Recensione a: Marco Aime e Davide Papotti, Confini. Realtà e invenzioni, edizioni Gruppo Abele, Torino 2024, pp. 176, 18 euro (scheda libro)
Scritto da Marina Lombardi
7 minuti di lettura
Cum finis, è il luogo in cui qualcosa finisce. Il temine di uno spazio occupato che su quella linea cessa di esistere. Ma cosa c’è dall’altro lato? A parlarne sono Marco Aime e Davide Papotti nel loro libro Confini. Realtà e invenzioni, un saggio che riflette sulla dimensione del confine tramite una prospettiva antropologica. Una spiegazione precisa e completa che, passando attraverso le parole di Gabriel Garcia Marquez, Zygmunt Baumann e Vasilij Kandinskij, tra gli altri, è capace di rivolgersi ad un pubblico ampio, tessendo le maglie di un’antropologia dei confini, dove a tracciare le linee divisorie non è ciò che appartiene solo alla geografia.
Marcare un confine è qualcosa di tangibile quanto metaforico, almeno secondo l’antropologia. Riflettere sul significato di quella linea è un aspetto tanto complesso quanto quello di definire gli spazi abitati dagli esseri umani. Se quindi il confine è quel luogo in cui qualcosa cessa di esistere, che cos’è che finisce? «A finire è spesso l’idea che abbiamo di noi stessi come gruppo sociale – scrivono gli autori – un’idea che non necessariamente corrisponde alla realtà e che nella maggior parte dei casi è frutto di una narrazione, quando non di una vera e propria manipolazione o invenzione della tradizione». A finire di fatto, è uno spazio che è stato organizzato, «una mappa concettuale sulla base della quale ordiniamo la vita sociale». Il paleontologo André Leroi-Gourhan affermava che l’uomo è organizzatore dello spazio, una dimensione entro la quale l’antropologia legge ed analizza l’ordine che gli esseri umani creano all’interno di quello che diventa spazio sociale, che attraverso la cultura assume significati ben precisi. Il confine circoscrive quindi un’area di condivisione, di scambio, di conferma reciproca e per esistere deve essere separato da ciò che è altro. Il riferimento alle parole di Georg Simmel, con le quali egli paragona il confine alla cornice di un’opera d’arte, rappresenta al meglio questo concetto. La cornice di un quadro ha la funzione di delimitarlo, ritagliandolo dal mondo comune e rendendolo unico e speciale: «Così è una società, per il fatto che il suo spazio esistenziale è compreso in confini ben consapevoli» (p. 15).
Confini e frontiere
Nel 1993 l’Italia ha visto l’arrivo del primo sbarco di “migranti” a Lampedusa. Si apre, da lì in poi, un discorso pubblico nel quale termini come frontiere o confini risultano sempre più presenti. Una sovrapposizione terminologica che non può prescindere dalla diversità dei significati stessi. A livello di significato, infatti, spiegano Aime e Papotti, il confine tende ad occupare un campo semantico che trova incarnazione in una linea netta, che divide due spazi. Il termine frontiera riflette invece un territorio non ancora del tutto definito, perché in continua evoluzione. Il termine frontiera richiama appunto una dimensione politica e strettamente legata alla questione della sicurezza, in alcuni casi militare. Pier Paolo Viazzo scrive che il termine (che in lingua inglese si traduce come frontier e si utilizza in modo separato da confine, cioè border) è usato anche per indicare lo spazio più o meno ampio di territorio al di là e al di qua della linea di confine[1].
Parlare di tracciare i confini è una questione che entra ed esce dal discorso pubblico a seconda dei casi di attualità nella sfera della geopolitica. Qualcosa che rimanda ad una dimensione passata che sembrava non dover più essere messa in discussione. Eppure, in un clima come quello attuale, la discussione sui confini sembra essere all’ordine del giorno e, per di più, in live streaming mondiale. A proporre e portare avanti azioni di conquista, idee di annessioni, progetti di colonizzazione sono leader politici, apparati militari, gruppi con fini terroristici e non solo. Dalle dichiarazioni del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che ha affermato di voler annettere il Canada agli USA, alle atroci azioni messe in atto dallo Stato d’Israele nella striscia di Gaza, i cui confini sono sotto assedio da decenni, il tempo non sembra ancora quello di smettere di discuterne. Secondo l’antropologo Ugo Fabietti «l’umanità appare impegnata a costruire confini, il compito dell’antropologia consiste nello studio di come ciò avvenga e di quali effetti la presenza di tali confini abbia per la vita dei gruppi umani»[2].
«Se ti sedessi su una nuvola non vedresti la linea di confine tra una nazione e l’altra, né la linea di divisione tra una fattoria e l’altra. Peccato che tu non possa sederti su una nuvola» le parole dello scrittore libanese Khalil Gibran riportate nel libro aprono le porte ad una dimensione del discorso per niente retorica e sempre più rilevante. Spesso, nel corso della storia, per giustificare le separazioni si è parlato di confini naturali. Nel caso dell’Africa, ad esempio, le amministrazioni coloniali fecero un ampio uso dei fiumi per tracciare i confini «dimenticando che quei fiumi, in molti casi, più che elementi di divisione, erano luoghi di aggregazione» (p. 57). La dimensione della natura è, nella maggior parte dei casi, utilizzata come qualcosa di scontato. Utilizzando l’espressione “è naturale”, il discorso mette un confine che non può più essere contestato. Il che rappresenta anche una delle basi fondanti dell’antropologia, poiché il confine più dibattuto e studiato è proprio quello tra natura e cultura. Che cos’è naturale e che cosa invece culturale? In questo elaborato i confini appaiono come un costrutto umano, mai dato per scontato né ineludibile, bensì qualcosa che ruota attorno agli esseri umani e il loro modo di pensare la propria società, nonché di pensare chi è “altro”.
L’ordine nazionale delle cose
Stando all’idea dei confini fin qui posta nel discorso, esisterebbe quindi un ordine naturale delle cose. O, si potrebbe dire, un ordine “nazionale” delle cose. Questo discorso si erge sul presupposto dell’esistenza dello Stato-nazione, che prima della sua invenzione vedeva un mondo, nella sua dimensione geo-politica, composta da confini che erano spazi meno delimitati, se non addirittura inesistenti.
Progressivamente, dal Settecento in poi, i confini iniziano a prendere la forma politico-giuridico-territoriale dello Stato-nazione, complice una politica che si riconosce tale come comunanza e appartenenza al suolo nazionale. Il mondo inizia ad essere concepito in forma sedentaria, con zone alle quali si appartiene. All’interno dei confini dello Stato-nazione si affinano sempre più ideologie nazionaliste che irrigidiscono i valori fondanti e fungono da collante sociale: un’identità ben precisa e sempre più marcata, che ancora persiste.
Ma non solo. Nell’età del colonialismo più feroce, i diversi imperi coloniali iniziano a definire la geografia del mondo e ad imporre confini che rinchiudono popolazioni e delimitano fasce di territorio. Chi resta fuori da questi confini inizia ad essere visto come qualcosa di altro, di “etnico” o “tribale”, appunto perché fuori da confini civilizzati. L’idea del confine come una linea che separa, che è sembrato per molto tempo il modo migliore per dividere gli Stati, si presenta però, secondo questo studio di Aime e Papotti, come un’idea “occidentale” e anche relativamente recente. Perché è il colonialismo ad aver fatto sì che i confini coloniali tagliassero in due numerosissimi gruppi etnici, che oggi si trovano divisi. Quel senso di comunità e di appartenenza però non è sparito e in molti casi è diventato anche più forte. Questo avviene poiché può accadere che sia attivato consapevolmente dai componenti della comunità, forti di pratiche sociali che consentono di mantenere attive le relazioni. Se è vero, infatti, che il colonialismo e la divisione del mondo secondo confini rigidi hanno provocato enormi scissioni, è vero anche che questo non ha completamente distrutto quei legami. D’altro canto, le linee di confine hanno reso quasi impossibile alle popolazioni nomadi vivere secondo le proprie abitudini, poiché la sopravvivenza del nomadismo è stata spesso impedita dagli Stati coloniali. Ad esempio, gruppi come i Bedu, appartenenti alla fascia del Nord Africa, che si spostavano tra quattro Paesi differenti, sono stati completamente stravolti da queste trasformazioni.
Tra il metaforico e il referenziale
«Tutte le società producono degli stranieri: ma ognuna ne produce un tipo particolare, secondo modalità uniche ed irripetibili» afferma Zygmunt Bauman. La costruzione dei confini è quindi un prodotto storico e non naturale. Un prodotto di una certa Storia. I confini, in molte aree del mondo, sono quindi un’eredità delle azioni coloniali iniziate e spesso portate avanti da gruppi dominanti e le linee sulle carte geografiche, in questa prospettiva, diventano anche altro nel descrivere cos’è all’interno e cosa all’esterno. Spostando la discussione dal piano referenziale, è possibile notare come il confine assuma delle connotazioni metaforiche più importanti che mai. Il confine culturale di cui parla questo testo è qualcosa che influenza molte sfere: il colore della pelle, le narrazioni dominanti, il contesto socioeconomico in cui si cresce, e che forma lo sguardo sul proprio mondo e su quello dell’altro.
«L’altra verità è che un confine produce inevitabilmente degli stranieri» affermano gli antropologi nel libro. Un elemento che si ripercuote nella dimensione della diversità, non più nella discriminazione razziale di chi è altro, ma nella distinzione fra culture troppo diverse tra loro da essere compatibili. «Il problema del diverso si è spostato dal piano della razza a quello della cultura. Permettendo alla destra xenofoba di ricostruirsi una rispettabilità politica. La volontà di epurazione resta, ma in questo caso abbiamo un razzismo senza razza» (p. 73).
Etnia, identità, cultura sono diventati slogan sfruttati da politici che puntano sul locale e sui localismi, visti come estrema difesa dall’invasione straniera. Ritorna così in voga l’immagine di una presunta purezza culturale, da difendere dalle contaminazioni (da notare il carico di negatività che accompagna questo termine di ambito medico) portate dagli stranieri. Un’immagine che presupporrebbe una sorta di grado zero a cui fissare i limiti oggettivi di ogni cultura, letta come unità indivisibile, unica e impermeabile ad apporti esterni e pertanto contrapposta a tutto ciò che è altro. Culture come gabbie, quindi, nelle quali gli individui sarebbero costretti dalla nascita e dalle quali sarebbe impossibile evadere. Questa visione si rivela attraverso l’espressione «scontro di culture» e del suo corrispettivo simmetrico «incontro di culture». In realtà nessuno ha mai visto delle culture scontrarsi o incontrarsi: a farlo sono donne, uomini, bambine e bambini. Perché allora ingabbiare gli altri con etichette identitarie costruite?
Il tema del fondamentalismo culturale viene affrontato e analizzato come la presentazione di cause naturali attribuite a scompensi e discriminazioni socioeconomiche esistenti tra gli individui. «Se pensiamo a tali squilibri come naturali, ci viene anche più facile accettare che siano irrisolvibili (non possiamo sfidare la natura!)» (p. 73). Tra le parole di questo elaborato, il confine è anche identità, come afferma ed analizza nei minimi dettagli l’antropologo Shahram Khosravi nel libro Io sono confine[3]. Una riflessione che si propone come rappresentativa del problema della scissione identitaria che attraversa la vita di alcuni migranti e dalla scala del singolo individuo abbraccia quella continentale. Un confine invisibile che si radica sulle persone.
L’antropologia ha già da tempo individuato un termine adatto alla questione, che è culturalismo. Un’espressione con la quale si intende il fatto che è la cultura entro la quale si è nati ad orientare il comportamento in modo immodificabile. Qualcosa su cui riflettere e che deve esulare dalla dimensione data per scontata di ciò che è naturale. L’idea per cui le culture non sono rigide, ma si scontrano e si mescolano, è quindi un fondamento basilare da cui far iniziare la riflessione. Esiste ovunque quella visione in base alla quale si guarda l’altro da una prospettiva di diversità. Ma questa diversità è ritenuta oggettiva? Naturale? Cosa caratterizza davvero sé stessi e cosa caratterizza gli altri?
In questo libro denso di concetti e di riflessioni, i confini che conosciamo si esplicitano in molteplici forme a cui però non sempre attribuiamo il significato più consono. La decostruzione continua dei concetti di confine che si susseguono nell’elaborato passa dal territoriale al culturale, per poi riflettersi anche su pratiche comuni e significati politici. Un libro che porta l’antropologia fuori dalle aule accademiche e che è capace di andare oltre i significati conosciuti, mettendo in discussione qualcosa di familiare rendendolo estraneo, per poi ricostruire nuovi presupposti con i quali affacciarsi al mondo.
[1] Paolo Viazzo, Frontiere e confini: prospettive antropologiche, Franco Angeli, Milano 2007.
[2] Ugo Fabietti, La costruzione dei confini in antropologia in Silvia Salvatici (a cura di), Confini. Costruzioni, attraversamenti, rappresentazioni, Soveria Mannelli, Rubbettino 2005, citato in Barbara Sorgoni, Antropologia delle migrazioni. L’età dei rifugiati, Carocci editore, Roma 2022.
[3] Shahram Khosravi, Io sono confine, Elèuthera, Milano 2019.