Scritto da Alessio Lo Giudice
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In Il dramma del giudizio – edito nel 2023 da Mimesis nella collana Contesti, diretta da Gaetano Insolera e Alessio Lanzi – Alessio Lo Giudice, Professore ordinario di Filosofia del diritto presso l’Università degli Studi di Messina, affronta il problema e la posta in gioco compresi nella questione del giudizio, riflettendo su quanto sia impegnativa, dal punto di vista esistenziale, prima ancora che sociale e politico, la pratica del giudizio. Pubblichiamo di seguito, per gentile concessione dell’autore e dell’editore, l’introduzione del volume.
Nel 1949, nel terzo numero della “Rivista di Diritto Processuale”, Francesco Carnelutti pubblica un articolo intitolato Torniamo al “Giudizio”. Si tratta di un’appassionata, quanto celebre, esortazione a riflettere sulla peculiarità della decisione giurisdizionale. Sulla sua irriducibilità alla questione del processo. Sulla necessità di volgere lo sguardo al giudizio per comprendere più in profondità il senso dell’esperienza giuridica, il senso del diritto: “Dopo aver tanto parlato di processo bisogna parlare di giudizio per capire non tanto il processo quanto il diritto cosa sia”[1].
Il giudizio quindi come chiave di accesso al diritto. Quale categoria ermeneutica della complessa pratica sociale in cui consiste il diritto. Carnelutti esorta a interrogarsi sulla facoltà di giudicare in senso generale (“Le nostre idee sono molto meno chiare intorno a che cosa sia giudicare”[2]). E lo afferma pensando che, così facendo, si possa dischiudere l’orizzonte di senso del diritto, quale fenomeno sociale fondato sulla capacità dell’essere umano di legare un predicato a un soggetto, di nominare e ordinare la realtà, attribuendo un significato alle azioni degli esseri umani stessi.
Dopo aver contestato la riduzione del giudizio ad un sillogismo e, di conseguenza, aver negato la possibilità stessa di affrontare la questione del giudizio esclusivamente con gli strumenti della logica, Carnelutti afferma che il giudizio che i giuristi debbono, in realtà, conoscere, è un dramma e non, appunto, un preparato logico.
E il dramma, in generale, implica azione. Già Aristotele coglie questa peculiarità contrapponendolo all’epica. Mentre il componimento epico comprende il racconto delle azioni da parte dell’autore, il dramma si presenta direttamente attraverso le azioni e i dialoghi dei personaggi. Non a caso, il termine dramma deriva dal greco, corrisponde al significato di “azione scenica”, e ha origine nel verbo “agire” (δρᾶμα -ατος, propr. “azione”, der. di δράω “agire”). Se a questo nesso con il concetto di azione si aggiunge l’accezione che il dramma assume prevalentemente nella modernità (reiterando comunque una componente già presente nel mondo antico) quale rappresentazione di conflitti sociali, politici, morali, famigliari e sentimentali, si comprende bene quale prospettiva si possa dischiudere associando, come propone Carnelutti, il giudizio al dramma quale espressione di un’azione conflittuale.
Il giudizio, allo stesso tempo, presuppone e genera azioni conflittuali. Non solo il conflitto tra parti ne è un presupposto, ma il giudizio causa potenzialmente anche l’opposizione tra chi giudica e chi è giudicato.
Ebbene, l’attenzione va posta soprattutto su questo secondo conflitto. E a tale versante pare riferirsi proprio Carnelutti quando, a conclusione del suo articolo, afferma che, al netto di tutti i concetti giuridici al cui studio ha dedicato gran parte della sua vita, sulla scena rimangono soltanto due esseri umani: “chi giudica e chi è giudicato. Due uomini. Questo è il problema. Due fratelli: questa è la soluzione”[3].
La natura drammatica del giudizio deriva, allora, dalla sua insopprimibile natura umana. Nel cuore del giudizio si insinua la contrapposizione tra esseri umani in carne e ossa (chi giudica e chi è giudicato), con tutto il corredo di desideri, necessità, convinzioni e inclinazioni che ciascuno porta con sé. Ma questo corredo è anche il limite di ogni giudizio. Il limite del giudizio dell’essere umano su altri esseri umani. E siffatto limite non può essere certamente superato mirando ad un’oggettività cui gli esseri umani, in quanto tali, non potranno mai accedere. Questo limite è, come si dirà in seguito, in sé insuperabile e rappresenta, se ben compreso, il problema stesso del giudizio.
Per Carnelutti il problema pare potersi risolvere tramite un percorso che renda gli esseri umani consapevoli, anche quando contrapposti, di essere fratelli. Fratelli in quanto esseri umani, in quanto soggetti finiti, carenti, bisognosi dell’altro per riconoscersi e completarsi. Il giudizio è dunque anche questo. Momento di comprensione della comune, fraterna, umanità. Momento che induce a comprendere come l’autoregolazione delle condotte da parte degli esseri umani stessi, che nel giudizio trova la sua più evidente manifestazione, sia una condizione del legame sociale. Della stessa fraternità umana.
Ma la classica definizione di Bulgaro (processus est actus trium personarum, actoris, rei, judicis), se applicata al giudizio oltre che al rapporto giuridico processuale, collocherebbe il dramma anche nell’atto stesso del giudicare. Non solo le dramatis personae sono incarnate, in senso stretto, da chi giudica e da chi è giudicato ma, più in profondità, giudicare sarebbe un’azione intrinsecamente drammatica, immersa nel conflitto generato dal limite di chi giudica. Il giudice è, allo stesso tempo, giudicato, perché deve fare i conti con l’inadeguatezza dell’essere umano, in quanto tale, a giudicare le azioni di altri esseri umani.
Un conflitto, dunque, che nasce dall’apparente incapacità di non essere parte (“v’è un uomo che non sia parte?”[4] si chiede ancora Carnelutti) e che è quindi anzitutto il conflitto del giudice con se stesso. E da cui si giunge appunto al conflitto tra il giudice e chi, in quanto essere umano, non accetta di essere giudicato da un altro essere umano.
Qui si coglie la portata del giudizio quale via d’accesso al diritto. La drammaticità del giudizio è infatti la drammaticità del diritto perché l’umanità del giudizio è l’umanità del diritto. Il diritto degli esseri umani in carne e ossa, degli esseri umani in azione, in conflitto e, comunque, alla ricerca degli altri. Di esseri umani che soffrono l’autolimitazione della libertà naturale che il diritto determina, e che, allo stesso tempo, in tale limitazione trovano la condizione della vita in comune e della propria esistenza quali esseri riconosciuti dagli altri in quanto dotati di dignità. Attraverso il diritto che lega, gli esseri umani scoprono la loro fragilità, l’illusione dell’onnipotenza, e la necessità della relazione. In tal modo comprendono, simultaneamente, come sia tanto discutibile e indebito, quanto necessario e desiderabile, regolare la vita attraverso le leggi.
Il giudizio è, dunque, un volto del diritto. La sublimazione del mistero del diritto (del suo essere, allo stesso tempo, innaturale ed eterno) si ha nel mistero del giudizio[5] (del suo essere, allo stesso tempo, inaccettabile e inevitabile).
Alla luce di queste considerazioni, ritornare al giudizio, cioè proporre nuovamente una riflessione sul giudizio, dopo più di settant’anni dalle pagine di Carnelutti, dopo le migliaia di pagine accumulatesi su tutto ciò che circonda il giudizio – dall’argomentazione giuridica all’interpretazione, dal ragionamento giuridico all’ermeneutica e alla retorica – significa tornare reiteratamente a pensare il diritto da un punto di vista radicalmente umano.
È il tempo che viviamo a ispirare questo pensiero, a richiederlo con urgenza[6]. Un tempo vissuto in balia di opposte rappresentazioni. Da una parte, la rappresentazione del diritto come fenomeno attratto e orientato dall’ideale dell’oggettività. Rappresentazione, questa, che si nutre sempre più delle aspettative riposte nelle potenzialità dell’intelligenza artificiale, nelle efficienti prestazioni, ad esempio, che la giustizia predittiva dovrebbe garantire. Dall’altra parte, la rappresentazione del diritto come esperienza che, se letta con realismo, si ridurrebbe alla pura discrezionalità, all’arbitrarietà dei soggetti in campo. Il creazionismo giudiziario, ad esempio, incarnerebbe al meglio la realtà del diritto con la quale bisognerebbe necessariamente fare i conti.
Si tratta, in entrambi i casi, di derive, distorsioni del diritto, figlie della tendenza imperante a semplificare fenomeni complessi, proprio come nel caso di quello giuridico. Tra i due modelli citati v’è però spazio per una concezione radicalmente umana del diritto che si distingua nettamente tanto dall’ideale dell’oggettività quanto dalla presunta inevitabilità del soggettivismo esasperato. Ed è proprio ritornando a riflettere sul giudizio che è possibile esplorare la concezione qui accennata.
Nelle pagine che seguono, di conseguenza, lo sfondo della riflessione sarà certamente dato dalla convinzione che nel giudizio si possa individuare una chiave di accesso privilegiata per la comprensione dell’esperienza giuridica. Il giudizio giuridico è, infatti, allo stesso tempo, paradigma della complessità del giudicare in generale e della complessità del diritto in particolare. A partire però da questo sfondo, si sosterrà come il giudizio giuridico non possa né ridursi ad un’operazione meramente logica né, allo stesso tempo, corrispondere a puro arbitrio o a discrezionalità illimitata. Ritornare al giudizio consente infatti di esplorare la radicale umanità del diritto e quindi la compresenza, nell’esperienza giuridica, tanto dell’espressione della soggettività libera, con le sue credenze e le sue aspirazioni, quanto della condivisione di un nucleo di significati, di principi, posto a tutela della dignità di ciascun essere umano.
Questa impostazione si risolve e si esplicita nella tesi generale secondo cui il giudizio giuridico è destinato a valutare le condotte e formulare delle prescrizioni (dover essere) rispondendo alla pretesa di giustizia. È questa, infatti, la pretesa che accompagna l’individuazione e la condivisione delle regole che compongono un ordinamento giuridico. Tale pretesa, a prescindere dalla specifica accezione del termine giustizia, è costitutiva del giudizio giuridico e, di conseguenza, determina l’allontanamento di tale giudizio tanto dalla meccanica del giudizio logico, conoscitivo e determinante, quanto da quella del soggettivismo arbitrario.
Rispondere alla pretesa di giustizia, infatti, da una parte comporta necessariamente il margine di autonomia interpretativa che chi giudica deve avere per poter cogliere la giustizia stessa nella legalità. Autonomia che conduce chi giudica a integrare incessantemente, sotto l’urgenza e la pressione dei casi singoli, il significato delle disposizioni per renderle sempre più adeguate alla pretesa di giustizia. Dall’altra parte, tale pretesa rappresenta un argine contro l’arbitrio soggettivo, contro la pura discrezionalità che può annidarsi anche nell’apparenza di un giudizio logicamente coerente. La pretesa di giustizia, infatti, negli ordinamenti che si sono consolidati, soprattutto in Occidente, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, è saldamente ancorata ai testi costituzionali. La Costituzione è l’espressione normativa di una aspirazione dinamica e condivisa alla giustizia nell’ambito di una comunità e di una cultura etico-sociale specifica.
Ciò non significa che nella Costituzione si possa trovare una concezione universale e indiscutibile di giustizia. Semplicemente non esiste un tale concetto universale. La Costituzione, però, fissa le traiettorie di significato, le aspirazioni valoriali, e quindi gli strumenti ermeneutici, che consentono al giudice di orientare la propria decisione verso la giustizia. Grazie a tali strumenti egli prende le mosse dal caso per individuare la regola adeguata alla pretesa di giustizia cui ogni giudizio giuridico deve rispondere, intuendo, a partire dall’umanità e dalla singolarità del caso, la misura di giustizia che esso richiede.
In effetti, giudicare il particolare umano con la necessità di rispondere alla pretesa di giustizia, senza possedere un concetto universale di giustizia sotto il quale si possano sussumere i casi secondo uno schema meramente logico, rappresenta la vera sfida del giudizio giuridico. Tesi ulteriore, dunque, che specifica la tesi generale proposta in precedenza, è che sia più confacente alla pratica del giudizio giuridico la forma di giudizio che Immanuel Kant, nella Critica del Giudizio, qualifica come riflettente. Il giudizio, proprio in questo suo essere riflettente, procede dal fatto alla regola nel tentativo di rispondere alla pretesa di fare giustizia. E tale tentativo si nutre tanto della sensibilità soggettiva del singolo giudice quanto di una determinata, perché condivisa in un dato contesto giuridico-culturale, aspirazione alla giustizia.
Ebbene, sia la tesi generale sia quella specifica sono, nelle pagine che seguono, proposte e analizzate come riferimenti ineludibili per un’adeguata filosofia del giudizio, intesa quale griglia critica per affrontare con responsabilità la complessa pratica del giudizio. Per esplorare un percorso distante tanto da quello proposto dal modello logicistico-sillogistico quanto da quello dell’irrazionalismo e dell’intuizionismo giudiziario, e per cogliere, in particolare, il senso di una concezione radicalmente umana, e quindi complessa e ambivalente, del diritto.
Del resto, le tesi menzionate matureranno nel testo a partire dalla comprensione più generale del problema che il giudizio porta con sé e della posta in gioco che è realmente al centro del giudizio. Problema e posta in gioco che si compenetrano reciprocamente, non potendosi pensare come questioni veramente autonome. Si tratterà, quindi, di comprendere problema e posta in gioco a partire dall’inevitabilità del giudizio, nonostante qualsiasi tendenza a rifiutarlo. A partire, soprattutto, dall’inevitabilità del giudizio che, come si è visto, è il più impegnativo per tutti noi: il giudizio dell’essere umano sulla condotta di un altro essere umano. Ma è proprio all’inevitabilità del giudizio, nel contesto della vita associata e regolata, che si attribuirà un significato diverso, liberando il giudizio dalla diffusa accezione che lo qualifica come un male da eliminare.
La posta in gioco si potrà comprendere soltanto se si individua, in particolare, il problema del giudizio nello scarto, nell’abisso incolmabile tra la conoscenza che abbiamo o possiamo avere dell’oggetto/soggetto che siamo chiamati a giudicare e il giudizio che comunque formuliamo su tale oggetto/soggetto. Solo in questo modo, solo attraverso la constatazione di questo abisso, si potrà apprendere come nel giudizio che comunque formuliamo ci sia in gioco la nostra libertà. Lungi dall’essere un male, il giudizio, se colto nello spazio delimitato dal problema che porta con sé e dalla posta in gioco che rappresenta, ci apparirà come l’espressione, allo stesso tempo, di una facoltà individuale e di una condizione sociale essenziale per l’essere umano.
Per chiarire lo sfondo della riflessione, supportare le tesi proposte, e approfondire quindi il problema e la posta in gioco compresi nella questione del giudizio, il testo si articolerà in sei brevi sezioni.
Nella prima si farà un rapido cenno alla crisi del giudizio e ad atteggiamenti diffusi di resistenza e rifiuto, se non proprio di opposizione, nei confronti del giudizio giuridico, che si possono cogliere nella letteratura novecentesca.
Nella seconda si darà conto di alcuni argomenti che sostengono l’essenzialità e l’importanza dell’attività del giudicare, tanto dal punto di vista esistenziale, attraverso l’opera di Franz Kafka, quanto dal punto di vista istituzionale, a partire dall’archetipo del giudizio dell’Areopago nell’Orestea di Eschilo.
Nella terza si farà riferimento alla riflessione sulla questione del giudizio nel mondo antico e in quello moderno. Dalla modernità, soprattutto, scaturisce, come si vedrà, il problema del giudizio che coincide con il limite stesso del giudicare.
Nella quarta sezione si preciserà la tesi generale circa il rapporto essenziale tra giudizio giuridico e pretesa di giustizia.
Nella quinta si presenterà la tesi particolare che vede nel giudizio riflettente la forma prevalente di comprensione del giudizio giuridico.
Infine, nella sezione conclusiva, si proporranno dei lineamenti di filosofia del giudizio giuridico che intendono, come anticipato, superare la sterile contrapposizione tra chi pensa che il giudice possa interpretare e creare a proprio piacimento e chi ritiene, invece, che il giudice, quale bocca della legge, debba sempre più ridursi alla versione umana di un algoritmo.
A prescindere dalla capacità delle tesi e degli argomenti proposti di risultare convincenti, l’auspicio è che la riflessione presentata in questo volume contribuisca a far comprendere fino a che punto sia impegnativa, dal punto di vista esistenziale, prima ancora che sociale e politico, la pratica del giudizio. Contribuisca, in particolare, a rafforzare in chi giudica la consapevolezza della responsabilità che si assume. Di quanto nel giudizio sia in gioco la propria e l’altrui libertà. Di come sia gravoso il fardello di cui il giudice si fa carico.
Un fardello che, seguendo la riflessione di Leonardo Sciascia, dovrebbe indurre chi giudica “all’accedere al giudicare come ad una dolorosa necessità, nell’assumere il giudicare come un continuo sacrificarsi all’inquietudine, al dubbio”. Ad assumere il potere che è associato al giudicare “come dramma, a dibatterlo ciascuno nella propria coscienza”[7]. Un dramma, insomma, inevitabile e liberatorio, ma pur sempre un dramma. Il dramma del giudizio.
[1] F. Carnelutti, Torniamo al “Giudizio”, in “Rivista di Diritto Processuale”, 3, 1949, pp. 167-168.
[2] Ivi, p. 168.
[3] Ivi, p. 174.
[4] Ivi, p. 173.
[5] Nella celebre conferenza tenuta a Catania nel 1949, Salvatore Satta individua nel processo un atto senza scopo. Il suo scopo sarebbe infatti il giudizio ma il giudizio non può essere, in realtà, scopo del processo perché quest’ultimo non sarebbe altro che giudizio. Il processo e il giudizio per Satta, dunque, quali atti coincidenti, “sono atti senza scopo, i soli atti della vita che non hanno uno scopo” (S. Satta, Il mistero del processo, 1949, in Id., Il mistero del processo, Adelphi, Milano 1994, p. 24). E non si tratterebbe di un paradosso, bensì di un mistero. Il mistero del processo e del giudizio che è mistero della vita ed è, per forza di cose, mistero del diritto. Infatti, il fiume dell’azione umana che, in quanto fiume, dovrebbe procedere senza interruzioni, si arresta a più riprese, si limita quindi, per sottoporsi al giudizio. Affinché questo fiume non diventi “un torrente folle che tutto travolga e sommerga” (ivi, p. 25), bisogna sottoporlo a battute d’arresto, al giudizio, a un atto “contrario all’economia della vita […] un atto antiumano, inumano” (ibi). Un atto che dà senso all’azione stessa. Un atto senza scopo e senza senso che, però, è portatore di senso. Per questo il giudizio è inevitabile come lo è il diritto.
[6] Il senso di tale urgenza è ben rappresentato, ad esempio, dall’ultimo lavoro di G. Zaccaria, Postdiritto. Nuove fonti, nuove categorie, il Mulino, Bologna 2022, in cui, a partire dalle sfide poste al diritto dal nostro tempo, non ultima la sfida tecnologica, si propone un’ulteriore riflessione su interpretazione e argomentazione nel quadro di una filosofia ermeneutica del diritto.
[7] L. Sciascia, La dolorosa necessità del giudicare, in “Il giudice”, anno I, n. 1, dicembre 1986, pp. 9-10.