“La conquista dell’infelicità” di Raffaele Alberto Ventura
- 30 Ottobre 2025

“La conquista dell’infelicità” di Raffaele Alberto Ventura

Recensione a: Raffaele Alberto Ventura, La conquista dell’infelicità. Come siamo diventati classe disagiata, Einaudi, Torino 2025, pp. 264, 18 euro (scheda libro)

Scritto da Alessandro Leonardi

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La “classe disagiata” al capolinea…

 

«Siamo cresciuti con la televisione che ci ha convinti che un giorno saremmo diventati miliardari, miti del cinema, rock star. Ma non è così» (Fight Club, 1999).

Una delle più famose citazioni del film di David Fincher continua ad insinuarsi come un rumore sordo nella testa di milioni di persone, mentre quotidianamente replicano in maniera meccanica i dogmi del vivere moderno. Dal decennio della “fine della Storia” (Cit. Francis Fukuyama) la pellicola è diventata un cult, un palese manifesto delle nevrosi della Modernità e una delle tante rappresentazioni del disagio esistenziale della classe media occidentale. Un tema che da tempo è al centro delle riflessioni del saggista Raffaele Alberto Ventura, che recentemente è tornato a parlare del declino della borghesia nella sua ultima opera pubblicata da Einaudi: La conquista dell’infelicità. Come siamo diventati classe disagiata.

Fin dal titolo siamo di fronte al ribaltamento di una delle più grandi promesse dell’Era contemporanea, ovvero la piena realizzazione di se stessi, delle proprie aspirazioni, con l’incessante perseguimento della “Felicità” individuale, che venne addirittura inserito incautamente nella Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America nel lontano 1776 Il risultato, dopo due secoli e mezzo, è la strisciante infelicità di milioni e milioni di persone; materialmente ricche, psicologicamente a pezzi ed esauste. Tanto che Ventura ribadisce lapidariamente nell’introduzione che «col senno di poi, la conquista della felicità avrà avuto un costo molto salato: la disperazione degli individui, la disintegrazione della società e la distruzione del pianeta terra» (p. 14). 

Ma l’affermazione, e soprattutto l’accettazione, di questa oscura realtà rimane ancora un colossale tabù per le nostre società, specialmente per i “chierici del Sistema”, stratificati su più livelli, che non possono permettersi di mettere in discussione tutta la loro esistenza, il modello che gli ha fornito i privilegi di classe e soprattutto l’illusione di servire il “migliore dei mondi possibili”. Troppe cose però stanno andando storte sul nostro pianeta, dalle continue crisi sistemiche (geopolitiche, sociali, ambientali, ecc.) al disagio che serpeggia nelle moltitudini, per continuare ad aggrapparsi acriticamente alle “magnifiche sorti e progressive” (Cit. Giacomo Leopardi) reiterando come semplici automi i mantra del passato. Per questi espliciti motivi il saggio di Ventura prova a descrivere la parabola della classe media moderna, quasi sicuramente giunta a fine ciclo, chiedendosi se non sia venuto il momento «di liquidare il suo modello di autorealizzazione, strutturalmente fondato sulla produzione di scarsità relativa, per approdare a un modello di sviluppo personale sostenibile, capace di contenere la rivalità mimetica per il riconoscimento» (p. 252).

 

Un cupio dissolvi piccolo borghese? 

Il libro si divide agevolmente in sette parti che vanno dall’analisi della “miseria dell’abbondanza” fino alla possibile salvezza individuale e, forse, collettiva, con frequenti richiami a libri, film e opere della nostra contemporaneità. Una prosecuzione del saggio Teoria della classe disagiata, pubblicato nel 2017, che prova a ragionare sulle contraddizioni insanabili del vivere moderno, specialmente dei soggetti che appartengono al terziario delle società tecnologicamente avanzate; la classe impiegatizia, la classe culturale-mediatica, le sub-élite che ambiscono a entrare nei circoli che contano. Insomma, i piccoli borghesi impegnati in un’estenuante gara per consacrare la propria posizione fra i pari, mentre il Sistema fa finta di fornire infinite possibilità davanti ai loro occhi. Un modus operandi che ha avuto un’ulteriore accelerazione con i social network e l’onnipresente villaggio digitale, dove la competizione per il “posto al sole”, per gli status symbol, per essere “riconosciuti” e soprattutto per realizzare le proprie aspirazioni ha raggiunto livelli insostenibili. Ma questa dinamica, come si evince nel libro, non nasce negli ultimi decenni. È un puro, purissimo prodotto dello slancio moderno degli ultimi secoli, che liberandosi delle vecchie società statiche, delle inefficienti gerarchie feudali e delle superstizioni del passato, ha creduto che con la Dea Ragione e il potere scientifico-industriale fosse possibile elevare definitivamente l’Homo Sapiens verso un nuovo mondo, più giusto, più ricco, più felice.

Ovviamente il processo di modernizzazione fin dalle origini aveva mostrato le sue notevoli “esternalità negative”, ma l’effettivo miglioramento delle condizioni materiali per milioni, e poi miliardi di persone, la creazione di opportunità un tempo impensabili e il dispiegamento della conoscenza alle masse, oltre che l’inevitabile potere coercitivo del Sistema stesso, hanno nascosto per lungo tempo i crescenti costi del Meccanismo moderno. L’espansione del grande ciclo produttivo, specialmente per i Paesi industrializzati dopo la Seconda guerra mondiale, ha generato quella estesa classe media che ha potuto godere di condizioni ormai irreplicabili. Non solo perché le dinamiche globali sono radicalmente cambiate (l’ascesa dei Paesi emergenti, il declino dell’egemonia basata sul perno euro-americano), ma anche per l’incremento delle crisi interne alle società avanzate (demografiche, economiche, ecc.) e l’incapacità a soddisfare le impossibili promesse pompate dall’apparato mediatico-politico. Il ciclo della crescita eterna si è contorto, in parte inceppato nei Paesi più ricchi, mentre i suoi costi climatico-ambientali sono diventati pericolosi per la tenuta stessa dell’attuale civiltà umana. Ma quello che per Ventura è il sintomo di un modello di sviluppo giunto al capolinea, per altri, specialmente per quelli che non condividono le sue tesi, è solo un momentaneo problema in attesa del nuovo slancio verso “l’infinito e oltre”.

Più volte è stato predetto il crollo del capitalismo, della Modernità, o anche del semplice “Occidente”, più volte i catastrofisti sono stati smentiti dall’enorme capacità adattiva del Sistema dominante. Per alcuni politologi la mancanza di opportunità per tutti è solo figlia del neoliberismo e delle disuguaglianze estreme, che prima o poi saranno sanate da nuove lotte sociali. Per altri sarà la madama tecnologia a sanare i problemi creati dal modello tecnologico stesso, in particolare la crisi climatica-ambientale. Per altri ancora il malessere psicologico del ceto urbanizzato è solo un momentaneo borbottio di una classe agiata, liberal-progressista, troppo indolenzita dal bengodi attuale, che ha ben poco a che fare con chi vive di lavori manuali in provincia, con chi è un religioso credente, con chi ha fede nel sol dell’avvenire. In fondo questi tempi di crisi potrebbero essere solo un periodo di transizione in attesa del pieno dispiegamento delle “tecnologie esponenziali”, della fusione uomo-macchina e quindi di quella nuova “linfa artificiale” che ripoterà vitalità alle atrofizzate masse borghesi, sfoltite e rafforzate durante il prossimo brutale processo di selezione…

Bisogna sempre tenere conto che in tutte queste analisi vi è uno strisciante conflitto generazionale, specialmente fra le generazioni che hanno vissuto fasi diverse del ciclo di modernizzazione (Boomers e Gen Z in particolare) sviluppando identità e sensibilità differenti, e allo stesso tempo uno scontro fra “integrati & apocalittici”, con i primi pronti a difendere a spada tratta l’architettura istituzionale che presiedono e i secondi all’assalto della detestata torre d’avorio. Ma al di là di queste eterne diatribe, non si può negare che l’intricata complessità dispiegata dalla Modernità stia mostrando inquietanti crisi multiple, con rischi enormi mai corsi prima dall’umanità e una cavitazione sociale-istituzionale in seno alle democrazie da far dismettere i pensieri più ottimistici; le nevrosi si accumulano senza sosta, l’Idiocrazia è diventata una realtà concreta nel cuore della prima Potenza mondiale, la frustrazione causata dal “sogno tradito” serpeggia anche nei ceti più abbienti, mentre numerose classi dirigenti sono in preda a un palese crollo culturale/cognitivo di proporzioni sconosciute. Come possa reggere a lungo un modello così complesso, sollecitato da variabili impazzite, in mano ad uno show fuori controllo, è un autentico mistero… Ma per quanto il prezzo da pagare stia crescendo, i “padroni del vapore” non possono e non vogliono fermare la corsa del treno.

 

Indietro non si torna

Si può decrescere infelicemente? La stragrande maggioranza non realizzerà i suoi sogni. Non avrà successo. Non trasformerà le proprie passioni in un lavoro ben remunerato. Non avrà sostanzialmente una vita piena e felice. La classe disagiata è pronta a fare un passo indietro? Il capitolo finale delinea una possibile strada salvifica cercando nel auto-declassamento individuale, e quindi nell’accettazione della fine di un’epoca, una pacifica via alternativa alla “guerra di tutti contro tutti”, focalizzandosi sul recupero dell’equilibrio mentale ed esistenziale. Qualcosa che vada ben oltre il ritiro comodo e borghese in campagna. Ma una scelta del genere implica, se applicata contemporaneamente dalla maggior parte degli individui, un ribaltamento radicale dell’intero modello di sviluppo costruito negli ultimi tre secoli. Una rivoluzione totalmente inaccettabile per le élite al comando e per quel ceto medio urbanizzato coinvolto ossessivamente, 24h su 24, nelle dinamiche sistemiche.

“Indietro non si può tornare”! tuonerebbero tutti. Specialmente quando si ha letteralmente necessità di un’architettura industriale-tecnologica globale per soddisfare i bisogni materiali crescenti di 8,2 miliardi di esseri umani. Ventura in cuor suo ne è consapevole e infatti nelle pagine finali del saggio rimarca con realismo la situazione: «Ne saremo all’altezza? La forza morale che sarebbe necessaria per rinunciare non solo alle condizioni materiali delle società del benessere, ma soprattutto alle promesse inesaudibili di realizzazione che alimentano il gigantesco falò delle risorse del pianeta, sembra fuori dalla nostra portata. La classe media fabbrica individui desideranti, non asceti: la delusione endemica è solo uno scarto del suo sistema di selezione sociale. La sfida della transizione ecologica non può essere vinta da un’umanità che ha fatto del consumismo la propria seconda natura. Spinta dalla pressione del mercato del lavoro e della società intera, la classe disagiata preferisce scomparire piuttosto che rinunciare ai suoi progetti esistenziali» (p. 252).

Ma oltre a Ventura e altri esperti dei nostri tempi, anche diversi membri delle più potenti élite sono ormai consci della situazione traballante, spinta al limite estremo. Peter Thiel e altri signori della Silicon Valley sono consapevoli in qualche modo del possibile collasso globale, al quale però stanno rispondendo con un gigantesco “all in”: l’accelerazionismo, senza se, senza ma. In fondo, come direbbe Elon Musk, perché rinunciare alla conquista delle stelle? Perché rifiutare le nuove potenzialità che potrebbero dischiudersi con il Transumanesimo? Perché rifiutarsi di superare gli ultimi limiti del piccolo pianeta Terra? Si, probabilmente nel “salto” soffriranno e moriranno milioni o miliardi di persone, dato che le transizioni epocali sono storicamente turbolente, distruttive e radicali. Ma per costoro le promesse dell’infinito sono lì a portata di mano, secondo i nuovi cantori del Progresso. E non hanno intenzione di rinunciarvi. Costi quel che costi…

Purtroppo, in questo scorcio di secolo ci siamo ritrovati incastrati fra l’ingenua illusione delle anime belle (la decrescita felice), il tentativo disperato delle élite (il salto nello Spazio) e il rischio fatale (il collasso della civiltà moderna). La “felicità” ci sta sfuggendo dalle mani, mentre un fenomeno nuovo sta emergendo come risposta a questo delirio accelerato: una parte delle nuove generazioni, inconsciamente e con molto dolore interiore, sta proprio adottando la decrescita infelice. Non alla Fight Club, con un feroce e rinnovato spirito di gruppo. E nemmeno con una nuova potente ideologia rivoluzionaria. Semplicemente scivolando nella passività e nella chiusura verso il mondo esterno: adolescenti che si ritirano dalla società, che rinunciano all’estenuante competizione sistemica, che pian piano si “spengono” di fronte agli insopportabili input artificiali. Una serie di comportamenti che si stanno espandendo a macchia d’olio, anche in quei Paesi che solo recentemente hanno raggiunto un livello di sviluppo avanzato. Forse le attuali generazioni, in maniera istintiva, stanno interiorizzando il fatto che sono nate in un ciclo decadente, prossimo alla fine. E non hanno più l’energia e la vitalità per fare marciare la Modernità, insieme a una marea di anziani che stanno diventando la maggioranza nelle società avanzate. L’Italia in tal senso è un perfetto laboratorio del “declassamento”, con un’enorme ricchezza privata in dissipazione, una crisi demografica senza precedenti, una gioventù istruita, sfruttata e costretta spesso a scappare all’estero; e un sistema sempre più vecchio, incastrato nelle liturgie del passato, spaventato a morte dal futuro. Spaventato dal cambiamento.

«Non basteranno timide riforme né sforzi individuali: ci vuole una rivoluzione che sia contemporaneamente sociale, economica e culturale, un passaggio di civiltà. Se è vero che la crescita economica non tornerà più, allora l’unica cosa che può salvarci è un nuovo mito o una nobile menzogna. Ma chi potrà mai inventarla, se non qualche poeta, un disagiato, uno spostato?» (p. 253) conclude Raffaele Alberto Ventura. In sintesi, sembra suggerire la necessità di nuovi “Maestri” e di un nuovo “Credo” per fornire un equilibrio esistenziale agli individui che lo hanno perso. Alle tristi anime borghesi che si contorcono mentalmente con oggetti inutili e lavori inutili. Ma soprattutto per ricostruire il senso delle comunità umane, dei legami cooperativi, in nome di uno scopo collettivo dignitoso. Ovvero le uniche cose che contano veramente per la maggior parte degli esseri umani.

Sarà un lungo processo, irto di ostacoli e tragedie, pieno di tremebondi fantasmi della vecchia epoca. Se per decenni innumerevoli membri del mondo accademico, culturale e mediatico si sono dedicati alla pars destruens del modello in cui viviamo, ora è più che mai urgente una pars construens all’altezza dei tempi che verranno. Il compito più difficile in assoluto. Specialmente in quest’epoca di iper-inflazione informativa dove tutto sembra essere già stato scritto. Le avvisaglie del prossimo ciclo sono già fra noi, basta solo avere il coraggio di “adattarsi” e fare il salto nel nuovo mondo.

Scritto da
Alessandro Leonardi

Analista, ex giornalista e autore di analisi sul Sistema industriale-tecnologico e la tarda Modernità. Si occupa di evoluzioni e crisi dei modelli di sviluppo, con al centro la crisi climatica e i piani di mitigazione/adattamento connessi ai sistemi complessi, alla geopolitica e ai cambiamenti sociopolitici in corso. Scrive su testate giornalistiche e riviste nazionali come «Equilibri Magazine, «La Svolta», «Singola», «Iconografie». Autore di analisi per la Fondazione FEEM e per altri media e team di ricerca. È autore del saggio “L’Italia e il suo futuro. La fine della Repubblica e l’ascesa del nuovo mondo” (DIARKOS 2025), dedicato al declino del Paese e ai possibili scenari per i prossimi decenni.

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