Universalismo dei diritti e pluralismo culturale
- 10 Maggio 2015

Universalismo dei diritti e pluralismo culturale

Scritto da Sara Perillo

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Il tratto identitario di ciascuna società è la cultura che le è propria, ovvero quell’insieme di simboli, credenze, valori, religioni che ne costituiscono la linfa vitale. La perdita di questo nucleo valoriale si sostanzia, per una società, in una silenziosa perdita di sé. La cultura è qualcosa di ancestrale; è qualcosa che non può essere scissa dalla società, dagli uomini, e dal territorio ove essi vivono. Ciascuna società, attraverso la propria cultura e i propri valori è in grado di rispondere ai quei bisogni e a quelle richieste funzionali che vengono dal basso, dal popolo che anima la società stessa. Se è vero, così come ci rilevano quelle concezioni metafisiche di derivazione propriamente giudaico-cristiana, che l’ idea dell’umanità è unica, è ugualmente vero che ogni popolo, ergo ogni società, ha delle qualità peculiari che le sono proprie e ne costituiscono una vera e propria identità culturale, un humus inalienabile. Può esserci un’unica umanità, ma deve necessariamente esserci pluralismo culturale. In realtà, se prendiamo spunto dalle alcune teorie sociologiche, in primis quelle di Serge Latouche, per cultura si intendono le modalità attraverso le quali un popolo si adatta alle problematiche derivanti da un particolare momento storico, in un determinato territorio. D’altronde gli stessi diritti umani, quelli connessi all’essenza più profonda dell’umanità, e questo ce lo insegna Noberto Bobbio, sono ancestrali, partono dal basso, dalle lotte che un popolo è chiamato a fare1; pertanto i diritti sono propriamente storici, non sono dati una volta per tutte, sono piuttosto frutto della loro stessa storicità. Sono un caledoscopio, si mescolano alle tradizioni culturali di un popolo. I diritti, umani ed inalienabili, non possono essere dedotti da un unico fondamento storico, né tantomeno possono discendere da concezioni teleologiche e metafisiche comuni2. E sono, altresì, antinomici, come può coesistere il diritto ad avere un servo con l’eguale diritto di quest’ultimo di avere la propria libertà? Libertà di stampa o libertà di non essere lesi nella propria dignità umana? Il pendolo della bilancia è soggetto a continui movimenti oscillatori, chi può decretare il lato dal quale deve pendere? Chi vuole esportare valori dovrebbe essere comunque cosciente e rispettoso delle singole culture. I diritti diventano ovunque i diritti delle persone deboli, delle vittime che possono rivendicarli nei confronti dei loro oppressori; i diritti umani sono quelli delle vittime, non quelli dell’Occidente. Diritto e libertà rappresentano da sempre i due poli inconciliabili dai quali si muove la lotta umana, l’hegeliana lotta per il potere che porta alla cristallizzazione dell’ identità del servo e del padrone. Se ne deduce che la stessa idea di cultura è legata alla lotta, alla conquista dei diritti. Quello che da sempre chiamiamo “Occidente” e che oggi rappresenta l’alleanza tra “vecchia” e “nuova” Europa, è propriamente cultura con vocazione umanitaria ed universale. Ma non è l’unica , lo sono allo stesso modo quella islamica, o quella cinese, quella africana o quella induista, giusto per citarne alcune. Ma noi siamo davvero uguali ad un uomo islamico o ad un cinese? Lo siamo nella rappresentazione interna, tutti figli di un Dio, tutti frutto dell’ evoluzionismo darwiniano; ma non lo siamo nelle rappresentazioni esterne, nei simboli nei quali ci rivediamo, nei valori che ci appartengono, nelle religioni in cui riponiamo le nostre credenze, nelle lotte storiche che hanno portato all’ individuazione dei diritti civili e politici, o più semplicemente umani. La storia dell’umanità è intrisa di lotte per il potere e di conquiste di territori, ma è anche intrisa di riconoscimenti reciprochi, o meglio di riconoscimenti delle rispettive diversità. Nel momento in cui una cultura, per esempio quella Occidentale, si fa portavoce dei bisogni e delle esigenze di popoli lontani nello spazio e nel tempo, solo in parte sta esercitando la sua vocazione umanitaria, sia perché la lotta risulta essere sostanzialmente impari da un punto di vista scientifico-tecnologico; sia perché “l’occidentalizzazione del mondo”, nasconde spesso motivazioni di tipo economico più che di tipo propriamente giuridico o salvifico. Esportare un diritto, come ad esempio quello all’uguaglianza, piuttosto che il diritto alla libertà, dovrebbe significare insegnare ad un popolo ad esercitare tale diritto, al principale scopo della promozione della propria esistenza libera. Esportare un diritto con le armi significa assurgere a detentori di una verità assoluta, significa imporlo dall’alto, significa asservire il mondo al progresso tecnico- scientifico e a quelle logiche economiche che sono propriamente occidentali. Significa defraudare un dato popolo della propria cultura, ovvero del proprio modo di dare risposte ai bisogni naturali dell’ uomo. L’Occidente, così come le altre culture a vocazione universale, ingloba elidendo completamente la dicotomia amico/nemico. E, in questo modo, rivela il suo volto oscuro. Dietro l’umanizzazione del mondo e l’universalismo dei valori c’è sempre una supposizione di predominanza, che quasi nega lo sguardo dell’altro, come in un pericoloso gioco totalitario, è lo stesso progetto di dominio ad essere totalitario; d’ altronde ogni sovranità imperiale pretende l’ universalità. In effetti la conquista non è mai soltanto conquista militare o politica. L’uomo occidentale, coadiuvato dallo sviluppo della scienza, della comunicazione, forte delle convinzione di superiorità della propria civiltà, si veste di propositi di umanizzazione e civilizzazione nei confronti di tutti gli anfratti possibili del Globo. Da un punto di vista antropologico questo porta ad eliminare le differenze etniche e culturali a favore di un’ unica cultura ed identità. Il rischio, come osservato da autori quali Latouche o Featherstone potrebbe essere, però, quello di un’occidentalizzazione e di un eurocentrismo. In particolare Latouche ritiene che l’occidentalizzazione e l’universalismo di valori possano condurre a quel relativismo che ha già forgiato quelle teorie sull’ esaltazione identitaria. L’universalismo, infatti, non è altro che una creazione ideologica occidentale che in nome della propria identità (l’identità della “tribù occidentale”) pretende di imporre un imperialismo culturale al resto del mondo. Contro l’universalismo il filosofo ed economista francese ritiene sia opportuno : “valorizzare l’ aspirazione ad un dialogo fra culture, ad una coesistenza fra culture… Per questo alla prospettiva dell’universalismo [opponendo] piuttosto un “universalismo plurale,” che consiste nel riconoscimento e nella coesistenza di una diversità, e nel dialogo fra queste diversità.”

D’altronde se unica è l’umanità non è necessariamente vero che esista allo stesso tempo un’ unica cultura3. L’universalismo occidentale trova dall’altro lato un universalismo altrettanto forte che ne ostacola l’espansione. L’estremismo islamico ha una forza ugualmente inclusiva e persuasiva. La lotta tra questi due modelli culturali, tra questi due titani, dettata dal solipsismo più sfrenato, ha una forza letteralmente devastante. La lotta ideologica a volte può essere più devastante di quella fatta con le armi. La lotta ideologica può essere totalitaria; le ideologie stesse possono essere totalitarie in quanto pervadono tutti gli anfratti delle società. L’Occidente ha prodotto ed elaborato il sogno di una città emancipata dove tutti gli uomini dovrebbero avere il loro posto e nella quale ciascuno sarebbe un libero cittadino. La civitas maxima di kantiana memoria è espressione di un territorio unico ove ognuno trova il proprio posto, anche a costo di perdere la propria identità culturale e di essere sottoposto a continuo controllo . È un luogo ideale, un’utopia che in cambio della libertà rende tutti uguali, a prescindere dalle differenze etniche. I diritti dell’uomo e il rispetto della persona umana, così come il rispetto delle culture e dei diritti dei popoli dovrebbero far parte del progetto di civitas maxima. Ma non può esserci uguaglianza e fraternità senza il rispetto delle peculiarità culturali. Il totalitarismo ama l’uniforme, “la pluralità dell’umano è forse sul piano culturale, come sul piano genetico, la condizione della sua sopravvivenza”. Le differenze biologiche e culturali non si adattano all’universalismo di matrice giudaico- cristiana. D’altro canto l’estremizzazione delle differenze può condurre all’ incomunicabilità e all’ inconciliabilità tra culture. L’universalità di valori transnazionali e universali è un’illusione. L’unico valore davvero esportabile è quello del dialogo tra culture, del rispetto e della reciprocità umana. Il mondo è un pluriverso, non un universo; la pluralità umana è imprescindibile. L’ uniformità culturale pregiudica la creatività e le peculiarità culturali.

A tal proposito Latouche scriveva già negli anni ’90 “l ‘uomo non è mai completamente ad un’ unica dimensione, forse perché l’ umanizzazione passa per un sistema simbolico senza arbitrio e pertanto polisemico. L’adesione a dei valori non è mai stata assoluta ed esclusiva”. Può esserci commistione tra le culture quando ci sono dei valori condivisi o comunque compatibili. Quando, invece, una delle due culture perde la propria essenza, la propria identità, può parlarsi di aggressione e di imperialismo. Latouche a tal proposito parla di un vero e proprio etnocidio, ovvero dell’ ultimo stadio della deculturazione. “L’ introduzione dei valori occidentali, quella della scienza, della tecnica, dell’ economia, dello sviluppo, del dominio, della natura sono basi di deculturazione. Si tratta di una vera e propria conversione. La violenza distrugge, piuttosto che convertire davvero”.

Spesso la modalità attraverso la quale le culture a vocazione universale ed umanitaria esportano i propri valori è il dono, nel senso antropologico del termine che da un lato implica l’ impossibilità di rifiutarlo, dall’ altro crea un rapporto fideilistico che lega due poli imprescindibilmente. L’occidentalizzazione è non solo esportazione di valori, ma anche di istituzioni, di forme di stato, di istituti giuridici. È esportazione di forme di economia improntate al progresso all’arricchimento continuo. È esportazione dell’idea di un’ identità nazionale e dell’ appartenenza ad un’ unica comunità umana e giuridica allo stesso tempo. Le società occidentali sono in primis società politiche, il politico è per sua stessa natura espressione della socialità, rappresenta, una pluralità dinamica ove più voci formano un unicum trascendentale. La tendenza della società occidentale classica è, invece, quella alla reductio ad unum della pluralità di voci che si trasforma poi, sul piano più propriamente politico nella formazione dello Stato- nazione, come espressione della ricerca dell’ ordine. D’altronde anche il diritto internazionale, con le sue istituzioni e forme giuridiche non può essere scisso dalle tradizioni culturali, politiche e morali degli Stati che ne fanno parte. Esso, peraltro, si basa sull’ idea di Stato-nazione, è l’unicum cui convergono più Stati- nazione, ciascuno con la propria vocazione all’esclusività economica prima, giuridica poi. Il complesso di Stati che domina il mondo forma una società delle nazioni, ovvero un’associazione elettorale degli Stati membri. Ma bisogna tenere presente che all’ interno degli stessi Stati non ci sono valori assoluti, né tantomeno riconducibili ad un unico fondamento storico, morale o religioso. Peraltro, l’ Occidente, in quanto cultura a vocazione universale intende esportare non solo principi, diritti, ma anche benessere sviluppo.

Il teorico politico Carl Schmitt nei primi del Novecento riteneva che non potesse esistere un ordinamento giuridico pacificato, privo di conflitto, unificato. Le posizioni universaliste e pacifiste, così come le teorie antropologiche secondo le quali l’ uomo è “buono per natura” sono esse stesse polemiche perché in nome dell’ umanità tendono solo a legittimare i loro avversari come “nemici dell’ umanità”. E’ questa una contrapposizione tra pacifisti e non pacifisti. Guerra e pace, cittadino e nemico non si escludono mai, anzi ognuno è ragione dell’esistenza dell’altro. La polemicità e la pluralità cui Schmitt fa riferimento si traslano anche nella sua concezione del diritto internazionale4. Il mondo viene descritto da Schmitt nel Grossrarum come un grande spazio suddiviso in alcune aree geo-politiche. Il diritto internazionale nasce da tale suddivisione dello spazio; l’Europa, in particolare, si caratterizza per un sistema di reciproco riconoscimento degli Stati. L’ordine mondiale moderno è stabile proprio perché basato non sull’uguaglianza e sul pacifismo giuridico, ma sulla contrapposizione e divisione territoriale. Fin quando esistono più Stati non può esistere uno stato mondiale. Il mondo politico è un pluriverso, non un universo e pertanto la sua stessa ragion d’essere è la concomitanza dei particolarismi identitari, ovvero di quelle forme culturali che si sostanziano in una serie di simboli e credenze religiose, nonché delle modalità di adattamento alle problematiche di un dato momento storico.


1 Si parla spesso, a tal proposito di diritto di autodeterminazione dei popoli, proprio ad intendere questa lotta per la propria “libertà”. Determinarsi rappresenta, appunto, la riconquista della propria identità culturale.

2 Contrapponendosi a tale concezione John Rawls parla di overlapping conseusus (consenso per intersezione), e fa riferimento ad un punto dove convergono le varie religioni della terra, ovvero un nucleo valoriale ove non può che esserci consenso (in tema di costituzionalismo italiano potremmo parlare di principi inderogabili).

3 La concezione di un’ unica comunità umana è avallata dall’ esistenza, sempre più manifesta di un modello culturale transnazionale che uniforma la vita su scala mondiale.

4 La concezione shmittiana, così come quella di Foucault, si basano sull’ assunto che l’ identità si dà per negazione; sono sostanzialmente delle filosofie della differenza fondate sulla pluralità umana e culturale. Sono concettualizzazioni di antropologia del finito, secondo le quali l’ uomo, in quanto animale sociale (ma anche animale polemico) ha costantemente bisogno di sicurezza e, di conseguenza, di istituzioni che siano in grado di garantirla, insieme all’ ordine e alla pace e che siano in grado di proteggere gli uomini e di “ridurre la paura”. La differenza culturale viene proprio recepita come una risorsa irrinunciabile per lo sviluppo dell’ umanità.


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Scritto da
Sara Perillo

classe 1985, laureata in Giurisprudenza con tesi di stampo storico- filosofico. Da sempre appassionata al tema dei diritti e alla teoria politica e giuridica, in particolare ai filoni del giusnatturalismo e del giuspositivismo giurico.

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