Il capitale naturale: un estratto dal libro di Partha Dasgupta
- 10 Novembre 2025

Il capitale naturale: un estratto dal libro di Partha Dasgupta

Scritto da Partha Dasgupta

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«L’assenza della Natura dalla riflessione economica corrente evidenzia un paradosso. I commentatori economici chiedono giustamente che le politiche pubbliche siano basate su prove, e sanno che le evidenze raccolte saranno inutilizzabili se costruite su una concezione ingannevole della condizione umana, perché modelli mal congegnati producono evidenze false. Ma essi dovrebbero anche sapere che i sistemi di pensiero che non riconoscono che l’umanità è integrata nella Natura, quando usati per proiettare possibilità presenti e future, possono essere fuorvianti. Le scoperte degli ecologi e degli scienziati della Terra hanno dimostrato che questi sistemi di pensiero possono essere così fuorvianti che le politiche basate su di essi non solo mettono in pericolo le generazioni future, ma danneggiano anche le vite dei poveri del mondo contemporaneo».

In Il capitale naturale. Quanto vale il mondo intorno a noi – edito da Bocconi University Press / Egea con prefazione di Valentina Bosetti – l’economista Partha Dasgupta riflette sul rapporto tra natura e crescita e sull’urgenza di trasformare i fondamenti dell’economia globale. Pubblichiamo di seguito, per gentile concessione dell’editore Bocconi University Press, un estratto del libro tratto dal capitolo La disuguaglianza di impatto.


Le scale temporali delle scienze geologiche differiscono da quelle dell’economia per ordine di grandezza (un’epoca geologica, come il Pleistocene, che è più breve di un eone, di un’era o di un periodo, può tuttavia durare fino a decine di milioni di anni, mentre un periodo economico può durare solo pochi decenni). Le discipline pongono domande molto diverse e utilizzano strumenti concettuali molto diversi per affrontarle. Per quanto ne so, fino a tempi recenti non c’è stato nessun caso in cui i risultati delle due discipline abbiano interagito tra loro. Ora ce n’è uno.

Il dopoguerra è stato un periodo senza precedenti in termini di benessere umano, valutato sulla base della misura più comunemente utilizzata. Questo ha entusiasmato gli analisti economici, molti dei quali hanno pubblicato articoli e libri per celebrare il fatto che l’individuo medio nel mondo non ha mai goduto di tanto benessere. Ma in un articolo ormai classico pubblicato nel 2016 dalla rivista Science, eminenti scienziati della Terra guidati da Colin Waters del National Geological Survey del Regno Unito, hanno esaminato marcatori stratigrafici (vale a dire marcatori che si trovano in depositi e strati di roccia) in terreni, laghi, fondali marini e carote di ghiaccio degli ultimi 11.000 anni (l’Olocene) e hanno riscontrato un brusco cambiamento verso la metà del secolo scorso: improvvisamente sono comparsi grandi depositi di metalli, pesticidi, cemento, azoto, plastica, fosforo e alluminio, oltre a concentrazioni di anidride carbonica e metano, nel suolo, nel fondale marino e nell’acqua. Gli autori hanno proposto di considerare la metà del XX secolo (diciamo il 1950, per avere un riferimento facilmente memorizzabile), caratterizzata da un forte aumento delle attività umane, come l’inizio di un periodo chiamato «Antropocene» per indicare che ormai stiamo vivendo su un pianeta dominato dall’uomo. Gli scienziati della Terra tendono a riportare le loro scoperte con una prosa neutra, ma il sottotesto dell’articolo di Science parlava di un presente oscuro.

L’impressione di una dissonanza tra le due serie di risultati è illusoria. L’articolo di Science riportava cambiamenti improvvisi nella composizione del capitale naturale, che corrispondevano a miglioramenti repentini del livello di vita. Quest’ultima serie di dati statistici non dice se i miglioramenti del livello di vita siano stati raggiunti a scapito del capitale naturale, ma l’articolo di Science ci dice che è così, perché i miglioramenti sono arrivati nello stesso tempo di un grave inquinamento della Terra.

Le tracce stratigrafiche di cui si parla nell’articolo di Science erano depositi di materiali industriali. Quali sono le loro contropartite ecologiche? Il Millennium Ecosystem Assessment (MEA) del 2005 ha riscontrato che 15 dei 24 servizi ecosistemici valutati (che vanno dall’approvvigionamento di beni come cibo, acqua e legname, ai servizi di regolazione che influenzano il clima e le malattie, ai servizi culturali come benefici ricreativi e spirituali, fino ai servizi di supporto come la formazione del terreno) erano in declino. A sua volta, basandosi sul lavoro del MEA, una valutazione globale della Intergovernmental Platform on Biodiversity and Ecosystem Services (IPBES), pubblicata nel 2019, riportava che dal 1970 i beni e i servizi della Natura avevano subito un deperimento in 14 categorie su 18. L’International Union for Conservation of Nature (IUCN), con sede a Gland, in Svizzera, nel 2014 ha redatto una lista di ecosistemi in pericolo, chiamata Lista Rossa[1]. La lista della IUCN e le sue valutazioni globali sono perfettamente in linea con l’aumento delle attività umane negli ultimi decenni. Dagli anni Settanta, a livello globale è stato distrutto dal 20 al 35 per cento delle foreste di mangrovie, per ricavarne legname o per far spazio all’espansione urbana, alla crescita della popolazione costiera e all’aumento del numero di allevamenti di gamberi. Da quando, nel 1992, è stata ratificata la Convenzione sulla Diversità Biologica di Rio de Janeiro, un quarto di tutte le foreste tropicali è stato distrutto. Inoltre, depositiamo negli ecosistemi terrestri e marini più composti di azoto di quelli generati dal ciclo naturale dell’azoto (ogni anno si utilizzano in agricoltura più di cento milioni di tonnellate di fertilizzanti). Tra le conseguenze del sovraccarico di azoto e fosforo si segnalano l’acidificazione del suolo, l’eutrofizzazione dei laghi di acqua dolce e le zone morte marine. I livelli di ossigeno negli oceani sono diminuiti continuamente negli ultimi cinquant’anni a causa della crescita delle alghe. Sebbene nei mari sia naturale avere aree a basso contenuto di ossigeno, queste aree si sono estese a 4,5 milioni di km2 (all’incirca la dimensione dell’Unione Europea) e il volume dell’acqua con zero ossigeno si è quadruplicato. Nelle acque costiere il numero di siti con scarso ossigeno è passato da 50 a 500, e queste cifre sono probabilmente sottostimate[2].

Esiste oggi un’enorme quantità di prove dell’eccessiva pressione sulla biosfera da parte dell’uomo in termini di estinzione delle specie. I tassi di estinzione nel recente passato possono essere ricavati usando le stime dei cambiamenti nell’uso del suolo che hanno avuto luogo in relazioni specie-area empiricamente tracciate. Per il passato più lontano, questo approccio è inefficace, in quanto non sono disponibili tracce dei cambiamenti nell’uso dei suoli. I tassi di estinzione nel lontano passato sono invece dedotti da confronti con i reperti fossili dei gruppi che hanno parti del corpo dure (vertebrati e molluschi). I tassi di estinzione nei periodi che separano i cinque eventi di estinzione di massa, per esempio, sono stati stimati esaminando prima le popolazioni delle specie nei fossili e poi identificando quei gruppi di specie che mancano nei fossili di un’epoca successiva. Questo è inevitabilmente un esercizio grossolano, ed è perciò che le stime dei tassi di estinzione hanno barre di errore che coprono un ordine di grandezza.

Come accennato in precedenza, il tasso di estinzione (“tasso di fondo”) delle specie eucariote (che comprendono tutto ciò che è dotato di nuclei racchiusi in una membrana, dall’organismo unicellulare alla balenottera azzurra) negli ultimi milioni di anni e più è stato pari a 0,1-1 estinzioni di specie per milioni di specie all’anno. Nel recente passato questo tasso è aumentato in modo allarmante e ora è da 100 a 1.000 volte superiore al tasso di fondo[3]. Per illustrare l’importanza di questi numeri, supponiamo che il tasso di estinzione sia attualmente 1.000 volte il tasso di fondo, poniamo, di 1 specie per milione di specie all’anno, e che esistano 15 milioni di specie di eucarioti. Dovremmo aspettarci che nei prossimi cento anni si estinguano un milione e mezzo di specie di eucarioti, il che equivale al 10 per cento del numero di specie di eucarioti. Indubbiamente emergeranno nuove specie ma ciò accadrà a un ritmo molto più lento.

Sull’estinzione delle specie esistono stime più mirate. In una recente indagine sui dati di popolazione relativi a quasi 30.000 specie di vertebrati terrestri, Gerardo Ceballos, Paul Ehrlich e Peter Raven hanno stimato il numero di specie che sono vicine a estinguersi. Secondo gli autori, sono sul punto di estinguersi popolazioni con meno di 1.000 individui e, in base a questo criterio, sono minacciate 515 specie, che rappresentano l’1,7 per cento dei vertebrati presenti nell’elenco riportato nella ricerca degli stessi autori. Se l’estinzione seguirà con lo stesso ritmo in futuro, la popolazione di vertebrati terrestri si dimezzerà in circa quarant’anni. Supponendo che tutte le specie sul punto di estinguersi abbiano sperimentato trend simili in passato, gli autori stimano che più di 237.000 popolazioni di queste specie siano scomparse dal 1900.

In un altro studio (condotto da Ceballos ed Ehrlich), gli autori hanno stimato che di 5.400 generi di vertebrati terrestri, 73 si sono estinti a partire dal 1500. Il tasso di estinzione nel campione è 35 volte più alto di quello previsto nel tasso di fondo di 1 estinzione per milione all’anno, con l’implicazione che, se non fosse stato per gli esseri umani, ci sarebbero voluti non 500 ma 18.000 anni perché quel numero di generi si estinguesse. Per definizione, non ci sarebbe alcuna crisi di estinzione delle specie, se ogni specie fosse ridotta a una sola popolazione vitale, ma saremmo tutti morti a causa della perdita dei servizi di supporto e regolazione.

La semplice verità però è che per noi non è affatto immediato comprendere quando la salute di un habitat è seriamente compromessa e quindi dove si trovi il suo punto di non ritorno. Quello che sappiamo è che, quando un habitat oltrepassa il punto di non ritorno, le popolazioni delle specie che lo abitano muoiono e l’estinzione è irreversibile. Ora possiamo avere un’idea limitata del ruolo che una determinata specie ha nella salute di un ecosistema, ma siamo certi che potremmo saperne di più – forse molto di più – in futuro. Poiché l’estinzione preclude le opzioni che avremmo in futuro qualora la specie si dimostrasse preziosa, la sua conservazione ha oggi un valore aggiunto. E questo non dipende dal nostro atteggiamento verso il rischio. La conservazione aumenta le nostre opzioni future e un aumento delle opzioni vale a prescindere dal nostro atteggiamento verso il rischio. Poiché questo valore aggiunto consiste nel mantenere aperte le nostre opzioni, viene chiamato “valore di opzione”. Il valore aggiunto è una ragione sufficiente per dare alle popolazioni delle specie uno spazio più ampio.

A giudicare da ciò che sappiamo a proposito di gruppi relativamente ben studiati (vertebrati terrestri, piante), circa il 20 per cento delle specie potrebbe estinguersi nei prossimi decenni, forse il doppio entro la fine del XXI secolo. Si stima che 84 specie di mammiferi si siano estinte dal 1500, e 32 di queste dal 1900.

Livelli così elevati di estinzione provocata dall’uomo mettono in prospettiva la portata della presenza della specie umana nella biosfera. Il nostro enorme successo economico nell’Antropocene è arrivato in tandem con una Terra gravemente depauperata. L’enormità del danno che stiamo causando non si ritorce ovviamente solo contro noi stessi; ha un significato etico più profondo, che esploreremo più avanti. Le stime dei tassi di estinzione contemporanei ci spiegano anche l’allarme degli scienziati della Terra e degli ecologi per quello che definiscono il sesto grande evento di estinzione biologica da quando la vita è cominciata.

Per farci capire come la continua estinzione delle specie porterà inevitabilmente a un collasso finale degli ecosistemi, Paul Ehrlich usa un paragone suggestivo: immaginiamo che da qualche meccanismo delle ali di un aereo in volo vengano rimossi dei rivetti; all’inizio l’aereo non ne risente ma, con l’aumentare del numero di rivetti fatti saltare, il velivolo diventa meno stabile finché, dopo un numero incerto di rivetti rimossi, si schianta a terra.


[1] La lista include ecosistemi collassati come il Lago d’Aral.

[2] Uno sguardo più attento alle nostre attività è indicativo. La produzione primaria netta (net primary production, NPP) è il tasso di rigenerazione dei produttori primari, ovvero la quantità di biomassa prodotta dai fotosintetizzatori al netto delle perdite dovute alla respirazione. I produttori primari comprendono non solo le piante che crescono naturalmente, le alghe e i molti batteri, ma anche le colture agricole e le piantagioni. I terreni oggi coltivati un tempo erano boschi, foreste, praterie, paludi e zone umide. Possiamo quindi chiederci quale sia la parte del tasso di rigenerazione dei produttori primari terrestri che viene usurpata dall’uomo. Varie stime oscillano tra il 20 e il 40 per cento, e salgono al 60-90 per cento nelle regioni ad agricoltura intensiva, il che significa che stiamo escludendo gli altri erbivori, e di conseguenza i carnivori e gli onnivori. Senza dubbio la NPP globale è aumentata nel corso dei decenni (alcuni stimano che sia aumentata del 20 per cento negli ultimi cinquant’anni), ma la composizione della NPP è importante. Le terre coltivate e le piantagioni sono monocolture, il che significa che ospitano poca biodiversità.

[3] I tassi di estinzione degli insetti sono una fonte importante di informazioni.

Scritto da
Partha Dasgupta

È Frank Ramsey Professor Emeritus di Economia all’Università di Cambridge e membro del St John’s College di Cambridge. È inoltre membro della Royal Society britannica e della National Academy of Sciences degli Stati Uniti. In precedenza, ha insegnato alla London School of Economics e alla Stanford University. È stato incaricato dal Tesoro del Regno Unito di redigere un rapporto, “The Economics of Biodiversity: The Dasgupta Review”, pubblicato nel 2021 che ha suscitato grande interesse. Tra le sue numerose pubblicazioni: “Il capitale naturale. Quanto vale il mondo intorno a noi” (Bocconi University Press 2025).

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