La politica del commercio: il caso del riconoscimento dello status di market economy alla Cina
- 06 Luglio 2016

La politica del commercio: il caso del riconoscimento dello status di market economy alla Cina

Scritto da Lorenzo Cattani

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L’Unione Europea è divisa. Non solo per quanto riguarda le migrazioni, ma anche di fronte agli ultimi dibattiti in materia commerciale. Ci si riferisce nello specifico all’attuale dibattito, relativo al riconoscimento dello status di “economia di mercato” alla Repubblica Popolare Cinese, che ha spaccato gli stati membri tra chi saluta questa cesura storica con favore e chi con timore.

In questo momento, secondo il protocollo dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), per i partner commerciali della Cina, è abbastanza semplice dimostrare che Pechino vende sottocosto all’interno delle pratiche anti-dumping. Nello specifico, è sufficiente confrontare i prezzi finali di beni analoghi, prodotti in paesi simili affinché i paesi possano porre dazi sui beni in questioni, rifacendosi al cosiddetto “anti-dumping agreement” della WTO. Tuttavia, all’interno del protocollo con la Cina ha aderito alla WTO, il riconoscimento dello status di “market economy” dovrebbe scattare automaticamente dopo 15 anni. Il riconoscimento dovrebbe quindi entrare in vigore a partire da Dicembre 2016. Se quindi la Cina dovesse vedersi riconosciuto lo status di economia di mercato, tuttavia, le prove per far scattare le stesse sanzioni dovrebbero essere molto più convincenti, paragonando il costo dello stesso bene all’interno del mercato domestico del paese produttore. Tutto ciò, in pratica comporterebbe un forte abbassamento dei dazi sui beni cinesi. Da parte statunitense, tutto ciò è visto con molta preoccupazione: in un articolo del Economic Policy Institute, pubblicato nel settembre del 2015, Robert Scott e Xiao Jiang affermano che il riconoscimento dello status di economia di mercato alla Cina potrebbe causare una perdita dai 114,1 ai 228 miliardi di euro all’anno, che metterebbero a rischio da 1,7 a 3,5 milioni di posti di lavoro nei settori che si troverebbero a competere con le importazioni cinesi.

Quest’immagine è molto evocativa per via del suo forte significato politico: l’Europa “schiacciata” tra le due potenze, dove una cerca l’apertura (anche in risposta all’azione statunitense che ha portato, il 4 Febbraio 2016, alla firma della Trans Pacific Partnership, accordo di libero scambio che coinvolge gli USA e altri 11 paesi della Pacific Rim, e tra cui non figura la Cina) mentre l’altra la mette in guardia dai possibili danni economici che questa scelta potrebbe comportare. Come i flussi migratori mettono in crisi la tenuta dell’Unione Europea da un punto di vista politico, il riconoscimento dello status di market economy alla Cina evidenzia tutti i limiti dell’integrazione europea. Eppure, la divisione degli stati membri sulla questione non è una brutta notizia in sé. Infatti, in un periodo storico in cui ci viene detto che la globalizzazione spinga sempre più verso l’omologazione politico-economica dei regimi di produzione, il fatto che gli stati europei siano divisi su un tema simile indica che le differenze fra stati-nazione persistono e sono ancora rilevanti. Tuttavia, l’Europa ha trovato un altro scenario su cui disaggregarsi e un Europa disunita è un Europa che può diventare facile preda degli interessi statunitensi e cinesi. Come possono quindi ricomporsi le divisioni che attraversano i paesi membri, relativamente a questo ambito? Prima di tutto, bisogna capire da dove nascono le divisioni stesse.

Come riportato da Fabrizio Maronta in un suo articolo su Limes, i più importanti sponsor a favore del “sì” sono Regno Unito (che dopo il referendum dovrebbe essere ancora più a favore di un intensificazione degli scambi con la Cina), i paesi nordici e l’Olanda, favorevoli agli investimenti cinesi verso l’Europa. Dalla parte del “no” si possono trovare invece Italia, Francia, Spagna e Polonia. Come possono essere rintracciati quegli elementi che spingerebbero i primi a sostenere il “sì” e i secondi a sostenere il “no”? Si devono osservare quanto meno due elementi diversi: l’organizzazione del settore manifatturiero e la strategia di produzione.

Nel 2007, Bob Hancké e Andrea Hermann scrivevano di come in Europa potessero essere rinvenute diverse strategie di produzione all’interno dei vari paesi. Nello specifico, gli autori parlano di due strategie di produzione: una improntata all’alta qualità e un’altra improntata al contenimento dei costi. Nel primo caso, per perseguire al meglio la strategia di produzione, serve una forza lavoro con competenze molto specifiche, che permettano ai lavoratori di poter introdurre miglioramenti graduali nel bene prodotto, o nel processo di produzione dello stesso. Tuttavia, per fare in modo che i lavoratori siano incentivati ad ottenere tali competenze, serve un sistema centralizzato di contrattazione collettiva, condizione necessaria per lo sviluppo di un sistema di formazione che permetta l’acquisizione delle competenze necessarie. Nel secondo caso invece, la de-centralizzazione della contrattazione collettiva diventa strumento per aumentare l’efficienza del sistema, un sistema dove le competenze richieste ai lavoratori sono di tipo generaliste, per cui non serve un sistema di formazione professionale (vocational training), poiché vengono acquisite all’interno delle istituzioni educative formali, soprattutto all’interno dell’università.

Tuttavia, è molto interessante notare come i paesi in cui la strategia di produzione è di alta qualità siano anche paesi in cui il settore manifatturiero mantiene un ruolo di preminenza all’interno dell’economia, mentre all’interno dei paesi dove la strategia di produzione mira al contenimento dei costi sia il settore dei servizi a fare la parte del leone. Nel suo ultimo libro, infatti, Kathleen Thelen afferma che lo spostamento della produzione dalla manifattura ai servizi abbia portato ad uno scontro di interessi, proprio per via delle diverse necessità riconducibili a questi due settori.

Tuttavia, guardando all’elenco dei paesi favorevoli o contrari al riconoscimento della Cina in quanto economia di mercato, possiamo osservare paesi in cui il settore manifatturiero rappresenta tuttora una fetta molto importante dell’occupazione. Non stupisce invece che il Regno Unito ne sia a favore, poiché un paese che mira a produrre contenendo i costi, dove l’accesso al credito è maggiormente legato al mercato azionario e la regolamentazione del mercato del lavoro segue un principio di hire and fire.

Come mai quindi possiamo trovare economie coordinate di mercato come Svezia e Olanda che sostengono il “sì” e altre economie coordinate come Francia e Italia (che pur essendo molto diverse dai paesi nordici sul profilo delle modalità di coordinamento, condividono la stessa strategia di produzione basata sull’alta qualità) invece sostengono il “no”.  Pensiamo che la risposta sia da cercare nel grado di “pacificazione” delle relazioni industriali all’interno delle singole economie. Non a caso i paesi che osteggiano il riconoscimento dello status di economia di mercato alla Cina sono paesi in cui le relazioni industriali si trovano in una situazione molto più precaria rispetto a quella dei paesi favorevoli. Francia, Italia e Spagna sono, fra i paesi contrari, attraversati da forti tensioni all’interno delle proprie relazioni industriali (il recente scontro sulla Loi Travail francese evidenzia il forte divario fra le parti sociali e il governo), dove il conflitto tra imprenditori e lavoratori è molto aspro, un conflitto che lo stato non è riuscito a sanare.

All’interno della letteratura di political economy esiste un gruppo di autori che, dal 2001, parla di “Varietà di Capitalismo”, contestano l’idea per cui pressioni di mercato come la globalizzazione o il declino della manifattura stimolino una convergenza verso un unico, più efficiente, modello di capitalismo. L’idea è invece che ogni modello, essendo una diversa modalità di organizzazione del capitalismo, operi secondo una diversa logica e che sopravviva anche davanti a nuove sfide. A tal proposito, questi autori affermano che quando si parla di commercio internazionale, non sia sufficiente rifarsi al paradigma ricardiano del Vantaggio Comparato, per cui due paesi cominciano a commerciare tra loro perché ognuno si specializza nella produzione del bene che produce più efficacemente, ma che si debba guardare al “Vantaggio Istituzionale Comparato”. Gli autori ritengono infatti che il contesto istituzionale di un paese fornisca alle imprese determinati vantaggi, qualora queste ultime decidano di produrre determinati beni. Di conseguenza, più viene fatto ricorso alle istituzioni che incentivano il perseguimento della “giusta strategia di produzione”, più il paese sarà in grado di affrontare la competizione con i prodotti esteri. In questo senso, i governi di Francia Spagna e Italia dovrebbero ricordarsi che il loro successo economico è stato costruito sopra il coordinamento tra imprenditori e lavoratori (seppur in maniera diversa rispetto alle esperienze “continentali” e scandinave), e che finché non risolveranno questo fondamentale nodo, le grandi potenze emergenti come la Cina continueranno ad essere uno spauracchio per le loro economie. Solo in questo modo l’Europa potrà tornare ad essere veramente unita sotto un profilo politico-economico, dove l’unità e l’efficienza vengono raggiunte tramite la presa di coscienza delle differenze dei singoli paesi, senza cercare di voler applicare una ricetta economica che possa andare bene per tutti. Se gli stati membri saranno in grado di farlo, allora l’Europa potrà cominciare a ricostruire una strada verso una maggiore integrazione e un ritrovato ruolo nello scenario internazionale.


Bibliografia:

Estevez-Abe, M. Iversen, T. Soskice, D. (2001), Social Protection and the Formation of Skills: A Reinterpretation of the Welfare State, in: Peter Hall e David Soskice (a cura di), Varieties of Capitalism: The Institutional Foundations of Comparative Advantage, Oxford University Press pp 145-83.

Hall, P. Soskice, D. (2001), Introduction, in: Peter Hall e David Soskice (a cura di), Varieties of Capitalism: The Institutional Foundations of Comparative Advantage, Oxford University Press pp 1-68.

Hancké, B. Hermann, A. M. (2007), Wage Bargaining and Comparative Advantage in EMU, in: Bob Hancké, Martin Rhodes e Mark Thatcher (a cura di), Beyond Varieties of Capitalism: Conflict, Contradictions, and Complementarities in the European Economy, Oxford University Press, pp 122-44.

Maronta, F. (2016), Gli usi geopolitici del commercio, Limes, 1/03/2016

Onida, F. (2016), Le troppe ambiguità di Pechino, Il Sole 24 Ore, 8/06/2016

Scott, R Xiang, J (2015), Unilateral grant of market economy status to China would put millions of EU jobs at risk, Economic Policy Institute

Thelen, K. (2014), Varieties of Liberalization and the New Politics of Social Solidarity, New York: Cambridge University Press.


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Scritto da
Lorenzo Cattani

Assegnista di ricerca presso l’Università di Bologna dove ha conseguito un dottorato di ricerca in Sociologia e ricerca sociale. Ha frequentato un Master in Human Resources and Organization alla Bologna Business School (BBS) e conseguito la laurea magistrale in Scienze internazionali e diplomatiche all’Università di Bologna.

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