della barbarie, Laterza, Roma-Bari 2016, 242 pp., 16 euro (scheda libro)

Scritto da Federico Diamanti

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Approcciarsi ad un decennio problematico, complesso e multiforme come quello degli anni ’80 significa intraprendere una vera e propria impresa, di studio e di scrittura, sotto diversi punti di vista. Un dato da cui ogni analisi dovrebbe partire è certo: abbondano, riguardo questa decade, le fonti di natura non segnatamente storiografica: testimonianze di ordine sociologico, o semplicemente iconografiche, fotografiche, artistiche, musicali, cinematografiche; in breve, testimonianze ancora visibili e tangibili nell’immaginario culturale e artistico delle generazioni che in quegli anni crebbero. Latitano, altresì, le testimonianze storiografiche tout-court. Forse ancora troppo vicini per essere storia, senza alcun dubbio gli Ottanta risultano ancora troppo pesanti e influenti per un giudizio di valore che vada veramente oltre, superando la parziale linea di tendenza a politicizzare ogni analisi su quel complesso e tormentato periodo storico.1

Quanto sia difficile discutere e disaminare criticamente questa decade lo dimostra, con quell’icasticità che soltanto un’ottima spietata e triste ironia sa conferire ad un’analisi, un recente pezzo uscito il 22 gennaio 2016 su Il Foglio. La penna è quella di Andrea Ballarini. Titolo: “Gli anni ’80“. Sottotitolo: “Dopo vent’anni dalla sua fine ogni epoca è pronta per essere rivalutata. Un’occasione da non perdere per smerciare luoghi comuni d’annata“. Una sorta di florilegio di citazioni assolutamente stereotipate sul decennio che ha segnato in maniera incontrovertibile il tempo che definiamo post-postmoderno; per intenderci, gli anni che viviamo. Si passa dall’utilizzo di giunture tipiche e ormai usurate quali “Milano da bere“, a luoghi comuni sulla politica “All’epoca i socialisti rubavano l’impossibile…” sino a nozioni di ordine precipuamente economiche, su sfondo a tratti amaramente sociologico: “Paragonare gli milionari stipendi di allora, percepiti da deficienti che non hanno mai fatto altro che scaldare la scrivania in megamultinazionali, agli stage oltraggiosi che quelle stesse multinazionali propongono oggi a plurilaureati bravissimi“. Con poche battute, l’autore individua il clima che si crea attorno ad una discussione salottiera sugli anni ’80. Per invertire la rotta, nell’analisi e nel senso comune, per allontanarsi dalla faciloneria e dal pressapochismo del dibattito su questo controverso e al contempo necessario decennio pare sia necessaria un’impresa.

Ed ha compiuto proprio un’impresa – della cui riuscita ragioneremo in seguito – il giornalista trentino Paolo Morando offrendo al lettore una disamina articolata, puntuale in ogni suo aspetto e mai banale nella sua recente pubblicazione: ’80. L’inizio della barbarie (Laterza, gennaio 2016). Addentrandosi in questo mondo al contempo lontano e così prepotentemente vicino, il giornalista trentino traccia una sinottica geografia del decennio preso in analisi, non intrappolando il suo studio in sterili parcellizzazioni o compartimenti stagni. Proprio questo, infatti, pare essere ad una prima lettura uno dei punti di maggiore forza del volume: l’autore, e con questi il suo saggio, rende palese ed esplicita una vera e propria necessità per chi si vuole approcciare a livello storiografico a questo decennio: non trascurare nulla. Così come è necessario l’approfondimento storico, inteso nei suoi molteplici e diversi sensi (dalla storia dell’economia, quanto mai cruciale per questi anni, ad un’analisi più puntuale e cronachistica delle vicende politiche, financo giudiziarie), è altrettanto ineludibile indossare le lenti di una critica più sociologica e interessata ai fenomeni della cultura “di massa”, ai meccanismi della comunicazione pubblica, della pubblicità e dei, se ci è consentito il termine, mass media. Proprio a partire da queste due premesse Morando sembra dare inizio al suo trattato: l’impossibilità di eludere il taglio sociologico nell’analizzare questi anni; la consapevolezza di ritrovare, sviscerando in ogni manifestazione questo periodo storico, in nuce, molto di quello che siamo diventati a partire proprio da quella decade.

Dando sviluppo a una serie inquietante ed eterogenea di aggettivi legati all’Italia (si va da “becera” a “paninara”, da “razzista” a “rampante), Morando decide di impostare il suo saggio secondo quello che pare essere un criterio – o forse una semplice e cogente necessità – di vera e propria polisemia nell’analisi. Si parte da una serie di aggettivi (che potrebbero benissimo appartenere a quel manualetto da conversazione che si citava in incipit) e si tenta man mano di conferire ad essi, tramite una puntuale disamina di testimonianze storiche dirette e mediate da testi di approfondimento posteriori o coevi al periodo descritto, una serie di significati differenti e polimorfi. L’autore crea in prima battuta, dunque, una sorta di personale dizionarietto aggettivale dell’Italia degli Ottanta, senza mai sconfinare in una caratterizzazione banale o semplificatoria. Non è sua intenzione creare un modello di interpretazione del suo oggetto di studio: piuttosto, il tentativo del saggio è quello di rendere conto di una serie di eventi caratterizzanti l’epoca e di una serie di interpretazioni possibili, offrendo solo in un secondo momento, con elementi di chiarezza in più una puntuale analisi della documentazione tenuta presente per l’impostazione del discorso, una linea interpretativa netta e definita.

Nonostante il chiarissimo delinearsi dell’impostazione del problema e la sua necessaria risoluzione teorica e di giudizio, Morando non può non constatare, proprio nel Prologo, la diffusa e inaspettatamente crescente, anno dopo anno, nostalgia nei confronti di quel decennio: dalla cultura musicale a quella artistica, il senso di rimpianto e irrecuperabile, elegiaca lontananza nei confronti di quell’universo camaleontico – che De Rita definì “di soggettività senza interiorità” – sembra farsi sempre più forte e impellente. Gli adolescenti di quegli anni sembrano aver mitizzato, tramite una complessa serie di icone destinate a creare un immaginario collettivo, eterogeneo e volgarmente liberatorio, gli anni ’80: a cui continuano a tendere, con sguardo e animo ben rivolto, illuminati dal barbaglio e dall’abbaglio della luccicante epoca. Sembrano scordarsi della strage di Bologna, dell’Irpinia, della P2, di Calvi e di Dalla Chiesa; obnubilati da Paolo Rossi, dalle luci della televisione e dal rilancio dell’immagine dell’Italia nel mondo. Proprio da qui si parte: Morando è convinto della necessità di guardarsi indietro: non per farsi abbagliare, certo. In qualche modo, per rispecchiarsi nelle proprie origini e trovare il seme di quella barbarie di cui paghiamo oggi lo scotto.

Barbarie che, come già evidenziato, si manifesta in modi e campi del tutto eterogenei e differenti. Il libro si apre e chiude, quasi si trattasse d’una singolare e amara ringkomposition, con due elementi che si richiamano tra loro. Gli anni ’80 sono gli anni dell’imbarbarimento dei toni e degli attacchi nei confronti dell’altro, del diverso; in quel decennio, sembra supporre l’analisi portata alla luce dall’autore, dietro al rampantismo e alle potenzialità illimitate sembrano farsi via via strada paura, tendenza all’isolamento e alla regionalizzazione della politica, al razzismo come esplicito, non più celato, motore della lotta politica. È così che Morando, nel capitolo L’Italia nordista, racconta la articolata, complessa e poco conosciuta storia dei primi movimenti autonomisti. Il primo caso campione è quello, tutto interno agli Ottanta (la data di fondazione sembra quasi simbolica: 16 gennaio del 1980), della Liga Veneta. Il primo episodio esemplare? L’apparizione, divenuta in breve nell’opinione pubblica e comune caso nazionale, di alcune scritte inneggianti alla potenzialmente catastrofica eruzione del vulcano Etna. Proprio in questa descrizione Morando dimostra uno sguardo ampio e completo sul fenomeno. Non ci si limita soltanto al fatto politico, si tenta di disambiguare la questione culturale. E se la cultura passa necessariamente dalla lingua, ecco che il capitolo si incentra proprio su alcuni stilemi tipici e sull’insistente tipicità dialettale dell’alba delle leghe e conclude amaramente: “[…] da slogan odioso, come sempre in questi casi, “Forza Etna” si trasformerà via via in motto scherzoso, buono per tutte le occasioni” (p.46). Ma non è tutto: dai pericolosi impulsi folkloristici e regionali della prima Liga Veneta (mai ridotti a scherzo o fenomeno transitorio nell’analisi, quanto piuttosto interpretati quali ineludibili spinte d’avviamento per un processo che sembra culminare con i movimenti populisti dell’oggi) passiamo ai costumi d’una nazione. Proprio in tal senso si chiude il libro: esemplificando le vicende di Ahmed Ali Giama e Jerry Essan Maslo, nomi che al lettore faranno forse sovvenire qualcosa alla mente, Morando trae un campionario delle tinte, linguistiche e politiche, forti e cupe, di un’Italia che inneggiante all’odio. Un tout se tient di volgarità e razzismo.

Grande attenzione viene conferita, ed è senza alcun dubbio uno dei punti di maggior originalità della pubblicazione, ai linguaggi e alle parole che più rappresentano, a detta dell’autore, lo sfascio civile del Paese in quel decennio. Partiamo da una considerazione: le regole e le forme della politica sono profondamente cambiate. Non sarà nostro compito, qui, ricordare quanto gli anni ’80 siano determinati, a livello di impegno nella società, dal generale riflusso – che agisce sulle giovani generazioni così come sugli intellettuali – provocato dal fallimento delle stagioni segnate dal ’68 e dal ’77. Assieme a regole e forme della politica, cambiano parallelamente (i processi si compenetrano e non possono essere analizzati separatamente) i linguaggi e le modalità di comunicazione. Se dunque, nel capitolo L’Italia paninara, viene citata la testimonianza di un giovane dell’epoca che afferma: “[…] Se io sono di destra? No, della politica non me ne frega niente, anche se moltissimi di noi sono del Fronte della Gioventù” (p. 73), ecco che alle parole della politica viene sostituito un linguaggio nuovo, quello che Sebastiano Vassalli incasellerà nel suo personalissimo dizionario “Il neoitaliano. Le parole degli anni ’80“. Con un’operazione che ha del geniale, Vassalli riassume un’epoca attraverso le parole che cambiano nei significati, negli utilizzi, nelle sfumature di senso. “Cos’era il popolo ai tempi di Togliatti, Pavese, del Politecnico? Era una parola forte, indicava massa. Oggi è una parzialità: popolo di alfisti, popolo gay. E mobilitarsi? C’è una bella differenza da come la usava ieri il Pci e oggi il pubblicitario, che è lo spazzino e il condor dell’universo linguistico. Il pubblicitario la usa per il Salone del mobile con lo slogan ‘Mobilitatevi‘”. Ma non si tratta, come accennavamo sopra, solo di lingua: si tratta di modalità comunicative. Non si tratta soltanto del decennio della pubblicità sfrenata. E’ del 1986 un episodio spesso trascurato, ma che segna, quale spartiacque, le modalità della comunicazione politica. Craxi e De Mita sono legati dal cosiddetto informale “patto della staffetta”, che avrebbe visto la DC tornare al governo dopo più di mille giorni di governo Craxi. Sarà lo stesso Presidente del Consiglio a sconfessare pubblicamente il patto; non in una sede di partito, né tantomeno in una sede istituzionale. Lo farà intervistato in TV da Giovanni Minoli. Potremmo chiosare così: sono gli anni Ottanta, cosa ci potremmo aspettare di diverso?

Le nuove modalità di comunicazione, dalle nuove forme di pubblicità televisiva alla radio – si tratta di tutta la humus da cui scaturirà la comunicazione via web, “che nulla dimentica e tutto rivomita” (p. 51) dà voce ad un’Italia sempre più volgare, scurrile, violenta e repressa; non è un problema soltanto di comunicazione. Secondo Morando, che reca esempi a suffragio, dall’esperimento delle telefonate a Radio Radicale ai centralini per l’assistenza sessuale telefonica, è un’Italia obnubilata dal vuoto anche e soprattutto nei contenuti. Il riflusso politico ha portato a questo. Lo nota Miriam Mafai su Repubblica (p. 104), riferendosi proprio all’esperimento tentò Radio Radicale, a rischio di chiusura, aprendo i suoi microfoni alle telefonate degli ascoltatori. Un misto di turpiloquio, violenza verbale e aggressività comunicativa. “Il saggio provvedimento della Procura di Roma [che decise di porre fine alla trasmissione ma di non chiudere l’emittente] rasserena la nostra coscienza, ci permette di dimenticare o ignorare l’esistenza vicino a noi di una Italia becera esibizionista razzista ed erotomane, insieme violenta e impotente“. Sembra avverarsi l’ultima predizione, o forse premonitrice constatazione, del Pasolini di Petrolio, più che degli scritti corsari e luterani. C’è un’Italia vuota di idee e colma di risentimento, un’Italia orgogliosamente volgare che fa della volgarità una vera e propria tendenza. È sotto questo segno che tutti gli anni ’80 possono essere letti e interpretati – racconta Morando con una prosa che non rinunzia mai ad una tagliente ironia tragica, giacché lo spettatore sa come andrà a finire la vicenda.

Non è invero l’unico punto di vista sugli anni ’80 possibile. Pier Vittorio Tondelli, in un articolo del 1990, si chiede: “Gli anni ’80 sono stati soltanto il decennio del rampantismo, dell’individualismo, della rivoluzione elettronica iniziata nel segno del computer e approdata ai riti del fax, gli anni dei guadagni veloci di Borsa, dell’ossessione pubblicitaria, del made in Italy, del trionfo dell’immagine sui contenuti, delle apparenze e delle forme sulla sostanza? […] Evidentemente no”. La critica e l’analisi storica non possono basarsi su simpatie o avversioni; e non possono nemmeno esser condotte con partigianeria e unanimismo di sorta. Debbono, però, esser animate da persuasioni forti, da espliciti obiettivi, da chiare linee di metodo e interpretazione. Ed è proprio questo il merito del libro di Morando: un indirizzo chiaro, definito, senza smorzature, tutto incentrato sulla perizia d’analisi dei testi e dei documenti. Non è però certo l’unica visione possibile. Non è nostro compito decidere da che parte porsi, in questa sede. È nostro compito però sottolineare la speranza che, a partire da questo libro che potrà rivelarsi un sasso nello stagno della critica storica sugli anni ’80, nuove e diverse voci si possano levare e nuovi e diversi argomenti si possano affrontare e criticare.


1# In questo senso si vogliono segnalare i tre più importanti e recenti contributi: Luca Pollini, L’Italia tra evasione e illusione (Bevivino, Milano, 2010); Il paese reale. Guido Crainz, Dall’assassinio di Moro all’Italia di oggi, (Donzelli, Roma, 2012); Marco Gervasoni, Storia d’Italia degli anni ottanta. Quando eravamo moderni, (Marsilio, Venezia, 2010).

Scritto da
Federico Diamanti

Studente di filologia classica e allievo del Collegio Superiore dell’Università di Bologna. Si occupa di presenze greche nell’umanesimo italiano, rapporti tra intellettuali e potere, della narrativa di Pier Vittorio Tondelli e delle forme poetiche del XX secolo.

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