Scritto da Massimo Aprea
7 minuti di lettura
Nel settembre del 2015 i rappresentanti di 193 paesi, riuniti presso l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, hanno approvato l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, una risoluzione con cui si sono impegnati a perseguire, entro il 2030, 17 ambiziosi obiettivi (i cosiddetti Sustainable Development Goals o SDG) per il miglioramento delle condizioni di vita di milioni di persone in tutto il mondo. Nel momento in cui scadeva il termine per il perseguimento degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, la comunità internazionale si andava così dotando di un nuovo e più dettagliato piano di azione che, sulla base della passata esperienza, potesse ispirare il suo operato per la costruzione di un mondo più equo e inclusivo.
Ma quali e quanti progressi sono stati fatti fino al 2015 e in quale aree è ancora necessario intervenire? A rispondere ci aiuta la Figura 1, che mostra il miglioramento di alcuni indicatori di sviluppo tra il 1990 – o il 2000 per quanto riguarda la malnutrizione e l’accesso all’acqua potabile – e le ultime rilevazioni disponibili. Si può vedere come la povertà estrema nel mondo si sia ridotta di oltre i due terzi e il tasso di mortalità sotto i 5 anni di oltre la metà; come l’incidenza della malnutrizione sia diminuita e come l’accesso all’acqua potabile sia stato ampliato.
Figura 1 – Indicatori di sviluppo selezionati, dati Banca Mondiale
Ma la Figura 1 ci dice anche che le persone più vulnerabili sono ancora oggi lasciate indietro e condannate ad un’esistenza molto difficile. Nonostante i notevoli progressi, infatti, nel mondo ci sono ancora 783 milioni di persone che vivono al di sotto della linea internazionale della povertà estrema e, secondo i dati del Rapporto per lo Sviluppo Sostenibile del 2018, l’11% della popolazione mondiale è malnutrita. Similmente, nei contesti più sfortunati è necessario compiere grandi passi in avanti per quanto riguarda l’accesso ad acqua potabile e servizi igienici e per la tutela della salute in tutte le diverse fasce d’età.
L’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, dunque, è lo strumento con cui, sulla base dei passati successi e fallimenti, i paesi di tutto il mondo si sono impegnati a promuovere le esigenze dei più deboli senza tralasciare alcune sfide più marcatamente globali. Nel preambolo della risoluzione che prende il suo nome, i leader mondiali la definiscono un “programma d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità” e individuano il suo obiettivo prioritario nella sconfitta della povertà in tutte le sue forme e dimensioni. Altri impegni sono quelli di garantire a tutti assistenza sanitaria ed educazione di qualità, favorire l’emancipazione femminile e la concreta uguaglianza di genere, ridurre la disuguaglianza all’interno e fra le nazioni; contrastare il cambiamento climatico, preservare l’ecosistema terrestre, assicurare a tutti l’accesso ad acqua e sistemi energetici; promuovere la pace, favorire un’industrializzazione e una crescita economica equa e sostenibile e, infine, rinnovare il partenariato globale per lo sviluppo sostenibile.
Mentre gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio erano rivolti prevalentemente a migliorare le condizioni economiche e di salute all’interno dei contesti più svantaggiati, i 17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile, articolati in ben 169 traguardi, mirano a promuovere un concetto di sviluppo più ampio e applicabile trasversalmente in tutti i paesi.
Il concetto di sviluppo sostenibile
La pagina web delle Nazioni Unite, identifica lo sviluppo sostenibile come uno sviluppo che “soddisfa i bisogni dell’attuale generazione senza compromettere la capacità delle generazioni future di far fronte ai loro” e sottolinea come, per realizzarlo, sia necessario armonizzare le sue tre indissolubili dimensioni: la crescita economica, l’inclusione sociale e la protezione dell’ambiente. Tale definizione, che risale al rapporto del 1987 “Il futuro di tutti noi” della Commissione Mondiale sull’Ambiente e lo Sviluppo, è stata via via arricchita dalle elaborazioni successive della comunità internazionale, del variegato mondo dell’attivismo non governativo e dell’accademia.
Sviluppo, si legge nelle pagine del rapporto, significa capacità di soddisfare, come comunità organizzata, i bisogni e le aspirazioni degli individui. Condizione necessaria e primo gradino dello sviluppo sostenibile, dunque, è un sistema di produzione e distribuzione che garantisca a tutti l’accesso ai beni – dal cibo, alla sanità, all’istruzione – considerati essenziali per condurre un’esistenza dignitosa. Nell’ambito dell’Agenda 2030 tale assunzione viene incarnata dalla priorità accordata alla sconfitta della povertà e della fame in ogni luogo e dal riconoscimento dell’importanza di una crescita economica duratura, inclusiva e sostenibile e di un’industrializzazione equa e responsabile.
Ma il sistema di produzione internazionale e i modelli di consumo prevalenti devono anche essere in armonia con l’ambiente naturale. Se così non fosse, infatti, le generazioni future vedrebbero compromessa la possibilità di soddisfare i propri bisogni. È in tal senso che vanno letti gli obiettivi dal 12 al 15, che mirano, rispettivamente, a favorire modelli sostenibili di produzione e consumo, combattere il cambiamento climatico, proteggere gli oceani e ripristinare l’ecosistema terrestre.
Alla dimensione economica e a quella ambientale, infine, si viene ad aggiungere la dimensione sociale dello sviluppo sostenibile. Nel viaggio collettivo verso un mondo più equo e prospero, si legge nel preambolo, nessuno verrà trascurato. L’idea è quella che le potenzialità umane si possano sviluppare al meglio solo all’interno di contesti in cui la partecipazione sociale sia diffusa. Ecco dunque l’impegno per la riqualificazione degli insediamenti urbani, per l’educazione universale, per la parità di genere, per la pace e per la riduzione delle disuguaglianze economiche all’interno e fra paesi. Quest’ultimo punto merita di essere sottolineato. La crescita delle disuguaglianze economiche che ha caratterizzato moltissimi contesti nazionali negli ultimi trent’anni, infatti, ha contribuito a disgregare quella coesione sociale che risulta fondamentale per portare avanti un piano di azione ambizioso come quello dell’Agenda 2030. L’assunzione di una responsabilità politica per invertire la tendenza rappresenta una grande possibilità di cambiamento, ma resta da capire quanto tale volontà sia radicata e tenace.
In ogni caso, la sua capacità di tenere in considerazione molteplici aspetti del bisogno umano, rende l’Agenda per lo Sviluppo Sostenibile un programma che vale la pena di essere perseguito con forza e determinazione. Ma chi ha la responsabilità di attuare l’Agenda e su quali risorse potrà fare affidamento?
Implementazione: cosa è stato fatto e l’importanza della volontà politica
La responsabilità dell’implementazione dell’Agenda 2030 ricade sui governi dei paesi firmatari nel rispetto del principio di sovranità nazionale. “Tutti i paesi e tutte le parti in causa, agendo in associazione collaborativa”, si legge nel preambolo della risoluzione 70/1, “implementeranno questo programma”. L’Agenda 2030, dunque, nonostante la sua grandissima ambizione e la nobiltà dei principi in essa incorporati, è un accordo non legalmente vincolante tra governi. In concreto, ogni paese è chiamato a elaborare una strategia per lo sviluppo sostenibile in cui stabilire, in base alle caratteristiche specifiche del contesto nazionale, le priorità e le politiche da perseguire.
Nel corso del 2015 sono state intraprese due prime azioni potenzialmente molto importanti ai fini dell’implementazione dell’Agenda 2030. La prima è l’adozione, a luglio, del Piano di Azione di Addis Abeba per il finanziamento allo sviluppo e la seconda è la sigla, a dicembre, dell’Accordo di Parigi sul clima. Quest’ultimo, ratificato ad oggi da 180 paesi, definisce un piano d’azione globale per combattere le devastazioni legate al surriscaldamento climatico. I suoi obiettivi principali, da realizzare attraverso l’attuazione di piani di azione nazionali, sono di mantenere nel lungo periodo l’aumento della temperatura globale ben al di sotto dei 2 gradi celsius rispetto ai livelli preindustriali, di raggiungere al più presto il picco delle emissioni globali per poter intraprendere il percorso della loro riduzione e di mobilitare, entro il 2020, 100 miliardi di dollari per aiutare i paesi in via di sviluppo a far fronte alle esigenze della mitigazione ambientale. A differenza del protocollo di Kyoto, che aveva esonerato i paesi in via di sviluppo dagli obblighi di riduzione delle emissioni, l’Accordo di Parigi si applica universalmente, in base al principio delle responsabilità comuni ma differenziate. Inoltre, il fatto che i singoli paesi abbiano la possibilità di autodeterminare il livello dei propri obblighi coerentemente con gli obiettivi globali, può essere un buon meccanismo per favorire una sua reale applicazione.
Il Piano di Azione di Addis Abeba, invece, affronta il tema cruciale del finanziamento allo sviluppo ed è parte integrante dell’Agenda 2030. Nell’ottica di un’efficace implementazione dei 17 obiettivi, stabilisce che si debbano mobilitare risorse pubbliche, private e aiuti internazionali allo sviluppo su aree trasversali come l’assistenza sociale, la fornitura dei beni pubblici essenziali, la lotta alla fame e alla malnutrizione, la riduzione del gap infrastrutturale, il raggiungimento del pieno impiego attraverso il lavoro dignitoso, la promozione della pace e la protezione dell’ambiente. Un aspetto che viene particolarmente messo in risalto è la necessità del coinvolgimento del settore privato nel finanziamento dello sviluppo sostenibile. Nei paesi in via di sviluppo, ad esempio, è necessario utilizzare gli aiuti internazionali per mobilitare risorse domestiche e straniere attraverso pratiche di finanza mista: il settore pubblico deve supportare e rendere possibili, con strumenti che possono variare dal prestito agevolato all’assicurazione contro il rischio di cambio, quegli investimenti privati che altrimenti non sarebbero profittevoli. Fermo resta, chiaramente, l’impegno degli stati a garantire un ambiente politico e legislativo favorevole agli investimenti. Una collaborazione di questo tipo può senz’altro essere positiva in molti contesti. Diventa fondamentale, tuttavia, che lo stato sappia essere guida e non succube di un settore privato spesso molto forte e organizzato, circostanza, quest’ultima, non del tutto scontata.
Un problema potenzialmente molto importante per l’effettiva realizzazione dell’Agenda 2030 è dato dall’avversione nei suoi confronti dell’America di Donald Trump, culminata nella decisione del giugno 2017 di ritirare gli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi. Gli USA, infatti, sono responsabili di una quota rilevante delle emissioni globali e la loro rinuncia agli obblighi assunti a Parigi mette in pericolo la realizzabilità dell’intero accordo sul clima. In secondo luogo, come ricordato dall’ex segretario delle Nazioni Unite Ban Ki Moon, il forfait di un paese come gli Stati Uniti è particolarmente dannoso per la mobilitazione delle risorse finanziarie necessarie per consentire ai paesi meno sviluppati di intraprendere trasformazione ecologica dei loro sistemi di produzione e consumo. Insomma, l’atteggiamento statunitense, esemplificato dallo slogan “America first”, rischia di minare seriamente la credibilità dell’impegno internazionale verso lo sviluppo sostenibile.
Nonostante le difficoltà, le iniziative nazionali che cercano di affrontare il tema non mancano. Nel nostro paese, ad esempio, nel 2016 è nata l’ASviS – Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile – un’associazione che ha lo scopo di “far crescere nella società italiana, nei soggetti economici e nelle istituzioni la consapevolezza dell’importanza dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile”. L’ASviS raccoglie oltre 200 realtà e porta avanti quell’opera di sensibilizzazione, anche a livello istituzionale, che risulta essenziale per rafforzare la volontà politica di incamminarsi veramente sul sentiero dello sviluppo sostenibile. Gli ingredienti per realizzare l’Agenda 2030, infatti, – soprattutto le conoscenze tecnologiche – sono tutti pronti sul tavolo: occorre soltanto caricarsi di quella voglia di impastare le cose del mondo per trasformarlo in qualcosa di diverso, possibilmente più buono e più bello. È probabile, tuttavia, che per raggiungere alcuni dei suoi obiettivi più ambiziosi servirà un ripensamento radicale del nostro sistema di creazione e distribuzione della ricchezza, sia all’interno dei paesi che, soprattutto, tra aree geografiche diverse. Ma impastare e ripensare sono attività belle, che vale la pena di svolgere.
Crediti immagine: da United Nations [Public domain], attraverso Wikimedia Commons