Il potere della paura. Intervista a Maria Laura Lanzillo
- 08 Agosto 2025

Il potere della paura. Intervista a Maria Laura Lanzillo

Scritto da Giulio Pignatti, Vanessa Riela

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In un contesto globale attraversato da crisi crescenti – sociali, ambientali, economiche – la paura ritorna con forza nello spazio pubblico e nelle riflessioni sul potere, sulla libertà e sulla percezione della sicurezza sociale. Ma come comprendere la paura al di là della sua immediatezza emotiva visto che oggi essa è divenuta un’arma di governo e di giustificazione per misure autoritarie? E soprattutto, quale ruolo essa gioca nella costituzione dell’autorità e dell’ordine politico?

Per esplorare il modo in cui il concetto di paura – da un punto di vista storico-politico – si è trasformato da istinto di autoconservazione a dispositivo politico capace di orientare decisioni e legittimare poteri abbiamo intervistato Maria Laura Lanzillo, Professoressa ordinaria di storia del pensiero politico all’Università di Bologna. 


Che cosa ha significato per lei svolgere una storia concettuale della categoria di paura e quali sono le implicazioni filosofico-politiche nel trattare un concetto che già Georges Lefebvre, ne La grande paura del 1789, descriveva come un sentimento primitivo e arcaico, sottolineando l’inevitabilità del suo ruolo nella storia?

Maria Laura Lanzillo: Gli antropologi hanno dimostrato come la paura sia sì un sentimento, una passione, ma allo stesso tempo anche un bisogno essenziale per la vita dell’uomo, come dormire, sfamarsi e avere rapporti sessuali. Sappiamo bene che le persone che non provano alcun tipo di paura in realtà sono soggette a qualche forma di patologia, perché si espongono totalmente ai rischi provenienti dall’ambiente esterno. Il mio approccio al concetto di paura, tuttavia, non è stato di tipo antropologico, psicologico, o ancora sociologico, ma filosofico-politico, nella maniera che ho imparato a praticare nel corso della mia formazione, in particolare nell’ambito del lungo lavoro di ricerca e di indagine sui concetti del lessico politico e giuridico europeo che svolge tutt’ora la rivista Filosofia politica edita da il Mulino. Il mio maestro, Carlo Galli, è uno dei direttori della rivista, fondata alla fine degli anni Ottanta da Nicola Matteucci. Filosofia politica nasce dall’idea, che ovviamente si è modificata con il trascorrere degli anni – anche le riviste cambiano col passare degli anni e secondo le trasformazioni sociali e politiche –, di indagare il lessico politico e giuridico della modernità, i suoi concetti principali, sia per confrontarli alla prova dei testi, sia per saggiarne le trasformazioni ma anche l’efficacia politico-istituzionale, costituzionale, materiale, nel corso della storia. Tornando alla paura, è un concetto essenziale per la costruzione di tutto l’ampio apparato politico-istituzionale della modernità che ha come suo prodotto principale, anche se certamente non l’unico, lo Stato sovrano e il soggetto che lo abita. Se è vero che, secondo la scuola a cui appartengo, il testo fondativo della modernità è il Leviatano di Thomas Hobbes, è proprio nel Leviatano che Hobbes riconosce la paura della morte come spinta per l’uomo a uscire dallo stato di natura, a cedere il suo diritto di natura, cioè il suo potere, la sua libertà, per costituire la sovranità a cui obbedisce in cambio della sicurezza. La paura della morte fa parte dell’istinto umano – notoriamente l’uomo, come dirà Friedrich Nietzsche, è l’animale che sa di dover morire, l’unico animale che è consapevole che la sua vita corre verso una fine inevitabile. Ma, in particolare, la paura politica di cui parla Hobbes è la paura della morte violenta, cioè della morte prima della fine naturale della vita. Il lavoro che ho svolto sulla paura prende le mosse da un progetto di ricerca costruito nel 2006-2008 insieme a un gruppo di giovani ricercatori e ricercatrici dell’Università di Bologna. Quando abbiamo iniziato a riflettere su questa categoria, la paura era tornata potentemente sulla scena occidentale, in particolare dopo l’11 settembre 2001. Si trattava di una paura fortemente politica, come dimostrano anche gli attentati terroristici che vi furono poi in Europa. Si aggiunga a ciò la prima gravissima crisi economica, quella del 2008, che arrivò a scuotere dalle fondamenta l’assetto politico. Insomma, il primo decennio del nuovo millennio è stato un periodo in cui la paura tornava sulla scena e appariva come una sorta di “novità”, in particolare perché la caduta del Muro di Berlino era sembrata – sebbene per un brevissimo periodo e non certo agli occhi di tutti – in un primo momento aver segnato quella “fine della storia” che sanciva che la democrazia e il capitalismo avevano vinto e il nostro orizzonte sarebbe stato inevitabilmente segnato da benessere, democrazia, felicità e libertà. I nemici erano finiti – sosteneva questo racconto ideologico – e così la paura. Il risveglio, invece, è stato drammatico e brusco. Mettemmo quindi in piedi questo progetto di ricerca anche per capire se la paura che era tornata al centro del discorso politico fosse la stessa di cui aveva parlato Thomas Hobbes, che nella sua Autobiografia scrive di essere nato gemello alla paura, il che racconta il clima di paura in cui Hobbes era vissuto e che struttura fortemente il suo pensiero. La nostra domanda di ricerca era se questa paura ritornata fosse la stessa paura o se si trattasse piuttosto di un’altra forma di paura, e se, in questo secondo caso, ciò significasse che stavamo fuoriuscendo definitivamente dalla modernità politica e che quindi erano necessarie nuove categorie per interpretarla. In altri termini, ci chiedevamo se i concetti fondanti la modernità politica potessero ancora servire per comprendere il nostro presente. Da allora la situazione quanto alla paura è, se possibile, peggiorata. Di volta in volta abbiamo affrontato nuove paure: la paura della catastrofe climatica, la paura terribile della pandemia, che ha avvolto tutto il mondo. Poi è ritornata la paura della guerra in Europa e ora di nuovo emerge quella che a lungo, durante la Guerra Fredda, era stata la più grossa paura, cioè quella del nucleare, la paura dell’utilizzo di quell’arma che, a differenza di ogni arma conosciuta nella storia dell’umanità, non distrugge solo il nemico, bensì l’umanità intera. Sappiamo infatti che una guerra nucleare è l’ultima per definizione.

 

Qual è allora la differenza tra la paura di cui parla Thomas Hobbes, che giustifica la costruzione dell’ordine politico moderno, e la paura come sentimento politico dilagante all’epoca contemporanea?

Maria Laura Lanzillo: Il punto decisivo è che, mentre la ricostruzione storico-concettuale che abbiamo condotto sulla paura la mostrava, nella modernità politica, come produttiva di ordine politico – è la paura della morte che fa prendere la decisione a favore del contratto sociale –, oggi invece sembra che la paura produca solo nuovo disordine. L’ordine politico della modernità è costruito per governare la paura, cioè per liberare l’individuo dalla paura. Invece oggi pare che sia la paura a governare le decisioni politiche, che sia la paura a sfigurare l’ordine politico, ad essere iniettata nei cittadini e costantemente agitata. A questa paura non vengono offerte soluzioni produttive, soluzioni d’ordine – per lo meno per quanto riguarda il discorso mainstream della politica. Insomma, la paura, da qualcosa che doveva essere governato, da cui bisognava liberarsi – in fondo la politica aveva promesso questo –, si trasforma in realtà essa stessa in agente di governo. È proprio a causa dell’iniezione costante di paure, spesso irrazionali, che vengono offerte risposte che contraddicono le richieste di libertà, uguaglianza ed emancipazione che hanno costituito la modernità politica: in nome della paura si offrono risposte autoritarie, securitarie. Bisogna rendersi anche conto che spesso e volentieri molti dei cittadini – in particolare quelli della parte più benestante del mondo che è l’Occidente –, totalmente impauriti dalla “minaccia” di perdere la propria rendita di posizione, sono disponibili a cedere fette sempre più ampie di libertà. È sotto gli occhi di tutti la svolta autoritaria che stanno attraversando le democrazie occidentali. Si pensi ai discorsi e agli atti esecutivi del presidente degli Stati Uniti, in cui ritorna potentemente l’uso della violenza – certo, lo sappiamo benissimo che lo Stato ha sempre usato la violenza, però avevamo inventato un sistema giuridico quale sistema di contenimento della violenza. E invece ora assistiamo al rischio di un ritorno alla legge del taglione o a quella del più forte – e l’orrore di ciò che succede a Gaza, nei bombardamenti in Ucraina o nelle deportazioni di migranti caricati in catene sugli aerei o rinchiusi nelle gabbie ci dice che non siamo più nemmeno di fronte a un rischio, ma a una tragica realtà. Tutta la produttività politica della paura moderna era invece di segno esattamente opposto. Ecco, fare storia dei concetti politici moderni è utile per comprendere meglio il proprio presente: si tratta di una sorta di cartina di tornasole che ci permette di comprendere quanto siamo ancora dentro un determinato ordine del discorso, quanto ne siamo fuori. Le parole del discorso politico significano in modo diverso a seconda del periodo e del contesto in cui vengono utilizzate: l’esempio più semplice e lampante è il concetto di democrazia, parola vecchissima ma che nel corso dei secoli ha assunto significati completamente diversi fra di loro. Ritengo allora fondamentale lavorare sull’importanza della contestualizzazione dei concetti all’interno dei testi filosofico-politici e dei periodi storici, se vogliamo che il lessico politico, le parole che significano il nostro stare insieme, non si riduca a chiacchiericcio da social network.

 

Lei ha fatto riferimento, quanto ai più recenti eventi storici che hanno determinato una trasformazione concettuale della paura e del nesso tra paura e sicurezza, alla caduta del Muro di Berlino, alla recessione del 2007-2008 e al Covid-19. In particolare, la pandemia ha messo in evidenza come la paura sia sempre paura dell’altro: quella che vivevamo allora era un’ansia nell’incontro con l’altro, come dimostrano distanziamento sociale, mascherine e lockdown… 

Maria Laura Lanzillo: La paura moderna costruisce il legame sociale: la moltitudine dispersa dello stato di natura nella scena hobbesiana si ritrova unita in un corpo politico, quello del sovrano, che rappresenta e così unifica tutti gli individui. Ma si pensi anche alla scena hegeliana della lotta per il riconoscimento, dove la paura, la paura della morte, gioca un ruolo fondamentale perché la coscienza servile si assoggetti alla coscienza signorile. Tuttavia, si tratta sempre di una relazione: la coscienza servile prova paura in relazione alla coscienza signorile. Ed è infatti da lì che per Hegel sorge la società. Invece, la paura durante la pandemia è stata utilizzata, raccontata e provocata come “distanziamento sociale”, e quindi come rottura del legame sociale, come ripiegamento su di sé del soggetto. Le parole qui sono significative: se il distanziamento fisico era necessario per impedire la diffusione del virus fintanto che non avevamo altri strumenti per affrontarlo, non lo era il “distanziamento sociale”. La società è anche legame simbolico, culturale, che non ha per forza necessità di una vicinanza fisica. Eppure, si è deciso di parlare di “distanziamento sociale” – e questo è sintomatico di un problema nel legame sociale. Lo scontro con l’alterità, con tutto quello che sembra diverso, è sicuramente una delle grandi aporie della modernità, che la modernità ha cercato di governare attraverso strategie di inclusione. Oggi invece mi sembra che ci troviamo in un mondo che adotta sempre e solo strategie di esclusione e di contrapposizione. Già con l’11 settembre era cominciata questa strategia di opposizione: noi contro loro. E anche durante la pandemia il discorso pubblico era caratterizzato da un “io contro tutti gli altri”. Tutte le volte che ci rifletto, continuo a essere colpita da come le società democratiche occidentali abbiano accettato praticamente senza nessuna protesta di essere rinchiuse e comandate in modo perentorio durante la pandemia. E ciò è avvenuto appunto agitando la paura della morte e ha funzionato benissimo come forma di governo. Ora con la fine delle restrizioni ci siamo liberati di alcune delle strategie di controllo, ma se guardiamo come si stanno trasformando i consensi che eleggono i governi occidentali mi pare che il bisogno di affidarsi a un potere che protegge, anche in modo autoritario, sia rimasto. L’altra cosa che mi colpisce molto, e che dice molto della crisi della democrazia, è che davanti agli odierni sfoggi di autoritarismo, che spesso rasentano la mitomania, le proteste sociali sono poche e blande, per non dire inesistenti. La nostra sembra una società rassegnata. Il panico, la paura, la richiesta di sicurezza a qualcuno che viene considerato capace perché forte e violento, non perché competente o capace di mettere in campo un’idea di società all’altezza dei tempi: ecco quello che mi sembra tenere legati questi avvenimenti molto differenti fra loro e che però continuano costantemente a devastare il legame sociale, il nostro condividere uno stesso progetto di società e uno spazio politico comune.

 

Possiamo sintetizzare questo discorso con il concetto di servitù volontaria, come lei stessa ha fatto nei suoi lavori. È un quesito che anche la Scuola di Francoforte si è posta, quello di un rapporto paradossale tra il desiderio di “originaria” libertà e poi una spinta verso forme di asservimento che oggi diremmo antidemocratiche. Si pensi ad esempio a Donald Trump, che è stato deliberatamente scelto dai cittadini per un secondo mandato presidenziale nonostante la trasparenza delle sue visioni politiche e sociali spesso antidemocratiche. Qual è dunque il rapporto tra la democrazia moderna e questa spinta verso la servitù volontaria? 

Maria Laura Lanzillo: Il nostro tempo sembra aver distrutto completamente qualsiasi rapporto col passato – e non parliamo dei rapporti con il futuro –; sembra quindi rinchiuso in un presentismo assoluto. Neanche il presente è più un tempo, perché appare come una serie di punti che si succedono senza alcun legame. Invece penso che, proprio in questi tempi così tragici e complicati, sia importante riuscire ad alzare un po’ lo sguardo dall’oggi, utilizzare la prospettiva storico-concettuale e andare a ritrovare alcuni dei concetti che il nostro orizzonte di pensiero politico ha messo in campo. Il che non vuol dire che ci troviamo nella stessa condizione di quando è stato coniato il lemma “servitù volontaria” – era il XVI secolo. Però questo concetto ci racconta qualcosa che può essere utile per comprendere perché, soprattutto in gravi tempi di crisi, si assiste a una fascinazione per l’obbedienza, per la servitù, per un assoggettamento che non viene imposto con la forza, ma a cui ci si piega spontaneamente. Forse ciò accade per quieto vivere, per la ricerca di tranquillità in un mondo che cambia e in cui non ci si riconosce più: lì si presenta quello che Étienne de La Boétie chiamava il tiranno, cioè l’uno, la figura del potere che sembra rassicurare. È proprio la minaccia avanzata dall’uno, quella di usare la violenza senza neanche doverla impiegare, che produce l’assoggettamento e anche la fascinazione. Certo, c’è una fascinazione che la filosofia politica conosce da molto tempo, una fascinazione per il potere, per l’unità, per chi esercita questo potere. Ma la democrazia aveva raccontato anche un’altra storia: e invece mi sembra che oggi quella storia non sia più così affascinante e non provochi più quelle passioni calde di legame fra gli individui che è stata capace di produrre per un tempo in realtà molto breve, se pensiamo a quanto è recente la storia delle democrazie costituzionali. C’è una forte richiesta di protezione a livello sociale, evidentemente.

 

C’è evidentemente anche una dichiarazione di impotenza nel delegare la propria vita ad una persona che manifesta a tutti gli effetti violenza ma allo stesso tempo anche potenza. A caratterizzare il nostro presente è anche una smobilitazione, un annichilimento della parte conflittuale che è costitutiva della democrazia. Come diceva anche lei, colpisce la mancanza di proteste, di mobilitazione sociale… 

Maria Laura Lanzillo: La democrazia è un sistema critico; si fonda sulla capacità critica dei cittadini e sulla cooperazione nel rapporto conflittuale – ma in un senso produttivo – fra governanti e governati. Oggi invece questo lato conflittuale, critico, viene visto come qualcosa di distruttivo, che perciò va sedato in tutti i modi. Negli Stati Uniti si arriva fino a vietare la libera manifestazione dell’espressione in luoghi come le università, che producono per statuto il sapere critico – cos’altro è un’università, altrimenti? Ciò è indice da una parte della paura che il potere ha del dissenso e, dall’altra parte, di un’accettazione quieta, di una sorta di stanchezza dei cittadini, che preferiscono una vita tranquilla. Si tratta di patologie della democrazia che però, di nuovo, se studiamo la modernità politica già erano state individuate. Ad esempio, nella grandissima analisi della democrazia svolta da Alexis de Tocqueville lungo tutta la sua vita, egli scrive che i cittadini si stancano presto di essere democratici, non appena trovano un padrone tra le cui braccia gettarsi – Tocqueville legge così la vicenda della Rivoluzione Francese che finisce nelle braccia di Napoleone, ma anche quello che individua come il rischio della tirannia della maggioranza o del dispotismo paterno. O ancora, si pensi alla leggenda del Grande Inquisitore dei Fratelli Karamazov, che rimprovera a Cristo di essere venuto a portare la libertà quando gli individui vogliono la calma e la tranquillità. La libertà è faticosa perché libertà politica significa azione politica, vuol dire partecipare, staccarsi dal proprio sé, dal proprio privato. È certamente molto faticoso. Però l’alternativa è la servitù, su questo non ci sono dubbi. Questa patologia che è sempre presente in modo carsico – e la modernità l’aveva compreso – oggi sembra riemergere fortemente, non a caso in un periodo di crisi politica. Quello di Étienne de La Boétie, a cui accennavamo prima, è solo apparentemente un libro sulla servitù volontaria, ma più profondamente è un’opera sulla libertà. Infatti, la scena che chiude il libro è la scena di un’amicizia politica, cioè di individui che resistono alla fascinazione dell’uno tirannico perché sono compagni, perché non perdono la pluralità e non si assoggettano a questo uno fantasmatico; in termini contemporanei, riattivano il legame sociale, quel legame che tiene uniti mantenendo la pluralità. Un gruppo di amici non è un gruppo di tutti uguali – nessuno di noi pensa agli amici come uguali. Ma è un gruppo che condivide, magari anche in modo conflittuale, un’idea di spazio comune, un’idea di libertà sulla base della quale stare insieme e non per paura o per obbedienza.

 

In questo quadro apparentemente nichilistico, che ruolo può giocare il concetto di utopia, su cui lei ha ugualmente lavorato?

Maria Laura Lanzillo: Il Novecento è il secolo della crisi dell’utopia; è il secolo della distopia. Oggi siamo ai massimi livelli della distopia, e non è un caso se le principali serie televisive di grande successo sono tutte serie distopiche: raccontano mondi distopici che oltretutto non sono mondi lontanissimi dal nostro. Le distopie riguardano il presente, mettono in guardia circa possibili esiti di tendenze che già attraversano il presente. Oggi, infatti, la distopia sembra una realtà, tanto che facciamo ormai fatica a distinguere la realtà dallo spettacolo. Lo stesso Trump ha commentato la fine dell’incontro inquietante e terrificante avuto con Zelensky alla Casa Bianca alla fine di febbraio dicendo di aver fatto una grande ora di televisione – non di politica o di diplomazia. Quella però era una realtà con effetti durissimi sulla vita di milioni di persone, quindi altro che televisione. Nella seconda metà del Novecento e ancora oggi si è ricominciato a leggere l’utopia non come ce l’aveva raccontata classicamente Tommaso Moro, cioè come critica del mondo reale e fuga di sogno in un mondo ideale – che in verità è lo specchio di quello che potrebbe andar bene e che quindi racconta ciò che va male nella realtà –, ma come possibilità di interruzione di questo tempo che sembra non scorrere, come riapertura di spazi di azione, come rottura di un tempo che sembra segnato inevitabilmente da un destino nichilistico. Quindi in qualche modo la riattivazione del discorso utopico consiste nel mostrare che il tempo non è chiuso, che il tempo può essere interrotto, che ci sono sempre altre possibilità in gioco. In tal senso, è molto interessante che queste nuove forme di discorso utopico si siano prodotte soprattutto nell’ambito di romanzi femministi. In quello sguardo, quindi, che guarda la realtà da un altro punto di vista. Mi piace sempre citare in questo caso un film tratto da un racconto distopico di Philip K. Dick, Minority Report, dove il rapporto di minoranza viene assegnato ad Agatha, allo sguardo femminile, che è lo sguardo che ti fa vedere la stessa realtà da un altro punto di vista e che quindi apre un’altra possibilità di azione. Riattivare l’utopia significa appunto ricordarci che possiamo guardare il presente da un altro punto di vista; non si tratta più di fuggire da un’altra parte. L’utopia prima è stata fuga in un altro spazio, l’isola di Utopia; poi è diventata ucronia, fuga in un altro tempo; infine, oggi che il futuro sembra chiuso all’immaginazione, utopia è guardare il presente da un altro punto di vista.

 

A tal proposito, quali possono essere gli spazi e le pratiche, sia intellettuali che politiche, che permettano di ripensare l’aprirsi al futuro? Vediamo la ricerca prostrarsi sempre più a rispondere ad un’utilità di mercato, in un’ottica di presentismo assoluto: quali sono oggi le possibilità di costruire degli spazi che possono ripensare anche il ruolo della ricerca e dello studio come critica e costruzione utopica del futuro? 

Maria Laura Lanzillo: Sappiamo che la ricerca dipende anche dai finanziamenti; su questo le retoriche neoliberali impazzano. Anche se il neoliberalismo ha clamorosamente fallito, i suoi discorsi ideologici sono ancora potentemente all’opera – pensiamo alla terribile retorica del merito. Il discorso pubblico sostiene che le discipline umanistiche non valgono nulla – nel senso proprio del valore –, perché la filosofia non fa andare su Marte o non costruisce la nuova bomba. Ciò che non produce immediatamente ricchezza non serve a niente. Io penso che in questo momento ci sia la necessità di una forte pratica di resistenza a queste retoriche; bisogna continuare a portare avanti il discorso contrario, come avviene con tanta fatica nelle riviste di dibattito pubblico come Pandora Rivista. Credo che oggi avremmo bisogno molto più di educazione e di formazione al sapere critico, piuttosto che di specializzazione; è il sapere critico che può orientare nel disordine e nel disastro globale. Dall’altra parte, però, si può iniziare a notare – benché ancora in modo molto puntiforme, non certo diffuso nel discorso pubblico mainstream – una nuova attenzione, nell’ambito del mondo del lavoro, per figure che sanno usare il sapere critico, meno specializzate ma più aperte. Sono piccoli spazi, ma ad esempio nell’ambito degli studi medici o dell’intelligenza artificiale ci si inizia a rendere conto che non basta la competenza specialistica, tecnica, ma è necessaria anche una riflessione umanistica, e dunque critica, poiché si tratta di campi che impattano sulla vita umana in maniera complessiva. Voglio preservare il mio ottimismo di fondo: penso che il continuare in direzione ostinata e contraria, anche quando tutto sembra portare verso un’altra direzione, può avere ancora il suo impatto sia sulla formazione e lo sviluppo del sapere sia a livello politico. Sono ancora solo forme di resistenza, che però possono cominciare a far circolare parole, riflessioni, punti di vista, altri sguardi.

Scritto da
Giulio Pignatti

Dottorando di ricerca in Filosofia politica all’Università di Padova, dove si è laureato, e all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi. Collabora con una testata giornalistica locale ed è stato alunno del corso 2023 della Scuola di Politiche. I suoi interessi di ricerca riguardano la storia dei concetti politici moderni e la tradizione sociologica francese. È autore di “L’opinione dei moderni. Scienza sociale, critica e politica in Durkheim” edito nel 2024 nella collana “Critica Sociologica” di Castelvecchi Editore.

Scritto da
Vanessa Riela

Dottoranda in Storia della Filosofia all’Università degli Studi di Bari Aldo Moro: il suo progetto riflette sulla categoria di vulnerabilità e sulle sue accezioni teoriche a partire dal pensiero della filosofa Judith Butler. Nel 2024 ha partecipato al corso di formazione “Traiettorie. Scuola di lettura del presente”.

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