Ridisegnare l’Italia: dal libro di Federico Butera
- 06 Settembre 2023

Ridisegnare l’Italia: dal libro di Federico Butera

Scritto da Federico Butera

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«Alla radice della debolezza del sistema economico e sociale italiano vi è una non riconosciuta questione organizzativa: l’Italia è una società di organizzazioni e lavori fortemente ineguali. Se è vero che è stato sviluppato un ampio repertorio di forme nuove di organizzazione, lavoro e stili di gestione eccellenti, assai più diffuse restano le realtà inefficaci, inefficienti, non sostenibili, regolate da prassi e culture organizzative novecentesche».

A partire dall’analisi del nostro Paese come “società di organizzazioni ineguali”, l’ultimo libro di Federico Butera – Disegnare l’Italia. Progetti e politiche per organizzazioni e lavori di qualità, recentemente edito da Egea – analizza le principali dimensioni della progettazione e dello sviluppo delle organizzazioni e riflette su come intervenire nella “questione organizzativa” italiana.

Federico Butera, studioso e progettista di organizzazioni complesse, è professore emerito di Scienze dell’organizzazione presso le Università Milano Bicocca e Roma Sapienza, Presidente della Fondazione IRSO e Direttore della rivista «Studi Organizzativi». Pubblichiamo di seguito, per gentile concessione dell’editore, un estratto del testo.


Forze e debolezze del sistema produttivo italiano 

L’Italia, come tutti i Paesi sviluppati, è una «società di organizzazioni». È fra le sette potenze industriali del mondo. Alcune sue aziende grandi e medie sono leader globali nei rispettivi settori (automazione, abbigliamento, alimentazione, arredamento accoglienza turistica). La crescita del PIL italiano, malgrado l’attuale crisi, è stata fra le più alte in Europa. Al nostro Paese è universalmente riconosciuto un patrimonio artistico e culturale incomparabile e una qualità media della vita migliore di quasi tutti i Paesi evoluti, tanto da fare del modo italiano di vivere un oggetto – realistico o irrealistico – di desiderio.

Ma, come abbiamo anticipato nell’Introduzione, da decenni l’Italia si caratterizza per i livelli fra i più bassi in Europa in quanto a produttività, qualità dei servizi, salari, istruzione superiore, efficienza dell’apparato pubblico e molto altro. Più elevati sono invece il debito pubblico, la disoccupazione giovanile, i NEET, le diseguaglianze, la quantità di lavori precari e scadenti, i divari territoriali, la corruzione e l’illegalità. Il Nord Italia ha performance migliori dell’Italia nel suo complesso e costituisce una global city region che compete con aree come la California, la regione di Shanghai, la Greater London e altre; tuttavia, anche il Nord è indietro rispetto agli altri Paesi europei per produttività e innovazione.

Sono 160mila le società di capitale italiane che – impiegando tra 10 e 249 addetti e con un giro d’affari compreso tra 2 e 50 milioni di euro – rientrano nella definizione europea di piccole, medie e microimprese (PMI). Esse sono responsabili, da sole, del 41 per cento dell’intero fatturato generato a livello nazionale, del 33 per cento dell’insieme degli occupati del settore privato e del 38 per cento del valore aggiunto del Paese. La maggior parte delle PMI, però, in Italia, non ha modernizzato le proprie organizzazioni e adotta assai lentamente le nuove tecnologie. Per l’ISTAT, sono solo il 25,64 per cento del totale le imprese «proattive in espansione o avanzate» che sanno che cosa fare per la trasformazione digitale e organizzativa e che prosperano malgrado la crisi; il restante 74,36 per cento (imprese denominate «statiche in crisi», «statiche resilienti», «proattive in sofferenza») avrebbe bisogno di cambiare strategia, mercato, organizzazione, sistema tecnologico, competenze[1]. Solo poche grandi imprese italiane hanno dimensioni e posizionamento alto nel ranking internazionale, mentre molte hanno pesanti deficit in materia di responsabilità sociale. Tutte sono continuamente sfidate nel mondo VUCA.

Il sistema Italia è influenzato pesantemente dalla critica qualità dei beni comuni per la competitività, quelli cioè che assicurano infrastrutture, sistemi di protezione del territorio, servizi, attrattività dei territori, supporto alle attività produttive, regolazione equa e legalità. L’istruzione, la sanità, il funzionamento della giustizia, il trasporto delle merci e delle persone, la sicurezza dei cittadini ecc. sono peggiori rispetto a quelli di altri Paesi europei. Le organizzazioni pubbliche o private che devono fornire servizi alle imprese e alle persone dovrebbero essere efficaci ed efficienti, ma raramente lo sono.

Le PA italiane sono in grande maggioranza altamente burocratiche, forniscono servizi insoddisfacenti, sono costose. Le organizzazioni del terzo settore per lo più non si sono modernizzate. Il lavoro autonomo soffre di precarietà. Risolvere queste emergenze e ridurre i gap con l’Europa è difficile e necessario, ma non ancora sufficiente. L’Italia fa parte di un’Europa che dovrà, tutta insieme, affrontare il cambiamento epocale della divisione mondiale del lavoro. Non è sostenibile sul lungo periodo una divisione nel Nord e nel Sud del mondo fra lavori ricchi e lavori poveri, fra creativi e schiavi. Nuovi modelli di organizzazione e di lavoro dovranno essere efficaci, sostenibili e anche trasferibili oltre i confini dell’Italia e dell’Europa: ma questo è il tema di un prossimo libro.

 

Covid-19, guerra, crisi energetica, inflazione 

L’emergenza Covid-19 è caduta su un sistema produttivo italiano da decenni debole. Durante la crisi del 2008 infatti si era generata una morìa di organizzazioni malate: decine di migliaia di imprese piccole erano fallite, molte si erano ridotte e avevano licenziato. Hanno resistito e si sono sviluppate alcune imprese medie champion, ma – come abbiamo detto – i loro esempi non si sono generalizzati quanto sarebbe stato necessario. Al contrario, hanno prosperato i club parassitari, i clan che gestiscono senza controllo una parte non marginale dell’economia e della società italiana, le organizzazioni criminali. Il lavoro è divenuto più precario.

La Quarta rivoluzione industriale, che era già cominciata, ha complicato ulteriormente il quadro: le nuove tecnologie hanno iniziato a eliminare posti di lavoro e a polarizzare fra organizzazioni capaci e organizzazioni che verranno marginalizzate se non attiveranno rapidi ed efficaci processi di cambiamento e innovazione.

L’emergenza ambientale è una sfida drammatica e l’Unione Europea, con Next Generation EU, l’ha messa al primo posto per i governi e per tutte le organizzazioni private e pubbliche, ma i disastri ambientali che si sono recentemente succeduti dicono quanto è difficile proteggersi dagli effetti del cambiamento climatico.

Lo tsunami Covid-19 ha quindi diluviato sul bagnato. Ha mostrato, al duro prezzo di vite umane e di penose malattie, l’inadeguata configurazione organizzativa e l’altrettanto inadeguato finanziamento della sanità pubblica italiana, la fragilità della scuola, la lentezza della giustizia, lo scarso finanziamento e la dispersione delle strutture di ricerca e universitarie, la fragilità delle piccole e medie imprese, l’insostenibile burocrazia pubblica avviluppata entro i vincoli del sistema normativo che privilegia la legittimità rispetto ai servizi, la timida attenzione di gran parte delle grandi imprese al bene comune, i problemi di coordinamento istituzionale fra Stato, Regioni, Comuni. In una parola, si era aggravata drammaticamente quella «questione organizzativa» italiana che da anni avrebbe richiesto quelle azioni potenti di rigenerazione delle organizzazioni, pubbliche e private, invocate da molti e sostenute ancora prima della pandemia nel mio libro Organizzazione e società[2].

L’invasione russa dell’Ucraina, l’alterazione degli equilibri geopolitici e delle catene di fornitura, la crisi energetica, l’inflazione hanno ora aperto scenari ancora più critici. Da dove ripartire? In Italia l’emergenza Covid-19 aveva già mostrato alcuni punti di forza da cui è opportuno ripartire per avviare quei processi «a doppia elica», vale a dire sia interventi di ristoro sia investimenti per un futuro diverso, resi oggi possibili dal PNRR.

Innanzitutto, durante la pandemia si erano manifestati con evidenza quegli eccellenti punti di forza che non da ora tengono in piedi il sistema Italia. In primo luogo, i sistemi professionali del mondo sanitario, dell’ordine pubblico, della ricerca, dell’istruzione, della logistica, dei servizi pubblici, della grande distribuzione, delle aziende manifatturiere che hanno compensato le performance delle organizzazioni difettose in cui operano. In secondo luogo, le eccellenze delle migliori grandi e medie imprese che, operando nelle fasi alte delle catene del valore, da anni sviluppano nuovi prodotti e servizi e cercano e creano nuovi mercati – l’Italian Way of Doing Industry che tra poco illustreremo. Non vanno dimenticate le eccellenze di alcune strutture private di servizi sanitari e educativi regolate dal pubblico. E, ancora, alcune Pubbliche Amministrazioni centrali come il MEF, l’INPS e l’INAIL, Regioni come l’Emilia-Romagna, il Lazio, il Veneto, Comuni come Milano, Pesaro e altri, che hanno mostrato anche durante la pandemia una grande capacità di sviluppare organizzazioni orientate al cliente e a una missione. E ancora, la vitalità di molte organizzazioni del terzo settore, prime fra tutte la Croce Rossa e la Caritas.

Durante la pandemia, poi, i sindacati, con grande responsabilità e capacità progettuale, hanno difeso insieme le aziende e la salute dei lavoratori, giocando un ruolo costruttivo simile a quello che avevano espresso nel dopoguerra.

E, non da ultimo, punti di forza sono state alcune organizzazioni pubbliche di difesa sociale che hanno fatto fronte all’inaspettato, come la Protezione Civile, l’Arma dei Carabinieri e la Polizia di Stato.

Ma soprattutto il comportamento dei cittadini italiani di fronte all’emergenza ha mostrato, nella stragrande maggioranza, straordinarie doti di coraggio, resilienza, disciplina, come ai tempi del secondo conflitto mondiale, doti non smentite neanche di fronte all’emergere – nell’ultimo periodo – di minoranze composite di antagonisti no vax. Gli italiani, in media, nella pandemia si sono mostrati migliori delle loro istituzioni e organizzazioni.

Nuove necessità hanno generato alcuni effetti collaterali positivi durante l’emergenza. Per esempio, l’adozione del telelavoro, in molti casi elevato a smart working, tenuto ibernato per decenni, ha mostrato su larga scala che un cambiamento nel modo di lavorare, di organizzare, di configurare i ruoli lavorativi è possibile e altamente positivo. L’utilizzo delle tecnologie digitali per chi ha lavorato e fatto scuola da casa ha registrato un balzo inatteso e promettente di ulteriori sviluppi.

Molte organizzazioni hanno assunto paradigmi nuovi: la crisi pandemica le ha moltiplicate, la policrisi in atto ancora di più. L’analisi e la progettazione di queste organizzazioni innovative sono l’oggetto di questo libro.

 

Le imprese: l’Italian Way of Doing Industry 

Comprendere e diffondere le esperienze delle straordinarie eccellenze di quel plotone di imprese champion che propongono un’originale Italian Way of Doing Industry è un punto di partenza privilegiato. Questo modello era stato individuato in una ricerca condotta da Giorgio De Michelis e da me[3]. Si tratta di un modello caratterizzato dalla simbiosi con il mercato, dall’internazionalizzazione, dall’alto livello tecnologico, dalla cura delle risorse umane, dalla governance condivisa e soprattutto dall’adozione di forme organizzative a rete e forme organiche e flessibili di organizzazione operativa. Le imprese protagoniste di questo modello sono quelle che consentono oggi un tasso di esportazione e un contributo all’aumento del PIL.

Oltre ai casi noti di imprese italiane divenute grandissime, come Ferrero o Luxottica, molte imprese eccellenti sono nate piccole e sono cresciute internazionalizzandosi come Technogym, Geox, Mapei, Brembo, Ima, Datalogic, Bonfiglioli, Reply, solo per fare qualche esempio. Le imprese medie eccellenti con fatturato entro i 500 milioni, da tempo monitorate da Mediobanca e Unioncamere, rientrano chiaramente nel citato paradigma dell’Italian Way of Doing Industry che illustreremo a fondo nel Capitolo 2.

 

Il terzo settore 

In Italia ha un peso rilevante il terzo settore, ossia quel complesso di cooperative sociali, associazioni di promozione sociale, associazioni di volontariato, organizzazioni non governative, onlus ecc. Alcune di queste sono efficaci ed efficienti; altre, invece, rappresentano incrostazioni costose del passato in cui si annidano perniciose lobby e clan. Questi enti vivono entro un’economia del welfare che si sta radicalmente modificando e richiede quindi riorganizzazioni profonde.

 

La Pubblica Amministrazione 

La debolezza dei beni comuni per la competitività dipende in gran parte dalla debolezza delle PA, malgrado il valore di alcune organizzazioni pubbliche, alcune università, scuole eccellenti. Le PA italiane in questi anni hanno tentato di affrontare tre sfide principali. La prima è stata quella di liberarsi dalla burocrazia, semplificando regolamenti, procedure e processi inefficaci, se non inutili. La seconda è stata quella di migliorare insieme servizi, organizzazione e tecnologia, e mobilitare l’energia dei dipendenti per andare verso un modello di Amministrazione che non si limita a regolamentare e autorizzare ma che, a costi contenuti, promuove e garantisce, direttamente o indirettamente, servizi di qualità ai cittadini. Infine, hanno cercato di costruirsi un’identità positiva, aumentando il proprio prestigio e abolendo (o almeno riducendo) i fenomeni di corruzione.

Le PA italiane, investite dal mutamento economico, tecnologico e sociale, sono – oggi assai più di ieri – obbligate a ristrutturarsi e a cambiare, adottando nuovi paradigmi. I principali capitoli di intervento, enunciati ma raramente coronati da successi apprezzabili, hanno riguardato: l’innovazione dei servizi; la rivoluzione digitale; l’efficienza e l’efficacia; lo sviluppo sostenibile entro un’economia globale; lo sviluppo di nuovi rapporti con le aree del sistema, i territori, le imprese; lo sviluppo di nuovi lavori e nuovi lavoratori; la promozione e la gestione moderna delle risorse umane: in sintesi, il potenziamento del valore pubblico. La pandemia e il quadro generale mondiale rendono ora improcrastinabili questi cambiamenti.

 

L’organizzazione: l’intendenza che seguirà? 

Organizzazione e lavoro sono la fonte della ricchezza delle nazioni, come scriveva Adam Smith. Come abbiamo anticipato, purtroppo, lo sviluppo di organizzazioni efficienti, efficaci, competitive, sostenibili non è stato né l’oggetto primario di politiche economiche, industriali, educative, né l’oggetto di patti fra i soggetti sociali e neanche materia di robusti programmi di ricerca e di formazione multidisciplinari. Purtroppo, la popolazione degli innovatori nelle imprese, nelle PA, nelle università, pur così importante, non è diventata una classe che ha coscienza di sé e una «voce» sua propria.

Negli anni recenti sono stati largamente evocati, ma raramente attuati su larga scala, gli interventi e i progetti su materie alla base della crisi italiana, che sarebbero fondamentali per attivare forze endogene che consentano di uscire dalla crisi stessa: la nascita e il rafforzamento di imprese (grandi, medie, piccole) capaci di competere e di assicurare sostenibilità sociale e ambientale; lo sviluppo di reti di imprese; il rilancio delle città e il rammendo delle periferie; la pianificazione dei territori; la riorganizzazione dei servizi pubblici; la riorganizzazione delle PA centrali e locali; il potenziamento delle organizzazioni di difesa contro i rischi ambientali; il rafforzamento delle organizzazioni impegnate nel contrasto della criminalità diffusa e organizzata; il cambiamento dell’organizzazione del lavoro intellettuale e manuale e dei contenuti dei lavori e delle nuove professioni; il reskilling e l’abilitazione dei giovani e degli anziani a operare in un mondo del lavoro in radicale cambiamento; la riorganizzazione del sistema educativo.

Sono davvero questi i temi chiave che possono incidere sulla crescita economica, sul superamento delle diseguaglianze sociali e territoriali, sulla riduzione delle aree di povertà, sulla difesa dei diritti. Le imprese, le PA, le organizzazioni del terzo settore, le reti, le piattaforme non solo richiedono continua manutenzione e aggiornamento, ma devono essere rigenerate con nuovi paradigmi, insieme alle tecnologie digitali e al lavoro di nuova concezione.

La cultura organizzativa, i modelli organizzativi, i programmi di sviluppo e innovazione, le competenze organizzative per lo più sono stati considerati l’«intendenza che seguirà» l’economia, la politica, il diritto. In Italia i patti fra i soggetti sociali non hanno riguardato quasi mai l’organizzazione e il lavoro «in sé» ma solo le dimensioni distributive, a differenza di Paesi come la Germania con la Mitbestimmung, la Scandinavia con l’Industrial Democracy, il Giappone con i programmi di lean production, gli USA con il programma National Partnership for Reinventing Government.

Possono le politiche pubbliche occuparsi dell’innovazione delle grandi imprese, delle PA e soprattutto delle piccole e medie imprese e della modernizzazione delle imprese sociali? Questi obiettivi non sono troppo differenziati, complicati e troppo a lungo termine per le agende dei governi e della politica?

In realtà, basterebbe far emergere l’incalcolabile patrimonio di esperienze, di best case, di progetti in corso come compito delle politiche pubbliche nei sistemi di organizzazioni private e pubbliche; basterebbe portare a unità le molte iniziative disperse attualmente già attivate dalle imprese, dal governo nazionale, dai governi regionali, dalle associazioni imprenditoriali, dalle università e dai centri di ricerca, dalle società di informatica e di consulenza.

Non si tratta però solo di diffondere le best practice: si tratta di individuare e diffondere nuovi modelli di sistema di produzione di beni e servizi. Il processo di profondo cambiamento dei modelli organizzativi in corso da cinquant’anni in Italia e nel mondo ha già visto entrare in crisi il modello taylor-fordista e la burocrazia gerarchica, i quali per oltre un secolo hanno modellato la società e l’economia dei Paesi avanzati. L’Italia, come gli altri Paesi sviluppati, fin dagli anni Settanta ha avuto alcuni casi tra i più evoluti e innovativi di cambiamento e trasformazione di organizzazioni che passavano, per usare delle metafore, da orologi a organismi viventi, da castelli autoreferenziati a reti vitali, ma questi modelli non si sono diffusi e generalizzati. Di questi progetti pionieristici in Italia e della ricerca italiana parleremo nel seguito di queste pagine ai Capitoli 4, 5 e 6. Per ridisegnare l’Italia «società di organizzazioni fondate sul lavoro» sono cinque le possibili aree di politiche pubbliche.

  • Occorrerebbe che la politica, il governo, i rappresentanti dell’economia e delle parti sociali, il mondo universitario assumessero la questione organizzativa non come l’«intendenza che seguirà», ma come l’oggetto di politiche dotate di investimenti e programmi specifici. Lo aveva fatto Roosevelt con il New Deal, lo aveva fatto De Gasperi con la ricostruzione postbellica, lo aveva fatto Schimdt con la Mitbestimmung, lo aveva fatto Palme con l’Industrial Democracy, lo avevano fatto Clinton e Gore con il programma Reinventing Government. Chi e come sarà in grado di guidare e assumersi la responsabilità del cambiamento in Italia, dove pure nel periodo postbellico erano emerse figure come De Gasperi, Trentin, Olivetti, Mattei, Saraceno?
  • Occorrerebbe offrire adeguati supporti professionali alle organizzazioni pubbliche e private, con investimenti consistenti e di qualità: aiutare i distretti, le PMI, le PA, le organizzazioni del terzo settore a rigenerarsi sviluppando insieme tecnologia, organizzazione, lavoro. Il governo centrale e quelli regionali dovrebbero promuovere piani trasparenti e coordinati e affinché le università, le società informatiche, di consulenza, di formazione – ossia le KIBS (Knowledge Intensive Business Services) – offrano supporti professionali di qualità alta a costi sostenibili. Oggi questo avviene talvolta con progetti di qualità, ma in modo frammentato e non trasparente: e soprattutto senza un patto fra le istituzioni e le parti sociali che sancisca come questo rappresenti una priorità culturale, economica e politica.
  • Occorrerebbe lanciare un programma di ricerca intervento nazionale sulle nuove forme di organizzazione, tecnologia, lavoro: ossia potenziare azioni e programmi per studiare, raccontare, tipizzare le nuove forme organizzative virtuose e i percorsi per generarle, realizzati nei tanti casi esemplari italiani e internazionali, e farli diventare cultura e metodi generalizzabili. Questo era avvenuto in passato, per esempio, con l’amministrazione di Maria Teresa d’Austria, con la fabbrica Ford, con il gruppo di via Panisperna, con la fabbrica Toyota, con il sistema del cinema di Hollywood, con gli Exceptional Teams (X Teams) della NASA: modelli che erano stati studiati da insigni studiosi, narrati nelle università e nelle scuole e che si erano diffusi marcando un’epoca. E ora si può fare lo stesso con il World Class Manufacturing (WCM) di Stellantis, con le fabbriche gioiello di Ferrari, Ducati, Dallara e altre, con l’impresa rete governata di IMA e di Bonfiglioli e altre, con l’impresa integrale di Zambon e altre, con l’azienda generativa di Loccioni e altre, con le B Corp come Illy, Aboca, e altre, con il cambiamento mission driven della Regione Emilia-Romagna e altre, con l’organizzazione scientifica planetaria, a cui ha contribuito l’Italia, che ha trovato i vaccini anti Covid in un anno, e tante altre; senza tralasciare, poi, il modello storico e mai dimenticato della Olivetti degli anni Sessanta e Settanta.
  • Occorrerebbe promuovere una grande rete di scuole di organizzazione italiana multi-istituzionale che faccia lavorare in sintonia le attuali scuole pubbliche e private di management, organizzazione, risorse umane e tecnologia, una scuola policentrica con un obiettivo chiave: far studiare e formare leader e «architetti del nuovo lavoro e delle nuove organizzazioni» per sviluppare e rigenerare le organizzazioni pubbliche e private che ne hanno la necessità. Un ecosistema o una rete di scuole pubblico-private con un’alta missione di bene comune: questo era avvenuto nello sviluppo delle business school in America, che aveva proposto nuovi paradigmi, salvaguardando l’indipendenza delle singole
  • Occorrerebbe lanciare e attuare programmi nazionali. Ammesso che la politica, il governo, i rappresentanti dell’economia e delle parti sociali, il mondo universitario assumano la questione organizzativa come oggetto distinto di politiche, investimenti e programmi specifici, chi potrebbe attuare un simile programma? Si potrebbe pensare a organismi e programmi dedicati allo sviluppo delle esperienze e della ricerca organizzativa in cui siano presenti quei soggetti. In Germania, per esempio, a sostegno della Mitbestimmung, erano stati attivati programmi statali supportati dalle imprese, dai sindacati, dalle università: i programmi Humanisierung des Arbeitslebens dal 1974 al 1989, Arbeit und Technik dal 1989 al 1996, Innovative Arbeitsgestaltung – Zukunft der Arbeit dal 2001 hanno accompagnato le trasformazioni del le imprese tedesche. In Giappone, il JUSE (Union of Japanese Scientists and Engineers) è stato un organismo chiave per la diffusione della lean production: esso associa 656 imprese e le principali università del Paese e si avvale di 115 professionisti.

[1] Dario Di Vico, Imprese, chi ha risposto meglio al Covid: l’analisi su un milione di aziende, «Corriere Economia», 25 gennaio 2021.

[2] Federico Butera, Organizzazione e società. Innovare le organizzazioni dell’Italia che vogliamo, Marsilio, Venezia 2020.

[3] Federico Butera e Giorgio De Michelis (a cura di), L’Italia che compete. L’Italian Way of Doing Industry, Franco Angeli, Milano 2011.

Scritto da
Federico Butera

Professore emerito di Scienze dell’organizzazione all’Università degli Studi di Milano-Bicocca e alla “Sapienza” Università di Roma. È inoltre Presidente e fondatore della Fondazione IRSO – Istituto di Ricerca Intervento sui Sistemi Organizzativi e Direttore della rivista «Studi Organizzativi». Oltre all’insegnamento accademico, ha svolto una estesa attività di formazione manageriale per imprese, pubbliche amministrazioni, università e ha lavorato a lungo nella Direzione del personale della Olivetti. Tra le sue pubblicazioni: “Intelligenza artificiale e lavoro, una rivoluzione governabile” (con Giorgio De Michelis, Marsilio 2024), “Disegnare l’Italia. Progetti e politiche per organizzazioni e lavori di qualità” (Egea 2023), “Organizzazione e società. Innovare le organizzazioni dell’Italia che vogliamo” (Marsilio 2020) e “Coesione e innovazione. Il Patto per il Lavoro dell’Emilia-Romagna” (con Patrizio Bianchi, Giorgio De Michelis, Paolo Perulli, Francesco Seghezzi e Gianluca Scarano, il Mulino 2020).

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