Scritto da Bianca Mazzinghi Gori
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Le emozioni non sono solo faccende private: informano la sfera pubblica e i ruoli di genere, incidono sulle scelte politiche e sulle dinamiche di potere. Eppure, raramente ne riconosciamo il peso reale. Negli ultimi decenni, la filosofia – insieme ad altre discipline – ha riscoperto la complessità delle emozioni, restituendo loro un ruolo centrale in tutti gli ambiti della nostra esperienza.
Ne parliamo con Pia Campeggiani, Professoressa associata di filosofia morale presso l’Università di Bologna ed esperta di filosofia delle emozioni dall’antichità al mondo contemporaneo. Campeggiani è autrice dei libri Le ragioni dell’ira. Potere e riconoscimento nell’antica Grecia (Carocci 2013) e Introduzione alla filosofia delle emozioni (Clueb 2021), disponibile anche in inglese (Bloomsbury 2023). Si occupa anche di filosofia femminista e di filosofia della psicologia.
Da quali domande parte la filosofia delle emozioni? Qual è il quadro generale degli studi?
Pia Campeggiani: In generale, tutte le teorie filosofiche contemporanee sulle emozioni sviluppano una serie di argomenti che hanno tre obiettivi. Il primo è quello di specificare quali siano le componenti principali delle emozioni nel tentativo di dare una definizione. In seconda battuta, si tenta di capire quale di queste componenti sia quella vera, fondamentale, quella senza la quale non si può parlare di un’emozione. L’ultimo passaggio è poi quello di elaborare una giustificazione di qualche tipo sul perché si sia scelto di dare priorità a una componente piuttosto che alle altre. Questo tipo di operazione si vede benissimo fin dalle prime teorie compiute sulle emozioni. William James, ad esempio, fa precisamente questa cosa nel saggio What is an emotion del 1884, in cui identifica la componente principale con le sensazioni corporee. James propone l’esperimento mentale della sottrazione, invitandoci a sottrarre da un’emozione tutti gli aspetti legati alla sintomatologia fisica e alle sensazioni soggettive che proviamo quando facciamo esperienza di quell’emozione. Facendo questo esperimento ci potremo rendere conto di che cosa sia un pensiero, ma non avremmo più nessuna emozione. Questo approccio generale porta ovviamente a elaborare teorie anche molto diverse a seconda di quale componente venga giudicata essenziale. Di solito si fa una comoda distinzione interna per categorie: le teorie che pongono l’enfasi sulle sensazioni (feelings); le teorie che pongono l’enfasi sui giudizi di valore; e le teorie che pongono l’enfasi sull’associazione delle emozioni con una tendenza ad agire, ovvero sull’aspetto motivazionale. Se però facciamo un passo indietro e adottiamo uno sguardo “meta” rispetto a questa discussione, si vede come tutte queste teorie abbiano qualcosa in comune, ovvero l’idea che le emozioni siano fatte di componenti, che ci sia un gruppo di queste componenti che svolge un ruolo essenziale, e che sulla base di questo gruppo si possa formulare una definizione universale, che vale per tutte le esperienze che nel linguaggio ordinario vengono chiamate emozioni. Questa comunanza, secondo me, è l’aspetto più interessante.
Le varie teorie possono poi essere categorizzate secondo una distinzione fra approcci concettuali e approcci naturalistici, che tendono, nei casi più proficui, a sovrapporsi e incontrarsi. L’analisi concettuale cerca di capire che cosa si intende con il termine emozione o con i termini specifici utilizzati per riferirsi a emozioni singole, come paura o collera. L’approccio naturalistico invece ha l’ambizione di includere quanto ci dicono prospettive come quella della biologia, per esempio. Idealmente dovrebbe esserci una qualche sovrapposizione tra questi due approcci; anche chi vuole elaborare una teoria naturalisticamente robusta deve comunque partire da una concezione ordinaria, pre-teoretica, di che cosa si intende per emozione. L’approccio ideale dovrebbe essere ricorsivo per poter includere sempre meglio le due prospettive, mantenendo una distinzione tra il progetto descrittivo di psicologia del senso comune – che mira a descrivere i tanti modi in cui un soggetto o un gruppo di soggetti, contraddistinti dalla loro cultura, concepiscono e provano le emozioni – e il progetto prescrittivo, scientifico, che può avere obiettivi molto più specifici e che lavora con definizioni più specifiche. La condizione è che si rimanga in ogni caso consapevoli che non si tratta di definizioni universali, ma di prospettive focalizzate su aspetti specifici di un fenomeno più ampio. Tuttavia, questa consapevolezza non è sempre presente.
Quali sono le teorie principali nel dibattito attuale? Come sono nate e come si stanno sviluppando?
Pia Campeggiani: Per decenni, a partire dalla teoria di William James a cui abbiamo già accennato, il campo è stato dominato da teorie che ponevano l’enfasi sugli aspetti corporei delle emozioni. Con gli anni Sessanta si ha invece la svolta cognitiva in psicologia: la psicologa Magda Arnold per prima, e varie altre figure dopo di lei, hanno puntato a valorizzare di più la dimensione assiologica e a interpretarla in chiave cognitiva, ovvero intendendola in senso stretto come qualcosa a cui abbiamo accesso attraverso delle valutazioni che formuliamo non a un livello corporeo, ma a un livello alto, teorico e astratto. Il panorama attuale vede delinearsi in parallelo tre linee generali: quella cognitivista, quella motivazionale, e quella che in italiano possiamo chiamare percettualista. Teorie come quella di Martha Nussbaum sono cognitiviste in senso stretto, dato che pongono l’accento sulla relazione di identità tra emozioni e giudizi di valore. Questo però è uno degli approcci meno efficienti, perché genera conseguenze non molto desiderabili, come quella di non poter attribuire emozioni agli animali non umani o ai bambini molto piccoli, che non sono ancora in grado di maneggiare concetti o elaborare dei giudizi in senso astratto. In generale prevale oggi l’idea che questi giudizi non siano pensieri “amodali”, ma che abbiano anche una realtà di tipo fisico, che viene percepita e che non necessita per forza della capacità di padroneggiare nozioni astratte. Si tende quindi per lo più a integrare questo tipo di valutazione con aspetti più incarnati (embodied). La dimensione assiologica è comunque riconosciuta più o meno da tutte le teorie come una delle dimensioni centrali. L’approccio percettualista valorizza molto la dimensione della sensazione, del feeling, associandola alla questione dei valori; fra le teorie più affermate in questo senso ci sono quella di Jesse Prinz e di Christine Tappolet. Pur essendoci varie opzioni percettualiste, anche molto diverse tra loro, l’idea generale è che le emozioni sono percezioni dirette o indirette di valori. Indirette, nel caso di Jesse Prinz, perché, per esempio, io percepisco i cambiamenti corporei di natura affettiva, e questi cambiamenti corporei incapsulano una sorta di giudizio di percezione incarnata (embodied) di un valore che io avrei riscontrato nell’ambiente o nella mia interazione con l’ambiente. Infine, a uguale distanza dagli altri due raggruppamenti, si possono individuare le teorie che pongono l’accento sulla spinta che le emozioni ci danno verso un’azione e il raggiungimento di un certo obiettivo o la rimozione di un ostacolo. Qui gli esponenti principali sono Julien Deonna e Fabrice Teroni a Ginevra e, per le teorie motivazionali, Andrea Scarantino negli Stati Uniti.
Che relazioni ci sono fra la filosofia delle emozioni e discipline come la sociologia o le scienze politiche?
Pia Campeggiani: Questo è un tema molto importante. Quando si indaga un aspetto relativo alle emozioni, si hanno degli interessi specifici che tendenzialmente determinano gli elementi su cui ci concentreremo quando parliamo del fenomeno delle emozioni. Idealmente, chi lavora sulle emozioni in una disciplina che non è la filosofia o le scienze affettive dovrebbe innanzitutto acquisire consapevolezza del dibattito in queste due discipline, per capire quali sono le opzioni. È importante evitare l’errore di partire da una definizione, magari di senso comune, che ci sembra verosimile, perché è quella che noi usiamo per orientarci nella vita di tutti i giorni, ma che potrebbe non essere quella che ci serve per la ricerca che stiamo facendo nell’ambito della nostra disciplina. È quindi necessario da un lato non essenzializzare il fenomeno delle emozioni, ma tenere presente che può e deve essere studiato da prospettive diverse, fra cui dobbiamo scegliere quella più funzionale per raggiungere il nostro scopo scientifico. L’altra accortezza che dobbiamo avere è quella di non universalizzare le nostre definizioni, che si collega alla consapevolezza che esistono prospettive diverse su questo fenomeno, appunto. Possiamo cercare di integrarle, ma dobbiamo essere capaci di tollerare le divergenze e le ambivalenze. Questo fa parte della cultura del fenomeno.
Lei si è occupata anche di filosofia greca antica e di Aristotele in particolare. Quali sono i fraintendimenti più comuni sul ruolo delle emozioni nella filosofia greca antica e quali insegnamenti può darci per l’attualità?
Pia Campeggiani: Il problema maggiore è che chi si è occupato di emozioni in Aristotele di solito non ha considerato a sufficienza il dibattito contemporaneo. Adesso lo si può vedere bene perché questo campo di indagine ha ormai una cinquantina d’anni, e si può quindi avere uno sguardo storico su come si sia sviluppato. Nel dibattito contemporaneo e a livello sociale in passato era particolarmente forte l’idea che le emozioni fossero identiche a giudizi di valore o comunque causate da pensieri di tipo valutativo. E senza che gli interpreti o le interpreti ne fossero sempre consapevoli, questo li ha e le ha indotte a notare solo certi aspetti, perché se si parte dall’idea che l’emozione sia essenzialmente un giudizio di valore si è già presa una posizione. Ad esempio, si assume che si tratti di un processo di ordine cognitivo alto e che quindi possa proverà un’emozione solo chi è in grado di formulare questo tipo di giudizi. Di conseguenza, chi voleva capire cosa Aristotele pensava delle emozioni leggeva solo ciò che il filosofo diceva a proposito degli esseri umani e del rapporto fra emozioni e opinioni, e prendeva quindi in mano soltanto la Retorica, che infatti è considerata il testo di riferimento sul tema, in modo quasi esclusivo. Oggi le cose stanno cambiando, fortunatamente, e ci si sta accorgendo che questa interpretazione è troppo limitata. Per quanto riguarda le emozioni, Aristotele partiva in realtà da un’ipotesi pre-teoretica, ed era un grande sostenitore dell’integrazione tra approccio biologico e psicologico. Come mostrano vari studi, dal punto di vista della natura Aristotele era un continuista, che sponsorizzava appunto l’idea di una continuità fra forme di vita, persino fra vegetali e animali. Le emozioni sono dunque un fenomeno che esiste laddove c’è vita senziente; escludendo i vegetali, le emozioni riguardano qualsiasi essere vivente che abbia una percezione sensibile. Aristotele nel De Anima dice che le emozioni vengono studiate in due modi diversi: il filosofo a orientamento naturalistico definisce la collera come sangue che ribolle dentro al cuore, ad esempio, mentre il dialettico la definisce come desiderio di vendetta di fronte alla percezione di aver subito un’offesa. Tutt’ora, anche chi riconosce questa continuità fa fatica a integrare le varie dimensioni, come quella biologica, cognitiva, sociale, che spesso vengono esaminate separatamente. E questo, secondo me, è il limite più grande.
Le emozioni sono state a lungo guardate con sospetto, come manifestazioni di irrazionalità. Gli emotion studies sono però un ambito di ricerca estremamente promettente. Secondo lei, la percezione delle emozioni sta cambiando anche al di fuori dell’accademia?
Pia Campeggiani: In realtà, nella psicologia di senso comune ci sono due intuizioni che coesistono felicemente nonostante siano, quantomeno a prima vista, in conflitto. Se si pensa alla vita di tutti i giorni, da un lato a volte vediamo le emozioni come ostacoli al pensiero razionale, ad esempio quando pensiamo che dobbiamo mantenere la calma o che vogliamo prendere una decisione a mente fredda. Altre volte raccomandiamo invece di seguire il proprio istinto, di ascoltare il proprio cuore. Talvolta, quindi, l’emozione appare come un limite alla nostra capacità di comprendere la realtà; in altri casi, questa dimensione affettiva può invece dischiudere un tipo di conoscenza diverso che altrimenti rimarrebbe nell’ombra. Queste intuizioni sono recuperate e rielaborate entrambe anche in ambito filosofico, sebbene ovviamente non simultaneamente, perché, almeno in Occidente, la filosofia tende molto a essere coerente e non in contraddizione con sé stessa, per cui di solito compare o l’uno o l’altro punto di vista. Platone rappresentava il potere negativo delle emozioni con l’immagine del carro alato, in cui l’auriga, che rappresenta la ragione, deve dominare gli istinti e le emozioni. Dall’altra parte, David Hume sottolineava invece che la ragione è inerte e sono le emozioni che ci spingono ad agire.
Nella storia della filosofia si è generata quindi una certa dicotomia tra emozioni e ragione, una dicotomia che è stata messa in discussione di recente in vari ambiti, incluso finalmente anche quello filosofico. In ambito neuroscientifico, innanzitutto, è stata messa in discussione la separazione netta fra le aree cerebrali dedicate a compiti di tipo intellettuale e quelle dedicate a compiti di tipo affettivo. Penso ad esempio a Luiz Pessoa, il neuroscienziato che ha scritto vari testi anche divulgativi al riguardo, di cui uno dei più recenti è The Entangled Brain (The MIT Press 2022), che spiega proprio quanto sia integrata a livello funzionale l’attività cerebrale per quanto riguarda queste due dimensioni. In filosofia, nessuna teoria credibile nega il fatto che le emozioni ci consentono, in qualche modo, di percepire o conoscere dei valori. Che questi valori siano giusti o sbagliati, questo è un altro discorso, ma che ci sia un valore epistemico nell’esperienza emotiva non è negato praticamente da nessuno. Ci sono poi delle tradizioni che si sono concentrate per ragioni politiche anche su questo punto, come per esempio la filosofia femminista, che ha combattuto e combatte tutt’ora contro la dicotomia ragione-emozione, dove il femminile è solitamente associato alla dimensione emotiva e affettiva, mentre il maschile alla ragione. Le femministe hanno lavorato molto per mostrare come l’idea occidentale della ragione oggettiva sia un mito, e come molte forme di conoscenza siano intrise di valori affettivi, ovvero dei valori della classe dominante, che vengono confusi o venduti come ragione.
Negli ultimi decenni si sta parlando di una tendenza dell’elettorato a farsi guidare più che in passato dalle emozioni – si pensi alla paura fomentata dai sovranismi, o alla indignazione cavalcata dai populismi. Quali insegnamenti possiamo trarre dalla filosofia delle emozioni per interpretare il loro ruolo in un ambito come la politica? Sono plausibili le posizioni di chi, come Martha Nussbaum, vorrebbe epurare le emozioni negative come la rabbia dalla dimensione politica?
Pia Campeggiani: Il primo passo per pensare a quale possa essere una risposta a questa domanda consiste nel definire che cosa intendiamo per emozioni negative, perché a seconda del contesto si possono intendere cose molto diverse. Per esempio, si possono intendere come emozioni negative quelle che procurano dolore fisico o psicologico, e quelle che ostacolano il raggiungimento di un obiettivo. Se provo vergogna a parlare in pubblico, ad esempio, posso considerarla come un’emozione negativa perché intacca la mia capacità di svolgere la mia professione in maniera adeguata. Le emozioni possono però essere negative, e credo che sia quello che intende Nussbaum a proposito della collera, anche da un punto di vista morale. La collera è considerata negativa da Nussbaum perché ha dei tratti distruttivi, aggressivi. Tuttavia, la collera è stata ed è tutt’ora anche un motore di movimenti rivoluzionari; è una forma propulsiva molto importante, che spinge gli individui e i gruppi alla lotta per un futuro migliore. D’altra parte, è vero che i movimenti populisti sono spesso animati da una fortissima rabbia e indignazione nei confronti di qualche violazione; queste persone credono però che la loro rabbia sia giustificata. Di per sé, quindi, la rabbia non è né positiva né negativa. Bisogna vedere che tipo di rabbia è, quali sono i motivi di questa rabbia. Il problema è capire in quali casi, sulla base di quali principi e di quali argomenti possiamo distinguere tra la rabbia giusta e la rabbia ingiusta. Si può anche avere una rabbia giusta che porta a un comportamento ingiusto. A questo proposito, la femminista nera Myisha Cherry individua vari tipi di rabbia: la rabbia che può essere giusta nelle ragioni, ma risultare solo reattiva, vendicativa, e quindi potenzialmente distruttiva, nelle sue manifestazioni; o, al contrario, si può avere una rabbia che è invece mirata a una trasformazione. Anche la rabbia dei populisti, però, può mirare a una trasformazione e non essere solo distruttiva. Bisogna quindi stare molto attenti a questo riguardo e valutare la qualità della trasformazione, evitando di condannare o lodare questa emozione di per sé, ma vedere chi la prova e perché.
In un’epoca che sembra caratterizzata dalla post-verità, dal proliferare della disinformazione, che prospettiva può darci la filosofia sul nostro rapporto con la verità e la fruizione delle notizie?
Pia Campeggiani: La filosofia offre intanto tre strumenti fondamentali che sono il rigore analitico e argomentativo, l’articolazione precisa delle idee, e il coraggio di esaminare queste idee, anche a costo di doverle cambiare, cosa spesso non facile. In questo senso la filosofia è per sua natura l’antidoto alla disinformazione e alla propaganda, soprattutto come metodo. Ci sono state anche riflessioni filosofiche su questi temi. Aristotele, per esempio, ha scritto un trattato intero, la Retorica, su come si possono condizionare le emozioni degli altri esseri umani in modo da manipolarne le credenze. Nel panorama contemporaneo, in lingua italiana, si è occupata di verità e disinformazione la filosofa Gloria Origgi. Sono questioni complesse, in cui bisogna tener presente che in realtà non esiste un punto di vista oggettivo, di razionalità pura, priva di elementi soggettivi ed emotivi. In generale, su questi temi va tenuta in considerazione la critica della razionalità classica fatta da Daniel Kahneman e Amos Tversky, che hanno contestato l’idea che la razionalità consista nel soddisfacimento di requisiti elementari di sistematicità, coerenza, e non contraddizione. La cosiddetta teoria del prospetto di Kahneman e Tversky mostra molto bene come le nostre decisioni si basino su principi molto idiosincratici, come nel caso del cosiddetto framing effect. Questo effetto consiste nel fatto che, se una situazione uguale è presentata in modi diversi, si prendono decisioni diverse a seconda del fatto che in un caso si enfatizzino le perdite e nell’altro i guadagni. Il framing effect ha conseguenze pratiche significative, ad esempio, nell’orientamento dei pazienti a cui si presentano possibili terapie oncologiche. È quindi importante conoscere queste dinamiche per acquisire quanta più consapevolezza possibile. Un buon metodo per ridurre il rischio di essere vittima dei propri pregiudizi affettivi è usare una seconda lingua: ci sono studi che mostrano come usare una lingua diversa dalla propria ma che si conosce bene porta a essere meno vittima del framing effect quando si prendono decisioni importanti. Dall’altra parte, le emozioni restano fondamentali nel processo decisionale, come suggerisce ad esempio l’ipotesi dei marcatori somatici di Damasio. Secondo questa ipotesi, delle lesioni alla corteccia prefrontale ventro-mediale che danneggiano la capacità di provare certi stati affettivi hanno come conseguenza secondaria un’incapacità di semplificare i propri scenari di scelta e quindi di prendere decisioni in modo efficace. In ogni caso la dimensione affettiva è onnipresente nella nostra vita cognitiva, e la cognizione è anche affettiva. Possiamo acquisire un po’ di consapevolezza su alcuni meccanismi, ma non è immaginabile che un essere umano decida senza alcuna interferenza da parte della sua vita affettiva.
Nel suo libro parla anche delle emozioni suscitate da opere finzionali e del problema filosofico posto dalle emozioni che proviamo per persone inesistenti. Come vede la tendenza a cercare comprensione e conforto emotivo, ad esempio, nelle intelligenze artificiali generative?
Pia Campeggiani: Da un lato non sono sorpresa, perché, da un punto di vista evolutivo, noi umani siamo programmati per vedere menti ovunque e attribuire agency a qualsiasi cosa, anche agli oggetti inanimati – riuscendo a vedere facce anche nelle immagini del pianeta Marte, ad esempio. Le intelligenze artificiali generative sono delle macchine che fingono benissimo di avere una mente; quindi, non è molto sorprendente per me che molti di noi in qualche misura ci credano. Quando ci viene chiesto di pensare alle nostre interazioni, comunque, viene fuori che abbiamo dei pregiudizi contro l’intelligenza artificiale. Come mostrano degli studi recenti, quando si sa di parlare con un chatbot, la valutazione che si dà di questa interazione è peggiore rispetto a quella che si dà all’interazione con un altro essere umano. Tuttavia, in esperimenti in cui non si sapeva se si stesse interagendo con un chatbot o un essere umano, il chatbot è stato apprezzato di più dell’essere umano, proprio su fattori emotivi come l’empatia. In un recente articolo pubblicato sul New Yorker, lo psicologo Paul Bloom discute se sia opportuno o meno rivolgersi all’intelligenza artificiale per cercare conforto emotivo ed esplora le possibili e contraddittorie conseguenze di questa eventualità. La questione resta molto complessa e non saprei fare ipotesi.
Lei si occupa anche di genere. Quali intersezioni ci sono fra emozioni e dinamiche di genere? In Italia il dibattito sull’educazione sessuale parla anche di educazione affettiva. Qual è il suo punto di vista come filosofa delle emozioni su questi programmi?
Pia Campeggiani: Il rapporto tra vita affettiva e genere è molto stretto, e gli effetti delle aspettative sociali su di esso sono evidenti già in età prescolare, purtroppo. Ci si aspetta che le bambine, rispetto ai bambini, mostrino ad esempio dei comportamenti più affiliativi e cooperativi. E queste aspettative prendono forme molto concrete: si ricompensano i comportamenti in linea con esse e si reprimono i comportamenti devianti; la stessa cosa, in maniera speculare, si fa con i bambini. E quindi molto presto si cominciano a vedere delle differenze, ad esempio a proposito dell’emozione della collera. Abbiamo visto prima che la collera può essere giudicata positivamente o negativamente, ma il giudizio sociale sulla positività e la negatività non è uguale per tutti. La collera degli uomini è molto accettata, è riconosciuta come tale sia da chi la osserva, sia dagli uomini che la provano, e ci si aspetta che gli uomini si arrabbino. Per le donne non è così, almeno non per le donne giudicate come “buone”, e questo si verifica già molto presto. In futuro vorrei studiare la correlazione fra il momento in cui le bambine smettono di arrabbiarsi e quello in cui iniziano a pensare che i maschi siano più bravi delle femmine. I dati suggeriscono che il contenimento sociale porta a questi effetti intorno ai cinque anni. A questa età le bambine iniziano da un lato a provare tristezza anziché rabbia per stimoli che prima le avrebbero fatte arrabbiare, reprimendo così la collera. Dall’altro, mentre fino ai cinque anni non hanno difficoltà particolari a identificare il genio con una figura femminile, dai cinque anni le bambine cominciano a indicare prevalentemente bambini maschi come “molto intelligenti”. Questa correlazione è molto interessante, perché ci dice qualcosa sulla natura della collera, che è legata all’autostima e al senso della propria dignità. Per essere arrabbiate dobbiamo percepire di avere una rivendicazione legittima che è stata delusa. Per poter capire che siamo arrabbiate, e perché le altre persone capiscano che siamo arrabbiate – e non pazze o isteriche o ipersensibili – bisogna che noi stesse e le altre persone pensino che abbiamo una ragione per arrabbiarci. Per arrabbiarsi bisogna dunque essere capaci di pensarci come portatrici di diritti che non devono essere lesi, e questo vale anche per chi ci osserva, che per riconoscere la nostra collera deve pensare questo di noi.
Quando esprimiamo la nostra collera mostriamo alle altre persone che ci prendiamo sul serio, e chiediamo che ci ascoltino e facciano qualcosa per noi. Visto che arrabbiarsi è dunque un modo di auto-affermarsi, nell’ordine patriarcale l’emozione della collera nelle donne viene repressa e bollata come isteria o pazzia. Questo ha tutta una serie di conseguenze gravi, anche sulla salute. Se, invece di arrabbiarci di fronte a una ingiustizia, diventiamo tristi e pensiamo che la nostra emozione negativa o dolorosa sia non collera ma tristezza, questo mina la nostra fiducia nella possibilità di migliorare la nostra condizione e ci porta a perdere stima di noi stesse, anche per il fatto che la tristezza è associata di solito alla subordinazione e alla debolezza. Essere arrabbiati invece è associato alla capacità di imporsi, di volere qualcosa e di essere proattivi. Alcuni studi molto interessanti mostrano come dei volti neutrali siano interpretati diversamente a seconda del genere. Espressioni neutrali su volti di donne sono interpretate come innocenti, sottomesse, impaurite o felici, mentre nel caso degli uomini si identifica molto più facilmente la collera. Dobbiamo combattere questa divisione di ruoli affettivi, soprattutto nelle bambine più piccole. I programmi di educazione affettiva sarebbero quindi essenziali sia per bambine e bambini, sia per genitori, maestre e maestri.
Un suo studio ha mostrato che studenti universitari valutavano in modo diverso i docenti in base al genere. È plausibile ipotizzare che questo si applichi ad altri ambiti, come la politica, la medicina, l’economia?
Pia Campeggiani: Sì, c’è sicuramente un’associazione generale tra posizioni di prestigio – economico, politico, intellettuale – e mascolinità. Queste professioni sono tipicamente codificate al maschile, per cui c’è l’aspettativa che la figura professionale che ricopre queste cariche sia un uomo, o che abbia comunque dei tratti mascolini come l’assertività, l’audacia e la sfrontatezza. Quando si è tentato di compensare facendo entrare più donne in questi settori, si è riscontrata una perdita di prestigio laddove il numero di donne aveva superato quello degli uomini. Per di più, le donne che si trovano a ricoprire questi ruoli sono in un “Catch-22”, un circolo vizioso, come mostra anche il nostro studio che riguardava la valutazione di professori e professoresse di filosofia da parte degli studenti. Da un lato non ci si aspetta che le donne siano capaci di ricoprire questi ruoli, perché non sono uomini; se poi si comportano come gli uomini e mostrano delle caratteristiche considerate tipicamente mascoline, come l’assertività appunto, sono considerate antipatiche. Quindi non è possibile vincere, o si viene giudicata incompetente o si viene giudicata cattiva, antipatica. Anche la filosofia come disciplina ha molti problemi in questo senso, essendo prevalentemente maschile e bianca, a livello globale. Sarebbe interessante replicare lo studio anche per altre discipline.
Quali sono, secondo lei, le prospettive future nello studio delle emozioni e che sfide potranno emergere in questo ambito?
Pia Campeggiani: Un primo punto da sottolineare è che stiamo andando in una direzione sempre più interdisciplinare. Questo ci riporta a quanto dicevamo inizialmente: qualsiasi teoria elaboriamo non può cozzare con l’evidenza empirica, con quello che sappiamo, per esempio, della biologia umana o della teoria dell’evoluzione. I programmi che hanno un’ambizione naturalistica sono quindi sempre di più e ormai sono gli unici credibili. La filosofia non è più una disciplina a parte, ma è in costante collaborazione con le scienze, la biologia, la psicologia, la sociologia. È quindi fondamentale trovare un modo di integrare questi programmi di ricerca, anche se un conto è provarci, un conto è riuscirci. Questa integrazione è anche l’unico modo di cui disponiamo per risolvere il grande problema di come conciliare la natura e la cultura nella comprensione del fenomeno emotivo. Le emozioni sono programmi affettivi pan-culturali, che sono stati selezionati su base evolutiva, oppure sono esperienze costruite a livello psicologico o sociale? In realtà, entrambe queste affermazioni sono vere, ma resta difficile rispondere a tutte le domande. Come si deve spiegare, per esempio, la variabilità del comportamento affettivo, sia individuale sia culturale? E, se le emozioni sono costrutti psicologici, quali sono gli ingredienti di partenza da cui sono costruite? Ci sono varie proposte in questo senso, ma non si è ancora arrivati a un consenso. Un’altra domanda aperta, come abbiamo già accennato, è se le emozioni siano specifiche degli esseri umani: lo sono solo per chi adotta una prospettiva molto ristretta sul concetto di cognizione, come fa per esempio Nussbaum, ma questo ha un costo molto elevato. Se adottiamo una prospettiva continuista, allora dobbiamo cominciare a pensare che non possiamo comprendere l’emotività umana senza studiare anche l’evidenza che abbiamo delle esperienze affettive degli animali non umani.