Scritto da Paolo Missiroli
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Herbert Marcuse è morto nel 1979, ed è uno dei pochi grandi pensatori ad avere avuto più fortuna da vivo che da morto. Il vecchio professore tedesco che spiegava Hegel agli studenti di San Diego, che girava l’Europa nel corso degli anni ’70 , gli anni della rivolta sociale, ha lasciato questo mondo nel pieno della sua fama, che sarebbe scemata immediatamente dopo la sua morte. A partire dagli immediati anni ’80, sotto i colpi del neoliberismo rampante, ci si è quasi dimenticati di lui e del suo pensiero dalla portata rivoluzionaria; la sopravvivenza del suo pensiero, fino a qualche anno fa era dovuta quasi esclusivamente al mondo accademico, dove si approfondiva specificamente il suo pensiero estetico.
La storia del pensiero non si scinde mai da quella della materia; ne è un suo momento relativamente autonomo. Per comprendere la dimenticanza di Marcuse bisogna ritornare alla concreta situazione storico-politica degli anni ’80, ’90 e dei primi anni 2000. La chiusura apparente delle chanches rivoluzionarie, l’avvento del capitalismo globalizzato e la distruzione delle forze politiche apertamente anti-capitaliste (su cui, dobbiamo dire, Marcuse non aveva mai fatto troppo affidamento), hanno portato a pensare che il pensiero del filosofo tedesco fosse ormai inevitabilmente datato, espressione di un tempo che non tornerà mai più. Certamente meglio, si diceva, concentrarsi su altre tradizioni di pensiero, dal liberalismo ai proclamati antenati del postmodernismo (sic!).
Non è compito di chi scrive queste righe evidenziare la miopia di chi riteneva la chiusura definitiva, e sarebbe forse troppo facile ragionare col senno di poi. Conviene invece guardare avanti, uscire dal dogmatismo che vuole il capitalismo neoliberista unico orizzonte dell’esistenza dell’uomo, e più in particolare recuperare quei filoni nascosti del pensiero del ‘900 e della modernità (e prima) che possono servirci per spiegarci politicamente il presente, per dare ragione della nostra stessa condizione storica e di come uscirne. Quello che si proverà a fare nelle poche righe a disposizione sarà mostrare uno degli aspetti del pensiero di Marcuse che lo rendono parte di queste falde da cui attingere.
Marcuse non è un filosofo della libertà. La sua concezione di libertà, che si identifica con il non essere repressi, si coglie solo tra le righe dei suoi testi. Marcuse è un filosofo della liberazione. Norberto Bobbio diceva che esistono due modi di pensare la politica; come consiglieri del principe o come teorici della liberazione1. Il punto qui è comprendere che Marcuse non ha alcuna utilità per chi pensi la politica dal primo punto di vista; a Marcuse non importa nulla di come vada gestito il potere (non che non lo consideri importante: solo, non è la sua problematica). In Eros e Civiltà il pensatore berlinese ci dà in nuce il suo pensiero filosofico complessivo: lo fa confrontandosi con Freud. In una sintesi troppo stringata per essere esauriente anche solo dello schema del pensiero di Marcuse: Freud sosteneva che ogni civiltà si basa sulla repressione di determinati istinti. Questi istinti sono quelli di Eros, che se lasciato libero distruggerebbe l’interezza del corpo sociale, che si fonda da sempre sulla penuria. Non è possibile pensare una civiltà con Eros liberato. Essa deve necessariamente far fronte alla penuria e quindi deve organizzare rigidamente il lavoro sociale2:
Durante tutta la storia della civiltà che ci è nota, le restrizioni istintuali imposte dalla penuria sono state intensificate […] Il principio del piacere fu detronizzato non soltanto perché esso militava contro il progresso della civiltà, ma anche perché militava contro una civiltà il cui progresso perpetua la dominazione e la fatica del lavoro.
Un doppio movimento nell’analisi di Marcuse, dunque: da un lato è vero che la società per svilupparsi avrebbe comunque avuto bisogno di lottare contro la penuria con un certo grado di repressione; ma questo non è solo quello che è avvenuto. È avvenuta anche un’ulteriore repressione, in funzione di dinamiche ideologiche di dominio e di mantenimento della ricchezza da parte di pochi, di contro ai molti senza nulla. Dunque se era inevitabile nella sua interezza la repressione del principio di piacere allo stesso modo è vero che c’è sempre stata troppa repressione. Ma in che senso repressione? Marcuse è uno dei pochissimi marxisti, e non a caso è uno dei massimi rappresentanti del cosiddetto marxismo occidentale e della teoria critica, che ha messo in evidenza la dimensione del corpo (e quindi dell’individualità). È nel corpo che stanno quei bisogni3 che si manifestano nella sensibilità, che portano all’esterno la dimensione naturale dell’uomo. I sensi non sono esclusivamente, e nemmeno principalmente, organi di cognizione. La loro funziona cognitiva è confusa con la loro funzione appetitiva (sensualità); essi sono erogeni, e sono governati dal principio del piacere, che è il luogo della relazione umana disalienata. I sensi sono ciò che se disalienato consente di pensare il lavoro come gioco, cioè come libera attività che rende l’oggettivazione dell’uomo un’oggettivazione autentica e la libera dal regno della necessità. Il punto filosofico di Marcuse è questo: un recupero della teoria dell’alienazione marxiana svincolandola però dall’essenzialismo, legandola alla dimensione biologica dell’uomo. La struttura stessa dell’uomo, la sua natura (in questo senso biologico) è sempre la medesima. L’uomo possiede un corpo portatore di una sensibilità irriducibile, ad esempio, al lavoro di fabbrica ed al dominio fisico; irriducibile al sistema capitalistico (ed anche a quello a socialismo reale, di cui Marcuse è un grande critico). Per Marcuse la storia entra nella dimensione sensitiva dell’uomo solo per reprimerla o per liberarla; essa non plasma mai nulla. Per Marcuse è il corpo l’origine delle contraddizioni; sono i sensi il cuore della rivoluzione. L’apertura è data da questa dimensione sensibile dell’uomo. Il filosofo di Berlino che aveva scritto due dei più bei libri del ‘900 su Hegel e che ha sempre sostenuto la dimensione ontologicamente contraddittoria del reale, trova in questa dimensione sensibile l’apertura perenne che consente una certezza a priori dell’impossibilità della chiusura di un qualsiasi sistema sociale repressivo, che va poi evidentemente declinata criticamente secondo ogni condizione (e com’è noto Marcuse non ha mancato di farlo).
Per pensare a fondo l’attualità di Marcuse dobbiamo ora proseguire nella nostra analisi di Eros e Civiltà. Si era detto che per Freud non c’è civiltà senza repressione. Marcuse risponde in questo modo al ragionamento freudiano che lega penuria e repressione:
Il pretesto della penuria, che ha giustificato la repressione istituzionalizzata fin dai suoi inizi, diventa meno plausibile man mano che la conoscenza dell’uomo e il suo controllo della natura aumentano i mezzi per soddisfare i bisogni umani con una fatica minima
È dunque solo a partire dallo sviluppo tecnico portato dal capitalismo che si può pensare una trasformazione radicale della società, perché qui il pretesto della penuria diviene appunto un pretesto e non è più giustificabile, o quanto meno diventa ideologico, il discorso che vuole la società come repressa in virtù della necessità della produzione, del “far funzionare la macchina” (è questo il ragionamento più in voga ancora oggi)4. In effetti Marcuse qui si pone a metà strada tra il produttivismo e i teorici della decrescita più o meno felice: se è consapevole del fatto che in una società non repressiva i prodotti effettivi saranno minori rispetto ai nostri (ma questo è un bene nella misura in cui i bisogni sono storici – e qui come si dice casca l’asino dei produttivisti più banali – cioè si determinano a partire dai momenti storici effettivi, ed una società non repressiva ha bisogni qualitativamente diversi – più naturali, appunto- rispetto a quelli di una società repressiva), è anche consapevole che un ritorno romantico al pre-tecnico è l’incubo peggiore proprio per il ragionamento appena affrontato: se pensiamo la liberazione possibile a partire dallo svincolamento dai bisogni naturali immediati, non possiamo rifiutare la tecnica. Il ragionamento qui è prettamente marxiano: il capitalismo, per cui è necessario passare, genera le possibilità sia di un suo superamento sia di una società umana autentica, in termini marcusiani non repressa.
Non bisogna pensare Marcuse come un romantico che sogna il ritorno al mondo pre-tecnico, né come una specie di santone che vuole creare una società di maniaci sessuali (l’espressione è sua). Anche la sessualità cambia in una società non repressiva: il concentrarsi della sessualità del nostro tempo sull’apparato genitale è sintomo di repressione, non di apertura. In questo senso possiamo comprendere storicamente e politicamente le critiche che Costanzo Preve ha mosso a suo tempo ad Eros e Civiltà, considerandolo uno dei testi di apertura nei confronti di quello definito dal filosofo torinese “economicismo libertario” del capitalismo avanzato. Possiamo comprenderle, perché Preve è il capofila italiano di quell’intellettualità rosso-bruna che oggi ha il suo massimo esponente in Diego Fusaro, allievo dello stesso Preve: cioè possiamo spiegare che si sostiene che la forma borghese di vita sia la negazione del capitalismo e che dunque il “libertarismo dei costumi” (?) sia un ulteriore sfondamento del sistema capitalistico nelle nostre società. Non è però tesi sostenibile filologicamente: per Marcuse infatti anche la sessualità quando viene disalienata, cambia. La sessualità concentrata sui genitali e la pornografia, l’utilizzo oggettuale del corpo femminile per Marcuse sono segni di repressione, non aperture. La critica di Preve è dunque, da un punto di vista filologico, assolutamente infondata5, ma indicativa di una posizione intellettuale ormai diffusa e a cui il pensiero marcusiano sta agli antipodi. È, peraltro, un marxismo particolare, il suo; esattamente quello di cui abbiamo bisogno. Pensare oggi un marxismo ortodosso (intendendo peraltro per ortodosso stalinista, o socialdemocratico, o leninista; ed anche su questo sono sollevabili molteplici obiezioni) non solo lascia il tempo che trova, è del tutto improduttivo per quella liberazione di cui si parlava all’inizio. Marcuse, con tutti i suoi limiti, ci consente di ripensare una politica diversa, di ragionare diversamente sul rapporto tra le classi e i movimenti sociali e politici, di pensare in senso totale il capitalismo anche da un punto filosofico; di ovviare a determinati problemi che affliggono da sempre il pensiero marxista, come la scarsa considerazione dell’individuo (senza scadere nel liberalismo), il considerare la natura un mero oggetto di utilizzo, l’allargamento della lotta al di là delle classi lavoratrici.
Herbert Marcuse entra così in pieno titolo in quella tradizione importante ma poco conosciuta (anche se in via di riscoperta) del marxismo, che è quel marxismo occidentale, da sempre contrapposto allo stalinismo (al di là dello schierarsi politico dei suoi singoli esponenti: il pensiero di Jean-Paul Sartre, che è un pensiero della libertà, non è mai stalinista), un marxismo dialettico; vicino alla dimensione fenomenologica ed alla dimensione quotidiana, individuale; anti autoritario nella sua essenza più propria; vicino al Marx dei Manoscritti visti come griglia di lettura del Capitale. È questa una tradizione a cui conviene rivolgersi se si vuole cercare di pensare politicamente il presente ed il problema dell’attualità del marxismo e dello stesso Marx. Dopo il fallimento delle prospettive strutturaliste, si pensi solo alla vicenda di Louis Althusser ed in parte anche di quelle post-strutturaliste, è necessario un ripensamento generale delle categorie più importanti del marxismo stesso, a partire da quelle di classe, di soggetto storico, di contraddizione e di totalità; il pensiero dell’autore che abbiamo brevemente sorvolato tratta tutti questi temi in un’ottica per noi di assoluto interesse.
Il pensiero di Marcuse sta subendo una riscoperta a livello mondiale. La scoperta e la messa a valore del suo Nachlass, anche qui in Italia, ha portato ad una molteplicità di scoperte ed all’evidenziare la personalità complessa, le idee rivoluzionarie di un pensatore che già negli anni ’60 denotava la difficoltà del fondare la rivoluzione sul solo proletariato occidentale, identificava i movimenti di rottura nelle forze che andavano nascendo; ad esempio sarebbe fondamentale operare una ricognizione del Marcuse ecologico, del pensatore che vede nell’ecologismo uno (non il solo) movimento mondiale che si oppone in sé al capitalismo. Già per Marcuse nei tardi anni ’70, la richiesta di un rapporto diverso uomo-natura, che non la consideri il mero oggetto d’azione ma il luogo ove la dimensione sensibile dell’uomo si esplica completamente, è antitetica alla dimensione capitalistica.
Non si può più essere felici, non si può più esercitare un lavoro umano rimanendo legati al sistema
1Le distinzioni di Bobbio sono sempre tagliate con l’accetta. Si tratta qui di utilizzare questa sua divisione per comprendere meglio il pensiero di Marcuse, non per distinguere del tutto l’intero pensiero politico.
2Poche cose sarebbero più interessanti che costruire un parallelismo tra questa nozione di penuria in Marcuse e quella del Sartre della Critique de la raison dialectique, mostrare il perché delle differenze, mostrare le diverse impostazioni teoriche e le loro conseguenze.
3Si tratterebbe, appare chiaro, di approfondire il legame tra questa prospettiva e quella di Agnes Heller e la sua teoria dei bisogni radicali.
4Si pensi, per contrastare queste idee, al libro di Piketty Il Capitale nel XXI Secolo, dove è mostrata (qui solo come ipotesi utopica) la possibilità di benessere per ogni abitante del pianeta.
5Al riguardo, si veda il Capitolo X di Eros e Civiltà “ La trasformazione della sessualità in Eros”.
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