Scritto da Daniele Molteni
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Nell’epoca della disintermediazione digitale il mondo dell’informazione sta vivendo un cambiamento radicale, complice l’abbandono progressivo dei media tradizionali da parte delle nuove generazioni e l’emergere di nuovi linguaggi e contesti, dai reel ai podcast, dalle newsletter ai collettivi indipendenti. Questa evoluzione è sinonimo di innovazione o nasconde una crisi profonda del sistema dell’informazione? Come si costruisce autorevolezza quando la fiducia nei media tradizionali vacilla? E come può il giornalismo, soprattutto quello di inchiesta, avere una funzione pubblica nell’ecosistema digitale?
Ne abbiamo parlato con Silvia Boccardi, giornalista freelance e co-fondatrice del collettivo Flares, per una riflessione sulla funzione del giornalismo oggi, tra sfida dell’immediatezza e urgenza della profondità, e sulla necessità di raccontare storie complesse in modo accessibile, anche attraverso nuovi modelli collaborativi. L’intervista è stata svolta in occasione del Festival Internazionale dell’Economia 2025, che si è tenuto a Torino dal 30 maggio al 2 giugno, a cui Silvia Boccardi è intervenuta – insieme a Chiara Piotto e Stefano Feltri – nel dialogo “Millennial e Gen Z: come è cambiata l’informazione”.
Il modo di informarsi è cambiato radicalmente negli ultimi anni, con l’abbandono dei media tradizionali soprattutto da parte di Millennials e Gen Z, e l’emergere di forme innovative di fare informazione come reel, podcast e newsletter. Si tratta di un segnale di crisi o di una naturale evoluzione del giornalismo? Quanto dipende dal modo di costruire consapevolezza attraverso le nuove tecnologie?
Silvia Boccardi: Credo che, in generale, ci sia un cambiamento naturale nell’utilizzo dei media e delle tecnologie attraverso cui li fruiamo. È normale che le nuove generazioni – e non solo loro, a dire il vero – si orientino verso canali diversi e piattaforme come Instagram o Facebook, per esempio, vengono ormai utilizzate da decenni anche da persone ben più adulte della Gen Z. Non si tratta quindi di una dinamica esclusiva dei più giovani, ma di un’evoluzione generale. Il vero problema, però, è a chi stiamo affidando oggi il nostro accesso all’informazione. Quando ci troviamo di fronte a un algoritmo che decide cosa mostrarci e cosa no, o a grandi aziende private che stabiliscono – spesso per motivi economici – che le notizie non sono più una priorità, il rischio è concreto. Tagliare le risorse per il fact-checking, ad esempio, rende problematiche le piattaforme stesse su cui ci informiamo. Questo è un punto cruciale che riguarda sia le nuove generazioni, sia le persone più adulte, che molto spesso cadono vittima delle fake news, perché non sono affatto immuni dalla disinformazione e, anzi, spesso mancano degli strumenti per difendersi. Proprio per questo, serve un’educazione mirata alla comprensione di cosa sia una fonte rispettabile e affidabile e cosa no.
Un’educazione di questo tipo può certamente iniziare nelle scuole, ma è altrettanto fondamentale che i media e le piattaforme facciano la loro parte. E, naturalmente, i giornalisti e le giornaliste: se in televisione organizziamo dibattiti che si risolvono solo in scontri verbali, senza offrire fatti, dati o contesto, allora abitueremo il pubblico a considerare “normale” un’informazione povera di contenuti. A quel punto, se si va su Facebook e non si trovano fonti affidabili o dati verificabili, sembrerà comunque accettabile riportare quel tipo di informazioni, perché anche i media tradizionali si comportano allo stesso modo. Un altro esempio: se riempiamo i giornali solo di editoriali e commenti, abituiamo le persone a pensare che il giornalismo coincida con le opinioni. E se il giornalismo è fatto solo di opinioni, allora non fa differenza informarsi su una testata tradizionale o su un profilo social. Ecco perché credo che i media abbiano una responsabilità enorme nel chiarire qual è il nostro lavoro, cosa fa davvero un giornalista. Questo impegno è necessario a prescindere dall’uso o meno dei social.
Sembra quasi che anche le testate tradizionali rincorrano, infatti, le modalità comunicative dei social, puntando su opinioni e scambi veloci per catturare un pubblico abituato a contenuti frammentati, visivi e con una soglia di attenzione sempre più bassa. In questo contesto, quanto è possibile coniugare una certa profondità con la domanda di immediatezza?
Silvia Boccardi: Penso ci sia la possibilità di tenere insieme questi piani. Nel senso che lo spazio c’è, perché le forme di attenzione sono diverse. Dipende però da quanto l’immediatezza è soltanto un veicolo per coinvolgere, far appassionare e cercare di scoprire di più, oppure se semplicemente viene utilizzata per fare informazione in modo superficiale. Per esempio, lo script di un reel di 2 minuti e mezzo è più lungo di tanti articoli di giornale. Quindi, non penso che l’immediatezza abbia tanto a che fare con i contenuti quanto con il fatto che ci stiamo abituando a “scrollare”, e quindi a ricevere notizie non intenzionalmente e venirne sommersi. Il Digital News Report del 2025 dice che il 40% delle persone cerca attivamente di evitare le news. Ormai non siamo più noi a scegliere di leggere l’articolo di giornale perché navighiamo in uno spazio dove anche se non vogliamo necessariamente informarci arrivano stimoli a farlo. Per il giornalismo è sia una possibilità che un rischio: la saturazione che diventa completa alienazione. Questo ci porta a dover “agganciare” chi guarda in un modo non sempre particolarmente onesto, una sorta di clickbait dei social media. Noi giornalisti ci rendiamo conto che se non pubblichiamo ciò che facciamo sui social media verremo visti da molte meno persone. E quindi cosa si fa e come lo si fa? Questa, secondo me, è una domanda che noi, implicitamente e inconsciamente, ci poniamo tutti i giorni quando decidiamo cosa pubblicare. Ed è uno sforzo che richiede un’energia mentale notevole, perché oggi il giornalista non deve più soltanto preoccuparsi di scrivere il suo pezzo che leggerà chi compra il giornale, ma dovrà lottare sui social per l’attenzione delle persone. Questo da un lato può voler dire che l’asticella debba alzarsi moltissimo, perché comunque sui social media la qualità viene premiata quando si capisce come utilizzare il linguaggio di quei canali. Ma dall’altro lato si corre il rischio che dilaghi principalmente l’opinionismo.
È ovvio come oggi ci sia bisogno tanto di immediatezza quanto di profondità, ma non possiamo pretendere che le persone passino l’intera giornata a informarsi, perché nella vita fanno anche altro. Quello di approfondire, dedicare tempo all’informazione, selezionare fonti, è il nostro lavoro di giornalisti e giornaliste, e non può essere una richiesta generalizzata. Detto questo, chi svolge questo mestiere deve avere la capacità di approfondire ma anche di saper spiegare in modo semplice ed efficace ciò che conosce. E questa semplicità, questa chiarezza, a volte – non sempre, ma a volte – può coincidere anche con una certa brevità. Non è detto che debba per forza essere così, però l’importante è che il contenuto arrivi e che sia comprensibile. Se prendiamo un tema complesso come il conflitto tra Israele e Iran, per esempio, non è necessario che ogni persona conosca nel dettaglio quale tipo di armamento possiede ciascun Paese. Non è quello l’obiettivo. L’obiettivo, piuttosto, dovrebbe essere portare più persone possibili nelle condizioni di farsi un’idea generale, chiara, di quello che sta succedendo a livello geopolitico. E questo, secondo me, riguarda il diritto che hanno i cittadini a essere informati in modo accessibile, chiaro, comprensibile. Poi, certo, c’è sempre spazio per chi vuole approfondire di più. Ma il primo passo, il minimo sindacale che dobbiamo garantire come giornalisti e giornaliste, è che l’informazione sia fruibile, che non vuol dire superficiale, ma “leggibile”. Altrimenti restiamo chiusi in una bolla in cui l’informazione diventa autoreferenziale.
In un momento storico dominato da reazioni rapide, contenuti brevi e da un certo senso di assuefazione o sovraccarico informativo, quale può essere oggi il ruolo, in particolare, del giornalismo investigativo e d’inchiesta? Insieme a Silvia Lazzaris hai recentemente fondato il collettivo Flares, con l’obiettivo di produrre inchieste investigative in formato digitale, audio e video, su tematiche di forte impatto sociale. Da quale esigenza nasce Flares? Cosa significa oggi costruire un collettivo indipendente dedicato all’inchiesta e quali obiettivi vi siete poste?
Silvia Boccardi: La necessità da cui nasce Flares è proprio quella di fare e promuovere un certo tipo di informazione che, dal nostro punto di vista, sta diventando sempre più rara. Non solo giornalismo d’inchiesta in senso stretto ma un’informazione che sappia individuare le responsabilità relative a certe azioni e, allo stesso tempo, capace di interrogarsi sulle possibili soluzioni. Uno dei punti centrali del nostro lavoro è quello di non limitarci a raccontare i problemi, ma cercare anche di esplorare le strade alternative e le diverse possibilità che esistono là fuori rispetto alla realtà per come si presenta. Il nostro secondo grande obiettivo è quello di fare tutto questo in modo da coinvolgere davvero il pubblico, non solo sul piano della comprensione ma anche dell’interesse. Vogliamo che le persone si appassionino alle tematiche che trattiamo e per farlo cerchiamo di rendere il giornalismo d’inchiesta più accessibile, chiaro, e più curato nella forma. Vogliamo che sia coinvolgente anche a livello visivo, narrativo, emotivo. Spesso, infatti, le inchieste giornalistiche risultano un po’ pesanti o difficili da seguire. Questo non per mancanza di qualità, perché succede spesso che chi le realizza conosca in modo approfondito e dettagliato il tema, ma più che altro perché a volte si perde di vista l’obiettivo finale, che è quello di far comprendere al pubblico l’importanza e il valore di quel tipo di lavoro giornalistico. Con Flares vogliamo provare a colmare questo vuoto per raccontare storie importanti in modo rigoroso ma coinvolgente, utilizzando strumenti narrativi e visivi che siano in sintonia con le modalità di fruizione contemporanea, senza snaturare il contenuto. Oggi per raggiungere davvero le persone bisogna prima di tutto avere qualcosa da dire, ma serve anche saperlo dire nel modo giusto.
Anche perché l’impatto che poi possono avere le inchieste dipende molto dalla forma tramite cui vengono veicolate, oltre che dalla sostanza.
Silvia Boccardi: Esattamente. Ci teniamo molto a far sì che le inchieste che noi realizziamo, che seguiamo insieme ad altri giornalisti, possano avere un impatto reale. Un altro aspetto per noi molto importante riguarda il lavoro collettivo, ed è per questo che Flares è nato come un collettivo vero e proprio: lavoriamo insieme ad altri giornalisti, provenienti da testate diverse, con esperienze e competenze differenti, per costruire contenuti condivisi. Il nostro obiettivo non è diventare una testata giornalistica vera e propria, o “un media” in senso tradizionale. Quello che vogliamo fare è creare una rete, unire forze e professionalità diverse – giornalisti, giornaliste, media partner, network investigativi – per realizzare inchieste che altrimenti rischierebbero di restare nell’ombra. E per farlo crediamo nella collaborazione, non nella competizione. Per noi, è il terzo punto fondamentale: unire le forze verso un potenziale cambiamento. Oggi uno dei problemi principali del mondo dell’informazione è proprio l’isolamento in cui si trovano troppi giornalisti, spesso lasciati soli. Questo rende il loro lavoro più difficile, più fragile. All’interno di Flares vogliamo andare nella direzione opposta e creare uno spazio di condivisione, dove lavorare insieme diventa la regola e non l’eccezione.
Qual è il significato del nome Flares, come lo avete scelto e quali inchieste avete realizzato finora?
Silvia Boccardi: Siamo partite dall’idea che il giornalismo d’inchiesta sia, da sempre, quel fascio di luce che illumina ciò che normalmente rimane nascosto. Si pensa spesso all’immagine del faro, della lampada che rivela documenti, dati, verità taciute. Da lì abbiamo voluto spingerci oltre: cercavamo qualcosa di più dirompente, più potente visivamente, e anche più “colorato” nel senso di impattante. Entrambe, sia io che Silvia Lazzaris, veniamo dal mondo del videogiornalismo; quindi, per noi la componente estetica e narrativa ha sempre avuto un ruolo fondamentale. La traduzione in italiano del termine inglese flare racchiude diversi significati: può essere il razzo di segnalazione lanciato in mare per chiedere aiuto, oppure indicare i fumogeni usati nelle proteste e nelle manifestazioni, o anche un bagliore improvviso nello spazio buio, come nel linguaggio astronomico. Ci piace perché unisce simboli di denuncia, protesta e chiarezza. Non è solo fare luce, ma farlo in modo potente, visibile, capace di attirare attenzione e – speriamo – generare cambiamento. Per quanto riguarda i progetti già realizzati, finora abbiamo pubblicato due inchieste. La prima è un documentario prodotto insieme a IrpiMedia, in collaborazione con Laura Carrer, sul tema degli stalkerware. Abbiamo intervistato Laura mettendola al centro del racconto e della sua stessa indagine, ed è stato importante per noi far uscire questa inchiesta il 25 novembre, nella Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. La seconda è un’inchiesta originale che abbiamo sviluppato con altri giornalisti e giornaliste, in collaborazione con IO Donna e Il Salvagente, sul tema dell’inquinamento dell’aria a Milano e in Lombardia. Anche questo è un argomento che ci sta molto a cuore e lo abbiamo affrontato con l’obiettivo di offrire dati nuovi e analisi più puntuali per dimostrare che non si tratta solo di un problema “sistemico”, come spesso viene liquidato, ma di una questione concreta, urgente e male affrontata.
In un contesto in cui la fiducia nei media è sempre più fragile, spesso diventa centrale avere una community solida e coinvolta: è un obiettivo che molti giornalisti inseguono lavorando sulla propria identità, in bilico tra giornalismo e influencing. Questo perché è sempre più importante costruirsi un’autorevolezza anche al di fuori delle grandi testate, sia come singoli che come collettivi. Realtà come Flares, IrpiMedia, Fada Collective, o anche festival come DIG, possono rappresentare una forma di risposta alla crisi dell’informazione tradizionale? Possono essere un modello alternativo da cui ripartire? Qual è il loro potenziale in termini di impatto e coinvolgimento di pubblico?
Silvia Boccardi: Le realtà che hai citato sono già, di fatto, un modello reale, rappresentano il tipo di giornalismo che vorrei e che tante persone desiderano. Il problema, però, è che purtroppo ottengono spazi ancora molto limitati e il loro lavoro non raggiunge abbastanza persone. Ed è qui che entra in gioco uno degli aspetti fondamentali di Flares che ho già citato: la collaborazione. Un’alleanza, diciamo così, a tre vie tra media, giornalisti e network investigativi, per cercare di spingere affinché anche i media tradizionali inizino a dare spazio a queste realtà, che spesso nascono dal basso e sono portatrici di vere eccellenze del giornalismo, sia a livello nazionale che internazionale. Quello che succede, però, è che queste realtà si trovano spesso a parlare solo all’interno di bolle. E l’obiettivo, invece, è proprio quello di farle “esplodere”, rompere quei confini, e far emergere questo tipo di giornalismo là dove, al momento, non c’è spazio – anche se il pubblico, in realtà, è molto più ampio di quanto si pensi. È un processo lungo, ma sono convinta che, con il tempo, anche i media più strutturati capiranno che là fuori esiste già un patrimonio di lavoro giornalistico importante, solido, e che può essere valorizzato e portato al centro del dibattito pubblico.
Il ruolo del giornalismo, in una democrazia, è anche quello di esercitare controllo e vigilanza. Eppure, oggi appare sempre più esposto alla polarizzazione, che non solo subisce, ma in alcuni casi contribuisce ad alimentare. In un contesto internazionale sempre più complesso e frammentato – in cui cresce l’urgenza di prendere posizione su conflitti, diritti e ingiustizie – quanto diventa difficile tracciare il confine tra informazione e attivismo? E quanto è rischioso, ad esempio, semplificare i conflitti dividendo il mondo tra “buoni” e “cattivi”, democrazie e autocrazie, correndo il rischio di contribuire a narrazioni distorte o parziali?
Silvia Boccardi: Sicuramente cogli un punto rilevante, soprattutto nel contesto attuale, che è estremamente difficile da comprendere e da spiegare. Credo che, quando si parla di certe questioni, ci sia anche un problema legato a quello che viene chiesto ai giornalisti, e penso soprattutto alle richieste che arrivano da parte di alcuni media, come le televisioni, che spesso vogliono delle opinioni sugli eventi in corso. Il lavoro del giornalista non è quello di esprimere opinioni: è quello di raccontare i fatti. Anche in questo caso l’attivismo sui social può far parte della dimensione personale del giornalista, ma non deve confondersi con il lavoro di informazione. Io, ad esempio, credo fermamente che a Gaza stia avvenendo un genocidio. Lo affermo apertamente e non mi tiro indietro su questo punto. Ma quando mi viene chiesto di esprimere un’opinione in un contesto giornalistico, credo sia un errore parlare di ciò che penso io dal punto di vista personale. Io riporto dati, racconto i fatti, descrivo quello che sta accadendo. Dopodiché, il pubblico è libero di farsi un’idea propria. Naturalmente, io sono libera di partecipare a una manifestazione e di esprimere le mie posizioni in altri contesti, ma dipende sempre da dove e come si agisce. L’errore di alcuni mezzi di informazione o di alcune redazioni (più che dei singoli giornalisti) è far passare le opinioni per dei fatti. È un problema strutturale e sembra che oggi non si possa lavorare in modo diverso. L’imparzialità non esiste, ma non è obbligatorio essere attivisti per essere giornalisti. Anzi, probabilmente è vero proprio il contrario.
Un altro aspetto molto importante è la scelta dei termini da utilizzare e dei temi da trattare. Questo, in un certo senso, pone le basi del dibattito pubblico, perché ciò che i media decidono di dire – e come lo dicono – contribuisce a costruire la narrazione collettiva. I limiti imposti al linguaggio diventano, spesso, i limiti di ciò che è dicibile. E lo stiamo vedendo chiaramente in questi anni.
Silvia Boccardi: Assolutamente si. C’è sicuramente un ragionamento profondo da fare a livello giornalistico. Esistono già dei codici professionali che indicano come dovremmo trattare determinati argomenti. Il problema è che, purtroppo, questi non vengono rispettati. Forse basterebbe semplicemente ripartire da lì: dalle regole che già esistono e che dovrebbero essere condivise da tutta la categoria. Quello di restare all’interno di quegli schemi minimi sarebbe già un passo avanti, perché ci permetterebbero di affrontare il lavoro con maggiore responsabilità e coerenza.