Il rapporto intergenerazionale tra coesione e disgregazione. Intervista a Alessandro Rosina
- 23 Giugno 2024

Il rapporto intergenerazionale tra coesione e disgregazione. Intervista a Alessandro Rosina

Scritto da Francesco Manfrida

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Secondo il rapporto Esserci – Più Giovani più futuro, realizzato dalla Fondazione per la Natalità in collaborazione con l’ISTAT, in Italia nel 1951 ogni 100 giovani erano presenti 31 anziani; ad oggi, in proporzione, gli anziani sono raddoppiati e si prevede che nel 2050 ogni 100 giovani si conteranno 300 anziani. Il nostro Paese sta dunque affrontando un vero e proprio “inverno demografico”. Le nuove generazioni sono sempre meno numerose e più sfiduciate sul futuro, complici i numerosi fattori di instabilità che subiscono – crisi climatica, conflitti, insostenibilità del sistema pensionistico e del debito pubblico – e di cui attribuiscono la responsabilità alle generazioni precedenti. Per provare ad analizzare il problema del gap generazionale, sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo, abbiamo intervistato Alessandro Rosina, Professore ordinario di Demografia e Statistica sociale all’Università Cattolica di Milano e coordinatore della realizzazione della principale indagine italiana sulle nuove generazioni (Rapporto giovani dell’Istituto Giuseppe Toniolo).


Partirei dal problema della crisi demografica, cui lei ha dedicato moltissimi scritti. Quali sono le cause dell’inverno demografico che il nostro Paese sta attraversando? E qual è stata l’evoluzione storica della demografia italiana?

Alessandro Rosina: Per rispondere a questa domanda è necessaria una premessa: il rinnovo generazionale è un meccanismo fondamentale non solo in senso quantitativo, per il perpetuarsi della società, ma anche in senso qualitativo, per il suo miglioramento. Nell’evoluzione dell’umanità, il progresso si realizza grazie alle nuove generazioni che, con il proprio approccio innovativo, scardinano i limiti auto-imposti dalle generazioni precedenti, le quali tipicamente hanno un modus operandi improntato al “fare come si è sempre fatto”. Sperimentando soluzioni alternative a quelle tradizionali, i giovani sono spesso riusciti, nella storia, a realizzare un futuro migliore di quello considerato possibile e financo desiderato. Un esempio su tutti: lo sbarco dell’uomo sulla Luna del 1969. Nelle società del passato, situazione ancora tipica al momento dell’Unità d’Italia, il rinnovo generazionale era garantito dall’elevata natalità, cui faceva però da contraltare l’alto tasso di mortalità in età prematura. Lo sviluppo sociale ed economico del Paese ha portato via via alla diminuzione della mortalità infantile, cui è corrisposta una contrazione progressiva della fecondità, seguita all’aumento della probabilità che i figli raggiungessero l’età adulta. Negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, in corrispondenza del boom economico e del conseguente aumento del benessere della società, si è verificato anche un boom demografico, con un’impennata delle nascite. Dopo questa fase, a partire in particolare dalla metà degli anni Settanta, la natalità ha iniziato a decrescere, soprattutto per via del mutamento della condizione giovanile e femminile. Come si trova descritto in modo approfondito nel mio libro Storia demografica d’Italia (Carocci 2022) uno dei principali motivi è il fatto che i giovani e le donne si scontrano con un contesto diventato meno favorevole, non aiutato da politiche efficaci in uno scenario economico e sociale in mutamento, per coniugare i propri obiettivi di vita con quelli professionali. A metà degli anni Novanta, per via della perdurante crisi delle nascite, il nostro Paese è divenuto il primo al mondo in cui gli ultrasessantacinquenni hanno superato, per numero, gli under 15. Ad oggi la situazione, complice da ultima la crisi da Covid-19, che ha avuto un forte impatto negativo sulle nascite, risulta critica, anche per via del meccanismo con cui la denatalità si autoalimenta: un minor numero di nascite implica che in futuro ci saranno meno potenziali genitori e ciò si traduce in ancor minore natalità futura. In teoria, il tasso di fecondità di equilibrio, ossia il numero di figli per donna tale per cui la popolazione non cresce né diminuisce, è oggi pari a 2; nell’Unione Europea, la media è di 1,5 figli per donna. La Francia, che ha investito molto in servizi per incentivare la natalità, è il Paese europeo più virtuoso da un punto di vista demografico, con 1,8 figli per donna (comunque più basso rispetto alla soglia di 2). In Italia, secondo i dati dell’ultima rilevazione ISTAT riferiti al 2023, il tasso di fecondità è di 1,2 figli per donna. Se non invertiremo in fretta questo trend, si stima che saremo tra i primi Paesi al mondo in cui gli over 50 saranno la maggior parte della popolazione.

 

Come è cambiato nel tempo il concetto stesso di “giovane”? E come si lega oggi con quello di “generazione”?

Alessandro Rosina: Le fasi fondamentali della vita di un individuo possono essere scandite dal livello di autonomia e di responsabilità dello stesso. Durante l’infanzia, sono i genitori o chi ne fa le veci a decidere per i bambini, che non sono in grado di provvedere a sé stessi; l’età adulta è, al contrario, caratterizzata da piena autonomia nelle decisioni e responsabilità per le conseguenze delle stesse. La gioventù è una fase intermedia, di transizione tra l’infanzia e la vita adulta. In passato, questa fase aveva durata molto breve, in quanto la responsabilizzazione dei giovani, attraverso le tappe tipiche dell’età adulta – uscire dalla casa dei propri genitori, trovare lavoro, sostenere i costi di un’abitazione, eventualmente avviare una propria attività, costruire la propria famiglia – avveniva più rapidamente. Ad oggi, la transizione verso l’età adulta risulta essere molto più lenta, poiché i giovani, più cauti e incerti sul futuro rispetto alle generazioni precedenti a fronte di una realtà più complessa e frammentata, tendono a rimandare le scelte tipiche del passaggio all’età adulta. Ciò ha implicato la dilatazione progressiva dell’idea stessa di giovane, per cui se è vero che ve ne sono sempre meno, questi rimangono tali molto più a lungo. Non solo in senso diacronico, ossia rispetto al passato, il concetto di gioventù assume un’estensione diversa, ma anche in senso geografico: oggi, in Italia, le persone di età compresa tra i 25 e 34 anni sono comunemente considerate giovani adulti, mentre negli altri Paesi europei, soprattutto quelli scandinavi, dove le scelte responsabilizzanti propedeutiche all’ingresso nell’età adulta avvengono prima, gli individui in questa fascia di età rientrano a tutti gli effetti tra gli adulti.

 

Rispetto ai giovani del passato, lei ha scritto che quelli del nuovo millennio, Generazione Z in primis, si sono trovati ad affrontare una serie di crisi complesse e ravvicinate – la crisi internazionale dovuta all’attacco alle Torri Gemelle nel 2001, la Grande Recessione del 2008-2013, lo scricchiolio dell’Unione Europea con la Brexit del 2016-2020, l’emergenza sanitaria da Covid-19 e da ultimi i conflitti internazionali in Ucraina e in Palestina che ne hanno minato le certezze. Quanto il clima di sfiducia rispetto al futuro incide sulla natalità e quindi sulla capacità della società stessa di rigenerarsi?

Alessandro Rosina: Rispetto alle generazioni precedenti, i giovani d’oggi vivono in un mondo molto più complesso, non solo a causa della rapidissima innovazione tecnologica degli ultimi decenni, che ha cambiato il modo di vivere e le prospettive future, ma anche per via di queste crisi, tutte imprevedibili. Ciò che ne consegue è che, pur avendo gli appartenenti alla Generazione Z molte più possibilità rispetto a quelle che avevano i giovani delle generazioni precedenti, maggiore è anche l’incertezza sulle implicazioni delle proprie scelte. Se non si forniscono ai giovani d’oggi gli strumenti per orientarsi in questo mondo che cambia in modo rapido e difficilmente prevedibile, è alta la possibilità che questi si perdano. Se la complessità del presente, invece che essere compresa con strumenti adeguati e colta come opportunità, si traduce in insicurezza e sfiducia sul futuro, la conseguenza è che i giovani si pongono sulla difensiva, rimandando progressivamente, fino a evitarle, le scelte più impegnative come quella di mettere al mondo dei figli.

 

Quali sono le conseguenze, sul piano dello sviluppo economico e del mercato del lavoro, di una demografia che vede un così netto assottigliarsi della componente giovanile? Si registrano difficoltà specifiche che riguardano l’integrazione delle nuove generazioni nel mercato del lavoro?

Alessandro Rosina: L’invecchiamento della popolazione, sia in senso assoluto – ossia l’aumento degli anziani, dovuto alla maggiore aspettativa di vita – sia come conseguenza del “degiovanimento” – ossia della diminuzione delle nuove generazioni, dovuta alla denatalità, che accentua in senso relativo il peso degli anziani – è un fenomeno che genera gravi squilibri nella struttura della popolazione, tali da minare le prospettive di sviluppo economico e sociale del nostro Paese. Questo invecchiamento, in senso quantitativo, fa sì che il rapporto tra anziani e popolazione attiva aumenti progressivamente; di conseguenza, sempre meno sono le persone che riescono a produrre ricchezza rispetto a quelle che la assorbono – attraverso la spesa previdenziale e sanitaria – e ciò pone seri problemi sulla tenuta del sistema pensionistico e sulla sostenibilità del debito pubblico in generale. Inoltre, la riduzione del numero di giovani, che fino al recente passato erano una risorsa abbondante nella nostra economia, sta riducendo l’offerta di lavoro, causando per le imprese difficoltà a trovare i lavoratori qualificati di cui hanno bisogno. Alla riduzione quantitativa dei giovani si accompagna anche l’incapacità dei datori di lavoro di impiegare questa risorsa umana, divenuta scarsa, in modo efficiente. Tale problema deriva da un diverso approccio culturale al lavoro: i giovani lavoratori di oggi hanno priorità del tutto diverse da quelle delle generazioni precedenti. Le nuove generazioni puntano ad un ambiente lavorativo stimolante, che li riconosca e li valorizzi per la loro specificità, ma che al tempo stesso abbia cura del loro benessere personale. Quello che i giovani cercano non è semplicemente un posto di lavoro, ma la realizzazione dei propri progetti di vita. Le generazioni più mature hanno spesso un’idea più tradizionale del lavoro, basata sulle classiche leve della retribuzione e della possibilità di carriera. Se i datori di lavoro non riusciranno a comprendere il sistema di valori delle nuove generazioni, piuttosto che limitarsi a giudicarlo negativamente, c’è il rischio che la carenza di lavoratori qualificati, già causata dalla progressiva riduzione numerica dei giovani, si accentui per via dell’incapacità delle organizzazioni di attrarre e trattenere i pochi che ci sono. La conseguenza, da un punto di vista più generale, è quella di una minore innovazione aziendale e di minore competitività. Sono infatti le nuove generazioni ad avere le capacità e le competenze nuove in grado di alimentare lo sviluppo e l’innovazione di cui la società e l’economia hanno bisogno per progredire. I fenomeni emblematici dell’impiego inefficiente dei giovani nel mondo del lavoro sono l’emigrazione dei giovani italiani qualificati all’estero, in cerca di migliori opportunità di vita, e quello dei NEET – giovani tra i 15 e i 34 anni che non studiano, non sono in formazione e non lavorano – di cui il nostro Paese registra uno dei più alti numeri in Europa.

 

Nonostante siano sempre meno, i giovani vogliono contare di più. Quali sono i temi che stanno più a cuore ai giovani d’oggi e sui quali emerge maggiormente il conflitto con le generazioni passate? E quali i principali punti di coesione tra le diverse generazioni?

Alessandro Rosina: I temi di maggior interesse per i giovani sono quelli della crisi climatica, dei diritti civili e delle disuguaglianze. Sono tematiche sulle quali le nuove generazioni si trovano spesso in contrasto con quelle più mature, o poiché considerano queste ultime responsabili, con le loro scelte passate e attuali, di aver compromesso il loro futuro – è questo il caso della crisi climatica e del debito pubblico – o poiché non si sentono totalmente rappresentate dal sistema di valori tradizionali imposto dalle vecchie generazioni, che vorrebbero cambiare – è questo il caso dei diritti civili. In realtà, questi aspetti, rispetto ai quali emerge con più evidenza il conflitto intergenerazionale, sono gli stessi su cui possono nascere anche dei punti di contatto. La possibilità di ritrovare una coesione tra le diverse generazioni dipende da come questi temi vengono affrontati e gestiti dalla classe dirigente. I giovani vorrebbero avere maggiore voce in capitolo sulla gestione delle problematiche che li riguardano e che, per ragioni anagrafiche, impattano su di loro in maniera più significativa e duratura che sulle generazioni precedenti. Se le generazioni più mature si dimostreranno capaci di ascoltare i giovani e dar loro spazio, condividendone le preoccupazioni e cercando di farvi fronte in chiave solidaristica, ossia facendo propri i problemi che riguarderanno soprattutto le generazioni più giovani e quelle future, allora questi stessi problemi possono diventare occasione per rinsaldare il rapporto tra le diverse generazioni.

 

Il peso calante delle nuove generazioni in termini quantitativi ha un impatto sulla loro importanza all’interno del processo politico? Quali strategie potrebbero adottare i giovani per contrastare queste tendenze alla marginalizzazione politica?

Alessandro Rosina: La perdurante crisi della natalità che colpisce l’Italia da diversi decenni ha fatto sì che oggi il nostro Paese sia, in Europa, quello con il maggior squilibrio tra anziani e giovani sul corpo elettorale. È quindi vero che, essendo meno numerosi, i giovani hanno, da un punto di vista quantitativo, un minor peso politico-elettorale. Per contrastare tale fenomeno, è necessario che le nuove generazioni facciano sentire la propria voce per accrescere la consapevolezza dell’intera opinione pubblica sulle problematiche che li riguardano e sulle soluzioni che propongono. La gestione dei problemi in chiave individualistica – ad esempio, chiedendo aiuto economico alla propria famiglia d’origine oppure andando all’estero in cerca di migliori opportunità – può risolvere i problemi dei singoli, ma non quelli dei giovani nel complesso. Solo l’azione organizzata e collettiva può risultare effettivamente trasformativa e risolutiva, e dunque avere un impatto politico. Vi sono vari esempi, in tal senso, di efficace attivismo politico: si pensi ai Fridays for Future, per aumentare la consapevolezza della società sul cambiamento climatico e manifestare contro le politiche nazionali poco attente all’ambiente; o, più di recente, alle proteste nelle università sulla crisi nella Striscia di Gaza. Ad ogni modo, ritengo che l’esempio più calzante di come l’azione collettiva possa avere un risvolto politico sia quello della studentessa del Politecnico di Milano che, lo scorso anno, in segno di contestazione contro il caro affitti della città meneghina, ha piantato una tenda fuori dall’università. Da questa iniziativa individuale è nato un vero e proprio movimento collettivo studentesco, che ha portato le tende di protesta a moltiplicarsi. A seguito di questa azione collettiva, i media nazionali si sono interessati alla questione del costo degli affitti ed è intervenuto anche il Comune di Milano, che ha organizzato dei tavoli di discussione per la soluzione del problema, cui hanno partecipato anche rappresentanti degli studenti stessi.

 

Quali sono le principali politiche che si stanno attuando o discutendo a livello europeo e nazionale? Quanto potrebbero dimostrarsi effettivamente incisive nel sanare il conflitto intergenerazionale? Quali politiche potrebbero essere ulteriormente implementate?

Alessandro Rosina: Il principale intervento a livello europeo è il Next Generation EU, il piano di finanziamento dell’Unione Europea finalizzato a riparare i danni economici e sociali causati dall’emergenza sanitaria del Covid-19, contribuendo così a gettare le basi per il miglioramento delle condizioni delle generazioni future. Si tratta di un’operazione dall’enorme portata economica e senza precedenti nell’Unione Europea, paragonabile solo al Piano Marshall del Secondo dopoguerra: così come in quel caso gli Stati Uniti avevano sovvenzionato i Paesi europei alleati per la realizzazione delle infrastrutture necessarie a costruire il futuro post-bellico, così i fondi del Next Generation UE dovrebbero garantire lo sviluppo delle infrastrutture sociali per i giovani d’oggi e del futuro, anche allo scopo di invertire la crisi demografica di cui abbiamo parlato. In Italia, l’allocazione concreta delle risorse del Next Generation EU è indicata nel PNRR, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, che definisce gli interventi specifici da realizzare. Tali politiche, sia per via dell’obiettivo che si pongono, sia per via dell’enorme portata dei fondi movimentati, potrebbero essere teoricamente efficaci nel garantire una ripartenza economica che favorisca l’innovazione sociale e la ripresa demografica. L’elemento discriminante, che determinerà se tale scommessa dell’Unione verrà vinta o meno, è il modo in cui le risorse verranno effettivamente utilizzate: se verranno investite per la realizzazione delle infrastrutture di cui il nostro Paese ha bisogno – tra cui servizi per l’infanzia e progetti per la transizione verde e digitale – allora vi sarà un miglioramento delle condizioni di lavoro giovanile e femminile, con ripercussioni positive in termini di natalità e coesione intergenerazionale. Se invece ci si focalizzerà su un mero ripristino delle infrastrutture pre-pandemiche, senza investire sulla “next generation”, si tratterà di un’occasione sprecata e saranno proprio le generazioni future, che dovranno in parte ripagare i debiti contratti con l’Unione Europea, a subire maggiormente il contraccolpo di questo grave fallimento. Oltre a tali interventi di politica economica, nel recente passato la nostra classe dirigente ha dimostrato un crescente interesse nei confronti dei giovani attraverso azioni di carattere più generale. Un importante segnale di apertura verso le nuove generazioni è stato lanciato nel 2021, con l’approvazione della legge costituzionale che ha abbassato l’età dell’elettorato attivo per il Senato: prima della riforma costituzionale, solo i cittadini che avessero compiuto il venticinquesimo anno di età potevano eleggere i propri rappresentanti al Senato; oggi, coloro che hanno compiuto 18 anni possono votare sia per la Camera dei Deputati che per il Senato. Un’ulteriore riforma, in senso maggiormente inclusivo dei giovani nella vita politica del Paese, potrebbe essere l’abbassamento dell’età minima per essere eletti in entrambi i rami del Parlamento a 18 anni (mentre in base alla Costituzione attualmente in vigore, l’età minima per poter essere eletti alla Camera dei Deputati e al Senato è, rispettivamente, di 25 e 40 anni). Anche abbassare l’età minima per votare alle elezioni amministrative a 16 anni potrebbe andare nella direzione di dare maggior peso alle nuove generazioni. D’altronde, i sedicenni possono già lavorare e pagare i tributi, per cui avrebbe senso consentir loro di contribuire a scegliere i propri rappresentanti nelle istituzioni, quantomeno in quelle locali. Si tratterebbe di una riforma priva di costi, che dimostrerebbe fiducia nei confronti dei giovani e li porterebbe a una maggiore responsabilizzazione e partecipazione alla politica attiva nel territorio.

 

In una società segnata dalle dinamiche che abbiamo descritto, vi è anche una crisi dell’idea di futuro: com’è possibile recuperare una visione positiva di quest’ultimo?

Alessandro Rosina: In passato, la società era molto più stabile, e dunque il futuro molto più prevedibile: il nipote, guardando il nonno, poteva avere una rappresentazione realistica di come sarebbe stato una volta giunto alla sua età; era abbastanza elevata la probabilità che una persona mantenesse lo stesso lavoro per tutta la vita. Il mondo attuale, in continuo mutamento – complici anche le frequenti crisi inattese come quelle di cui si è accennato – non permette più di avere una visione così nitida del futuro. I punti di riferimento trasmessi da una generazione alla successiva diventano velocemente obsoleti: ciò che funzionava ieri non è detto che funzioni oggi e tantomeno domani. Se è vero che dal continuo mutamento deriva incertezza, va anche sottolineato che la società attuale, avanzata e in costante avanzamento, è molto più ricca di opportunità rispetto a quella più stabile – ma più immobile – del passato. Il potenziale di cambiamento della società è molto maggiore per i giovani d’oggi, per i quali le opzioni sul futuro da costruire e costruirsi sono molto più ampie rispetto a quelle di un tempo. Per permettere alle nuove generazioni di recuperare una visione ottimistica e possibilista del futuro è necessario dar loro gli strumenti per decodificare la complessità del presente. Creare un contesto di fiducia verso i giovani, che consenta loro di sperimentare soluzioni innovative, e investire su una formazione sempre più avanzata e continuamente aggiornata, che li metta in condizione di capire il mondo che cambia e sentirsi in grado di contribuire al miglioramento dello stesso: queste sono le chiavi per recuperare l’idea di futuro e per fare in modo che, come detto all’inizio, il futuro effettivo possa essere persino migliore di quello che ad oggi desideriamo o riteniamo possibile.

Scritto da
Francesco Manfrida

Laureato in international management presso l’Università LUISS “Guido Carli” di Roma e la Nova SBE (School of Business and Economics) di Lisbona, è ora funzionario nella Pubblica Amministrazione. Tra i suoi interessi il diritto pubblico, l’attualità politica interna e internazionale e l’ambiente. Ha partecipato al corso 2023 “Traiettorie. Scuola di lettura del presente”.

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