Scritto da Nicolò Carboni
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Alla fine ci siamo arrivati: dopo cinque anni, troppe riunioni e poca politica l’Europa si trova immersa fino al collo nella tempesta perfetta. Un paese membro dell’Eurozona governato da partiti estremisti ha deciso di indire un referendum che, implicitamente, propone l’uscita dalla moneta unica.
Non è qui il caso di rivangare gli errori e le mancanze di entrambe le controparti negoziali: i creditori hanno mostrato un’ostinazione ideologica più simile al furore religioso che al calcolo economico mentre la Grecia ha pagato quarant’anni di mancate riforme e corruzione. Tsipras in questo senso sembrava una flebile speranza: a capo di un partito non compromesso con i potentati di Atene, il leader di Syriza ha cercato correttamente di spostare il negoziato dal piano tecnico a quello politico; una manovra intelligente che, non a caso, ha trovato il supporto (forse troppo felpato) di Angela Merkel e Juncker. In pochi mesi, però, il governo greco ha gettato al vento ogni minima speranza: stretto fra un programma elettorale irrealizzabile e l’incedere delle scadenze finanziarie, Tsipras a tratti è apparso quasi bipolare, ragionevole al Consiglio Europeo, rabbioso in TV e nelle interviste. Lui e il suo ministro dell’economia hanno cercato di replicare – con molto meno successo – lo schema Merkel/Schauble, con il primo accreditato fra i mediatori e il secondo assurto al rango di rockstar della politica economica non ortodossa.
Purtroppo però il gioco del poliziotto buono e del poliziotto cattivo funziona bene solo quando i due attori sono perfettamente coordinati. Troppa debolezza svela il bluff, mentre un eccesso di arroganza spezza ogni legame di fiducia con la controparte. Tsipras, forse per inesperienza, è stato ben presto oscurato da Varoufakis e a poco è servito cercare in maniera più o meno elegante di scaricarlo. La politica europea è fatta di regolamenti e numeri ma, come pochissimi hanno capito, dietro alle percentuali si nascondono relazioni umane, accordi politici e rispetto reciproco. I tempi del Congresso di Vienna e delle feluche sono passati, tuttavia presentarsi alle riunioni dopo aver detto alle agenzie stampa che il FMI è un’organizzazione criminale e che la Germania deve pagare i debiti di guerra dei Nazisti non è esattamente il biglietto da visita migliore.
Inoltre l’ossessione di Tsipras per la Banca Centrale Europea (“non cederemo al ricatto della BCE” ha ripetuto annunciando il referendum) lascia intendere che il Primo Ministro non ha ben chiaro come ragionano i suoi interlocutori. Se c’è un leader privo di colpe in tutta questa vicenda è proprio Mario Draghi che, con il quantitative easing e lo storico annuncio del “faremo quasiasi cosa per proteggere l’euro”, ha difeso le economie più deboli della zona euro anche a costo di scontrarsi con la Germania e con mezzo direttivo della BCE. Ancora oggi Francoforte è l’unico tubo d’ossigeno per la Grecia dato che senza i trasferimenti bancari decisi dall’Eurotower le finanze greche sarebbero già crollate. Insomma, se Draghi avesse veramente voluto “uccidere” il governo greco avrebbe potuto farlo molto prima e in maniera estremamente più dolorosa.
L’ultimo effetto speciale del governo greco, ovvero l’annuncio unilaterale di tenere domenica prossima un referendum sull’eventuale accordo, infine, presenta gigantesche ombre politiche e problemi tecnici non indifferenti.
Politicamente l’annuncio di Tsipras segna la morte completa della sua credibilità come leader progressista; ben sapendo che Syriza non avrebbe resistito alla firma di un nuovo memorandum, il Primo Ministro ha scaricato sul popolo greco ogni responsabilità. Non si tratta di un salutare ritorno alle democrazia, si tratta di una fuga deliberata dal governo, un rinunciare a decidere per non portare il peso dei propri errori. Tsipras somiglia più a Ponzio Pilato che a Pericle.
Sul lato tecnico, invece, il referendum pone un quesito quasi falso, al limite del truffaldino: qualora vincesse il si e, dunque, il governo approvasse il bailout non ci sono garanzie che i creditori accettino di discutere lo stesso documento. Tsipras si troverebbe privo di ogni legittimazione (avendo deciso di fare campagna per il no) e in molti potrebbero mettere in dubbio la sua affidabilità.
Comunque vada a finire non possiamo dire che la prima esperienza al governo di un partito “alternativo” al sistema classico sia finita in gloria: Tsipras si troverà a capo di un paese povero e umiliato, forse addirittura fallito, mentre le sue promesse elettorali finiranno nel tritacarne della speculazione internazionale. Syriza non ha tutte le colpe, forse ne ha meno di molti altri, tuttavia proprio la Grecia ci insegna che, a volte, per trionfare contro le forze del mondo ci sia bisogno di un Ulisse più che di un Achille.
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