Scritto da Andrea Baldazzini
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Volendo introdurre il libro non ci sono parole più adatte che queste di Roberto Esposito: «La politica non è altro che la possibilità, o lo strumento, per trattenere in vita la vita»i. É di estrema importanza infatti tenere presente fin da subito che parlare di neoliberismo significa parlare di una logica capace di coinvolgere la totalità degli aspetti dell’esistenza umana: dalla politica all’economia, dal lavoro alla vita, anche nella sua accezione specificatamente biologica. Il pregio di quest’opera risiede proprio nel mostrare fino a dove si spinga, per usare un’espressione cara a Dardot e Laval, la ‘razionalità neoliberale’, ovvero quanto c’è in gioco oggi quando si parla di quel sistema che troppe volte è stato considerato come semplice proseguimento del liberismo classico o schiacciato sul piano esclusivamente economico. Il tema del biolavoro chiama infatti in causa la fisicità dei corpi e il loro potenziale generativo, altra dimensione trascurata all’interno di un regime spesso caratterizzato per la sua immaterialità a livello di interessi; non è un caso che si discuta molto di economia della conoscenza (dunque del suo aspetto cognitivo) e poco del commercio, per esempio, di geni, embrioni, spermatozoi, tessuti ecc… Senza considerare poi che tutti questi ‘mattoni’ necessari per assemblare un essere umano, hanno bisogno di qualcuno che li produca, cioè di una manodopera specializzata nella fabbricazione delle varie componenti biologiche.
É facile provare scetticismo, incredulità, o addirittura avversione verso queste tematiche, considerate molto lontane dalle questioni che possono decidere il futuro del sistema capitalista; chi scrive però è convinto che se si vuole realmente comprendere la dinamicità della Ragione neoliberale, si deve andare al di là dei pregiudizi e aprirsi a tematiche magari più specialistiche, ma estremamente reali e quotidiane. Proprio la quotidianità necessita di uno studio approfondito, allenando l’occhio a riconoscere il marchio anche in quelle realtà apparentemente estranee alle mire delle logiche neoliberali.
A tratti, soprattutto per i non addetti ai lavori, questo libro può apparire addirittura fantascientifico; quale migliore occasione allora per aumentare il livello di stupore e contemporaneamente combattere i monismi intellettuali che chiudono la riflessione dentro ai soliti recinti tematici. Si rifletta per esempio sulle parole di Dean Ornish, clinical professor presso la University of California di San Francisco, il quale in un intervista ha affermato che tra le varie rivoluzioni scientifiche del futuro ci sarà quella riguardante la medicina personalizzata, ovvero quelle forme di trattamento medico che cercano di fornire una risposta su misura a seconda dei problemi del paziente, ma anche dei suoi desideri e volontà. Nello specifico egli si occupa di trovare tecniche e metodi per modificare geni o crearne dei nuovi al fine di riprogrammare la vita individuale sia sotto il suo aspetto biologico, sia sotto quello psicologico-esistenziale: «Quando le informazioni genetiche individuali diventeranno ampiamente disponibili, grazie alla codifica completa del genoma di ciascuno (come hanno fatto Venter e James Watson) o parziale (e meno costosa) a opera di nuove imprese di genomica personalizzata, queste informazioni saranno un incentivo potente per convincere le persone a cambiare stili di vita in modo da influenzare positivamente la loro espressione genica e ridurre così l’incidenza delle malattie croniche oggi pandemiche»ii. Parole queste per le quali è legittimo provare paura, soprattutto se si osserva l’accostamento di un qualcosa come i ‘geni’, cioè quegli spazi contenenti tutte le informazioni che rendono ognuno un essere certamente imperfetto, ma unico, alle «imprese di genomica personalizzata», il tutto inserito in un progetto che mira a «convincere le persone a cambiare stili di vita», dove quel ‘convincere’ assume un tono alquanto minaccioso. Ovviamente qui non si tratta di negare la ricerca medica e tutte le forme di agire terapeutico, ma piuttosto si tratta di combattere quelle pratiche mercantili che fanno del corpo e delle sue forme di ri-generazione strumenti per nuove forme di profitto. Inoltre è altrettanto ovvio che il rapporto tra scienza, in particolare il suo braccio armato, la tecnologia, e la vita è un tema altamente spinoso, complesso e scivoloso; allo stesso modo però non può essere ignorato da chi intende provare a ricostruire il volto, nelle sue molteplici sfumature, del capitalismo avanzato contemporaneo.
La parola ‘biolavoro’ va dunque intesa in due modi: il primo con riferimento all’intensificazione del processo lavorativo su tutte quelle componenti biologiche vitali che costituiscono i ‘mattoni’ della vita: dallo sperma, ai tessuti, agli ovuli, al sangue ecc… Il secondo con riferimento al tema delle nuove forme di manodopera, problematica assolutamente incomprensibile se non viene inserita all’interno di una quadro più ampio che concepisca il neoliberismo come logica totalizzante: «Si tace sul fatto che i corpi che forniscono i materiali in vivo stanno lavorando e che il loro lavoro non è riconosciuto come tale in molte parti del globo. Le varie legislazioni chiamano coloro che vendono tessuti e gameti, uteri e cellule staminali ‘donatriciori’, parlano di rimborsi e mai di salari. Cooper e Waldby ci dimostrano che la retorica moralista è solo la superficie del problema»iii.
Parlare a questo proposito di mercificazione o di reificazione è dunque a dir poco riduttivo, ci vogliono categorie nuove capaci di esprimere la radicalità e la profondità dell’intervento neoliberale negli aspetti più intimi dell’esistenza individuale. Oltretutto ciò fornisce un chiaro esempio di cosa voglia dire che con il neoliberismo è venuta meno una qualunque forma di realtà ed esso esterna ed estranea, cioè non colonizzata dalla sua logica di dominio. Non esiste più un ‘fuori’ del pensiero (espressione questa di deleuziana memoria alla quale subito rimanda il sottotitolo non casuale di L’anti Edipo e di Mille piani che è appunto Capitalismo e schizofrenia). La scomparsa di uno spazio alternativo porta poi con sé la discussione riguardante il presunto passaggio operato dal sistema neoliberista da una logica di produzione a quella della ri-produzione, ovvero ad una logica interessata maggiormente alla gestione e all’amministrazione, più che all’accumulo e all’investimento.
In un recente libro dal titolo “La nuova ragione del mondo” i due autori, già citati all’inizio, sulla scia delle riflessioni di Foucault, trattano del tema della produzione di una ‘soggettività neoliberista’, cioè di una personalità completamente riprogettata secondo i canoni e le volontà tipiche del modello neoliberale. Tema questo da tenere in considerazione perchè fa da sfondo al lavoro di Catherine Waldby e Melinda Cooper qui presentato. Il punto di partenza è la tesi secondo cui la maggioranza delle critiche antiliberiste ha completamente trascurato la dimensione strategica della politica neoliberale, in primis il suo carattere disciplinare, volto appunto alla rieducazione e ricostruzione della personalità. L’aspetto più interessante però risiede nella riproposizione del concetto foucaultiano di ‘strategia senza soggetto’ che regala un’immagine alquanto suggestiva della logica neoliberista: una strategia che non procede dalla volontà di uno stratega ma piuttosto da un insieme di pratiche che determinano precise modalità di agire le quali, a loro volta, attivano tecniche di potere (prime tra le quali le tecnologie disciplinari), ed è la moltiplicazione e la generalizzazione di queste tecniche che imprime poco a poco una direzione globale, senza che nessuno sia l’istigatore della ‘spinta verso l’obiettivo strategico’.
Come scrive Angela Balzano nella sua introduzione al volume riprendendo la figura del cosiddetto ‘imprenditore di se stesso’ (esito finale della produzione di soggettività neoliberali): «Il corpo sociale deve preservarsi da sé, gli individui devono migliorare le proprie performance investendo su se stessi, in senso fisico e intellettuale: è il self-enhancement neoliberista, perseguito a colpi di pillole e ormoni consumate quotidianamente. E allora perchè non cominciare a curarsi ancor prima di nascere, perchè non prevenire: l’auto-terapia diventa una, tra le tante, forme di micro-controllo introiettate nei nostri corpi» (p. 6). Questo libro aiuta proprio a vedere come dietro a queste pratiche vi sia una precisa idea di governamentalità che si rifà: per un verso ai principi della ‘buona gestione’ del management aziendale, e dall’altro a quel desiderio di organicismo pacifico che trova le sue origini non per niente nell’ordoliberalismo tedesco (considerato da Foucault la radice della progettualità biopolitica). Quest’ultimo, concependo il conflitto all’interno della società come il più grande dei pericoli, arrivò a definire precise pratiche terapeutiche volte non alla diretta repressione ma all’apprendimento dell’autorepressione da parte del soggetto: «alla base delle scelte normative governamentali non c’è più la disciplina del corpo sociale, ma la promozione attiva della sua auto-valorizzazione, in senso biologico-politico, perseguita tramite l’impiego di tutta una serie di nuove tecnologie della vita e dell’imformazione» (p. 6). Già Foucault aveva intuito come il nuovo compito dell’analisi economica dovesse essere lo studio del comportamento umano e della «razionalità interna a tale comportamento»iv piuttosto che dei soliti meccanismi di gestione del capitale economico.
Se lo scopo dell’utilitarismo classico era l’intensificazione dei risultati, la minimizzazione delle spese inutili, la creazione di un paradigma dell’efficienza che vedeva solo uomini utili, docili nel lavoro e inclini al consumo con la promessa della massima felicità, oggi ad essere invece messo in questione è il carattere plurale dell’individuo: l’obiettivo è governare un uomo la cui soggettività va integralmente coinvolta nell’attività che gli è assegnata, è il ‘soggetto unitario’ a diventare il nuovo marchio del paradigma neoliberista: un soggetto cioè che detiene un coinvolgimento personale concreto arrivando a trasformare la propria natura desiderante in una mera propaggine dei dispositivi di controllo comportamentale. Dardot e Laval a questo proposito introducono il tema della nuova ‘filosofia del management’ formulata da Peter Drucker, il quale spiega che nell’economia del sapere, e del corpo, non ci si proporne più di gestire strutture, ma di guidare le persone che dispongono di saperi perchè producano il più possibile (anche se si parla di altri esseri umani). É così che il connubio di tecnologia e logica neoliberista arriva a proporre un modello di libertà, presunta, tale per cui diventa legittimo e desiderabile addirittura la programmazione della propria prole, nonché il commercio di elementi biologici difficilmente ricreabili in laboratorio e dai quali è facile ricavare enormi profitti.
Quando si parla in questi termini di uteri, sperma, placenta, cellule staminali, embrioni ecc… e delle cliniche specializzate in fecondazione assistita o maternità sostitutiva sembra quasi di assistere al sorgere di una nuova forma di industria e di una nuova forma di proletariato che fa letteralmente della propria capacità riproduttiva la propria forza lavoro. Come scrive molto bene Angela Balzano nella prefazione all’edizione italiana dell’opera, il neoliberismo deve essere inteso nei termini di una «macchina tecno-riproduttiva» che lavora e trasforma senza sprecare nulla ogni sorta di materiale biologico fino a consumare o riprodurre l’interezza della vitav.
Il punto è che si sta giocando con la vita seguendo però le regole del mercato, fuoriuscendo dal rapporto clinico e dialogico col paziente per entrare in un ottica più simile a quella del venditore e dell’acquirente.
Nonostante tutto bisogna riconoscere che l’uomo da sempre si diverte a prendere i panni del dio creatore, tanto da pensare di poter decidere sulla morte dei suoi simili. Oggi, grazie all’impiego di una ‘ragione non sempre ragionevole’, come diceva Horkheimer, egli pensa di poter decidere addirittura sulla vita di chi ancora ha da venire, trasformando la persona che dovrà nascere in un prodotto come un altro, personalizzabile quasi fosse un’automobile di cui scegliere colore, tipologia, optional. Bisogna infine chiarire che l’atteggiamento critico verso tutto ciò nasce dall’avversione nei confronti della volontà di coloro che intendono inserire il concepimento (tanto per fare un esempio concreto), cioè il primo momento della vita biologica, all’interno di una logica completamente strumentale. Inoltre, molti studi sono stati fatti sullo sviluppo del biocapitalsimo, pochi invece su chi mette a disposizione pezzi o prodotti del proprio corpo rimanendo un semplice ‘donatore’ e senza essere in alcun modo riconosciuto come lavoratore. Ebbene, il libro Waldby e Cooper dimostra invece di avere una spiccata sensibilità e nessuna ombra ideologica, presupposti questi che andrebbero fatti propri da chiunque intenda affrontare seriamente il neoliberismo e le sue implicazioni sulla realtà quotidiana di ogni persona.
Detto ciò, lo spazio a disposizione non concede ulteriori riflessioni e volendo concludere si consiglia la lettura del seguente passo tratto dalla lezione tenuta da Foucault il 14 marzo 1979 presso il Collège de France a proposito del concetto di ‘capitale umano’ e dell’imprenditorialità del sévi, temi oggi di gran moda:
«Da quando diventerà possibile stabilire quali sono gli individui a rischio, e quali sono i rischi che l’unione di due individui a rischio produca un individuo, che sarà a sua volta caratterizzato da un certo tipo di rischio, di cui sarà portatore, sarà perfettamente possibile immaginare uno scenario di questo tipo: i patrimoni genetici buoni, ovvero quelli in grado di produrre individui a basso rischio o il cui tasso di rischio non sarà dannoso né per essi, né per la loro cerchia familiare, né per la società, diventeranno sicuramente rari, e nella misura in cui saranno qualcosa di raro, potranno perfettamente entrare […] all’interno di circuiti o di calcoli economici. In termini più chiari questo significherà che avendo io un mio determinato patrimonio genetico, se voglio avere un discendente il cui corredo sia per lo meno altrettanto buono del mio se non, possibilmente, migliore, sarà anche necessario che io sposi qualcuno il cui patrimonio genetico sia a sua volta buono. Come potete vedere bene, a partire dal problema della rarità dei corredi genetici buoni, il meccanismo di produzione degli individui, la produzione dei bambini, può ritrovare e incrociare tutta una serie di problemi di natura economica e sociale. E se vorrete avere un figlio con un capitale umano elevato, inteso semplicemente in termini di elementi innati e di elementi ereditari, vedete bene che sarà necessario effettuare tutto un investimento, il che significa avere lavorato a sufficienza, avere redditi sufficienti, avere uno status sociale che vi consentirà di prendere come congiunto, o come produttore di questo futuro capitale-umano, qualcuno il cui capitale sarà a sua volta di una certa rilevanza. […] Nel momento in cui una società si porrà la questione del miglioramento del proprio capitale umano in generale, inevitabilmente il problema del controllo, del vaglio e del miglioramento del capitale umano degli individui, in funzione delle unione delle procreazioni che ne seguiranno, sarà tradotto in atto. Il problema politico […] si pone in termini si costituzione, di crescita, di accumulazione e di miglioramento del capitale umano»vii.
i Roberto Esposito, Bìos : biopolitica e filosofia, Torino : Einaudi, 2004.
ii John Brockman (a cura di), Come cambierà tutto: le idee che trasformeranno il nostro futuro, Milano: Il saggiatore, 2010 p. 53.
iii Melinda Cooper, Catherine Waldby, Biolavoro globale: corpi e nuova manodopera, traduzione e cura di Angela Balzano ; postfazione di Carlo Flamigni, Roma: DeriveApprodi, 2015, p. 9.
iv Michel Foucault, Nascita della biopolitica : corso al College de France (1978-1979), traduzione di Mauro Bertani e Valeria Zini, Milano: Feltrinelli, 2005, p. 183.
v Cfr. Melinda Cooper, Catherine Waldby, Biolavoro globale: corpi e nuova manodopera, traduzione e cura di Angela Balzano ; postfazione di Carlo Flamigni, Roma: DeriveApprodi, 2015, p. 7.
vi Il brano è stato riportato identico come si trova nell’ottima prefazione di Angela Balzano.
vii Michel Foucault, Nascita della biopolitica : corso al College de France (1978-1979), traduzione di Mauro Bertani e Valeria Zini, Milano: Feltrinelli, 2005, p. 188-89.
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