“La questione salariale” di Andrea Garnero e Roberto Mania
- 19 Agosto 2025

“La questione salariale” di Andrea Garnero e Roberto Mania

Recensione a: Andrea Garnero e Roberto Mania, La questione salariale, Egea, Milano 2025, pp. 128, 15 euro (scheda libro)

 

Scritto da Massimiliano Garavalli

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Al centro del dibattito pubblico sull’economia italiana ritorna sempre un mantra consolidato, suffragato da dati preoccupanti: i salari in Italia non crescono da oltre trent’anni. Il confronto con gli altri Paesi OCSE restituisce un quadro ancora più impietoso: l’Italia è l’unico Paese di questo gruppo, che comprende le economie più avanzate, ad aver registrato una diminuzione dei redditi del 3,4% rispetto al 1991. Il ristagno dei redditi ha coinciso con il blocco della dinamica del PIL e della produttività, un unicum tra i Paesi OCSE. Queste criticità, strettamente intrecciate, si legano a doppio filo ad altre questioni italiane: l’inefficienza della pubblica amministrazione, un fisco diseguale, l’elevato debito pubblico, scarsi investimenti in formazione e lo stato delle infrastrutture digitali e fisiche. Sono, ormai, i fatti stilizzati del declino italiano. Dunque, sebbene annoverato in un quadro più ampio, il fermo dei redditi in Italia si è posto all’attenzione di molti economisti come un problema di natura strutturale e ha fatto emergere la necessità di una discussione specifica.

Questo tema, ribattezzato “questione salariale” per la sua portata nazionale, dà anche il titolo al libro di Andrea Garnero, economista dell’OCSE a Parigi, e Roberto Mania, giornalista e autore di importanti saggi su lavoro e tematiche sindacali. Il libro di Garnero e Mania si sviluppa come una lunga conversazione, un dialogo “socratico”, in cui i due autori, provenienti da esperienze e formazioni differenti, si interrogano a vicenda fino a mettere in luce i nodi centrali e quelli collaterali della questione, offrendo al lettore chiavi di lettura e possibili soluzioni.

Prima di esplorare le cause della stagnazione dei redditi, nel primo capitolo gli autori delineano le principali dinamiche dell’economia italiana. Alla ricostruzione del secondo dopoguerra è seguita una crescita economica formidabile a partire dagli anni Sessanta, il cosiddetto “miracolo economico”. Un periodo caratterizzato da uno sviluppo capitalistico-industriale impetuoso accompagnato dall’ascesa economica delle classi popolari, in un’epoca in cui il progresso sembrava una marea che poteva innalzare tutti. I salari crescevano e l’ascensore sociale consentiva ai figli di vivere meglio dei genitori, pur tra persistenti disparità territoriali, educative e di genere. Poi qualcosa si è inceppato.

Dagli anni Novanta l’economia italiana si è fermata, il debito pubblico è esploso, i problemi strutturali si sono intensificati e moltiplicati. Non c’è stato un blackout improvviso né una causa unica: in quegli anni i nodi del “sistema Italia” sono venuti al pettine, prima occultati dalla scia di crescita che aveva portato negli anni Ottanta il nostro Paese a superare il PIL del Regno Unito. Davanti a una globalizzazione in piena spinta e all’emergere di nuovi attori, l’Italia si è trovata impreparata a reggere il confronto internazionale; le inefficienze sistemiche sono esplose e la questione salariale ne è stata una conseguenza diretta. Tuttavia, a discapito di un generale rallentamento dei redditi e delle economie dei Paesi OCSE, solo in Italia si è verificato un blocco parallelo di PIL e redditi.

Perché ciò è accaduto solo nel nostro Paese? Questo è il leitmotiv dell’intera discussione dei due autori sul declino italiano. Garnero e Mania notano che negli anni Novanta la strategia economica è stata un connubio tra difesa delle produzioni nazionali e flessibilizzazione del mercato del lavoro in un’ottica di “svalutazione competitiva”. Ma di fronte alla rivoluzione informatica portata da Internet e alla sfida delle economie emergenti nella nuova globalizzazione post-bipolare, questa strategia si è rivelata opaca e poco efficace. La politica industriale ha spesso protetto settori “senza futuro”, mancando di investire dove serviva per tenere il passo con le altre economie OCSE. A ciò si è sommato un tessuto produttivo composto in larga parte da micro e piccole imprese a trazione familiare: un tratto spesso celebrato come “marchio italiano”, ma che secondo gli autori costituisce un freno naturale all’innovazione. Da un lato, le ridotte dimensioni limitano la crescita e l’innovazione per minore disponibilità di capitali; dall’altro, contesti piccoli e a gestione familiare – con scarsa managerializzazione – sono più restii a trasformare i processi produttivi. Ne risulta un tessuto industriale frammentato e meno aperto all’innovazione, incapace di generare gli aumenti di produttività necessari ad alzare i salari, con il conseguente rallentamento della crescita. L’impatto delle imprese d’avanguardia – più grandi, innovative e proiettate sui mercati internazionali – sul resto del sistema resta limitato: pur avendo conquistato quote rilevanti in settori d’eccellenza, come la meccanica avanzata, la ceramica o la moda, e pur garantendo retribuzioni superiori alla media, queste imprese non riescono a sviluppare un effetto traino né a diffondere standard elevati al resto del Paese.

L’altra “gamba” della politica economica degli anni Novanta è stata la trasformazione del mercato del lavoro, analizzata nel terzo capitolo. Il mantra globale era creare un mercato flessibile in entrata e in uscita per stimolare la competitività, obiettivo al quale anche la nascente Unione Europea iniziava ad adeguarsi con la libera circolazione di capitali e lavoro. L’Italia, per allinearsi, ha puntato su moderazione salariale e flessibilità in entrata. È ciò che gli autori definiscono il «passaggio dal Lavoro ai lavori» (p. 51) e che dà il titolo al terzo capitolo: per fronteggiare l’elevata disoccupazione, prende forma un percorso di segmentazione attraverso una serie di riforme – dal Pacchetto Treu del 1997 al Jobs Act del 2015 – che dapprima introducono nuove tipologie contrattuali (flessibilità in entrata) per inquadrare lavori privi di regolazione, poi intervengono sullo Statuto dei lavoratori per facilitare i licenziamenti (flessibilità in uscita).

«Una volta erano dipendenti tutti della stessa azienda», ricorda Garnero: oggi non è più così. Con l’esternalizzazione dei processi produttivi e la crescente terziarizzazione, unite alla proliferazione delle tipologie contrattuali, il lavoro si è parcellizzato e i lavoratori sono diventati “sparsi”. Secondo gli autori, questa strategia non ha funzionato: la moltiplicazione dei contratti ha creato una massa di lavoratori precari, intrappolati in rapporti part-time e a termine, meno pagati e meno tutelati anche per la minore intensità lavorativa. La flessibilità in uscita ha sì aiutato diverse imprese (soprattutto piccole) a sopravvivere, riducendo il costo del lavoro, ma ha scaricato gran parte dell’onere sui lavoratori, non ha prodotto guadagni di produttività e dunque nessun aumento dei salari. In questa fase l’idea dominante è “basta che si lavori”, pur in condizioni non ottimali.

Con l’inizio del nuovo millennio, tuttavia, è tornato il tema della qualità del lavoro rispetto alla quantità. Avere un impiego, infatti, non basta più a evitare la povertà: così è esploso il fenomeno dei working poor. Lavoratori che, pur occupati, non riescono a garantirsi una vita dignitosa. A questo si aggiunge l’inadeguatezza del sistema di formazione e di orientamento – a partire dalla scuola – che rende i lavoratori più deboli meno capaci di negoziare retribuzioni adeguate e di contribuire agli incrementi di produttività necessari. Una situazione di sbilanciamento del potere contrattuale che, come aveva già dimostrato il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz in Employment, social justice and societal well-being, ha avuto un effetto negativo sui salari.

Le nuove forme contrattuali hanno poi favorito l’ingresso nel mercato del lavoro degli stranieri – in anni di forte crescita dei flussi migratori – e l’aumento della partecipazione femminile. A parità di ore lavorate, donne e stranieri continuano però a essere pagati meno e, essendo più concentrati in lavori a minore intensità, trascinano verso il basso la media salariale. Come sottolineano infatti Garnero e Mania, la dinamica dei salari non dipende solo da quanto si viene pagati all’ora, ma anche da quante ore si lavora, ovvero l’intensità lavorativa. Meno ore lavorate si traducono in stipendi più bassi, incidendo negativamente sulla media dei salari che contribuisce all’indicatore citato all’inizio.

Inoltre, questa trasformazione si inserisce in una forbice capitale-lavoro sempre più sbilanciata a favore delle imprese. “La lotta di classe esiste e l’hanno vinta i ricchi”, è l’osservazione resa celebre dall’investitore statunitense Warren Buffett. Un mercato del lavoro precarizzato e spezzato rende, infatti, più difficile presidiare i diritti: oggi ci confrontiamo con imprese gigantesche, come le Big Tech statunitensi, dotate di un potere di mercato tale da neutralizzare la resistenza sindacale e l’efficacia delle tutele, e spesso in grado di influenzare direttamente l’azione degli Stati.

Come se non bastasse la precarizzazione, un altro dato è che il contratto non basta più. Il secondo capitolo è dedicato infatti al tema della debolezza della contrattualizzazione. Nel 1993, ricorda Mania, viene siglato il Protocollo Ciampi, che ridisegna relazioni industriali e contrattazione. Nasce la contrattazione su due livelli – nazionale e territoriale/aziendale – in cui la prima fissa i minimi e la seconda distribuisce i guadagni di produttività, migliorando la prima. L’intento era rafforzare la contrattazione nella formazione di salari adeguati, seguendo una strategia che ha dato frutti nei primi anni, ma poi ha iniziato a mostrare i suoi limiti: la contrattazione di secondo livello è rimasta scarsamente utilizzata, mentre quella di primo livello è stata minata dall’esplosione dei cosiddetti “contratti pirata”, firmati da sigle non rappresentative e spesso peggiorativi. A proposito di questo nodo, la tesi degli autori è che l’assenza di regole chiare sulla rappresentanza – tanto delle organizzazioni datoriali quanto dei lavoratori – abbia aperto la porta ad abusi e indebolito la capacità dei contratti di difendere i lavoratori.

Da qui il tema della rappresentanza sindacale. La letteratura economica è concorde nello stabilire che una minore rappresentanza si traduce in una caduta dei salari. Come citato in precedenza, il mercato del lavoro parcellizzato ha indebolito i sindacati, aumentando al contempo il potere delle imprese. Lavoratori più dispersi sono meno coesi e più difficili da tutelare. Il numero di tesserati ai sindacati confederali è infatti ai minimi storici ed è rappresentato, paradossalmente, in larga parte da chi non lavora più, cioè i pensionati. Gli autori rilevano anche come i sindacati italiani siano divenuti spesso troppo politici e meno tecnici: faticano a proteggere i lavoratori in un mondo in trasformazione e tendono a difendere gli insider dei settori tradizionali più del vasto corpo degli outsider – soprattutto giovani e “nuovi” lavoratori.

Nel secondo dopoguerra, la questione salariale è rimasta a lungo affidata alla contrattazione tra le parti sociali: politica e legislatore hanno scelto di non intervenire direttamente, lasciando a sindacati e associazioni datoriali la determinazione dei livelli retributivi. La stagnazione dei redditi ha però reso evidente la necessità di un intervento più deciso dopo anni in cui il tema era stato marginale nel discorso pubblico. Negli ultimi anni, ricorda Garnero, la risposta politica è stata per lo più indiretta, ad esempio con decontribuzioni, e spesso sbilanciata a favore dei datori di lavoro. Non sono mancati però interventi più espliciti: dal bonus in busta paga da 80 euro introdotto dal Governo Renzi, al Reddito di inclusione del Governo Gentiloni, fino al Reddito di cittadinanza – recentemente abolito e sostituito dal Governo Meloni con l’Assegno di inclusione e il Supporto per la formazione e il lavoro.

In questo quadro è entrato in scena il salario minimo, al quale gli autori dedicano il capitolo finale. Dopo decenni di scarsa attenzione, anche i sindacati – storicamente contrari per timore di un indebolimento della contrattazione – hanno cambiato posizione allineandosi ai partiti di centrosinistra, promuovendo campagne per l’introduzione del salario minimo. Secondo gli autori, il cambiamento è dipeso proprio dall’indebolimento della contrattazione, come accaduto anche altrove. L’Italia è uno dei pochi Paesi dell’Unione Europea in cui non esiste a oggi un salario minimo legale. E a questo proposito gli autori sottolineano che sebbene oggi la contrattazione non riesca a garantire a una quota rilevante della forza lavoro i minimi essenziali richiesti dall’art. 36 della Costituzione, il salario minimo non è da considerarsi una soluzione “naturale”. Esistono mercati del lavoro – in particolare quelli scandinavi – in cui ai lavoratori sono riconosciute retribuzioni adeguate, anche senza misure legali di questo tipo.

Per l’Italia, però, la questione è evitare che il salario minimo diventi uno strumento meramente compensativo nei settori non coperti dalla contrattazione: fissare un minimo in ambiti già contrattualizzati, senza miglioramenti effettivi, rischia di congelare gli aumenti. Inoltre, si correrebbe il pericolo di “politicizzare” la materia, rendendola dipendente dai governi di turno. Ciò non toglie che la combinazione di bassi salari, declino della contrattazione e assenza di meccanismi strutturali di adeguamento all’inflazione suggerisca di considerare un minimo legale in alcuni settori, affiancandolo all’imprescindibile rafforzamento della contrattazione di primo e di secondo livello. Una via praticabile secondo Garnero è quella indicata dall’esperienza di Germania e Regno Unito: la determinazione del salario minimo è stata affidata a commissioni indipendenti composte da sindacati e datori di lavoro, con il supporto di esperti. In questi casi è la politica che ha fatto un passo indietro.

In Italia una tale soluzione pare al momento lontana e di complicata applicazione, anche in virtù del recente referendum bocciato per mancato raggiungimento del quorum. Tuttavia, l’esperienza di altri interventi indiretti promulgati dai Comuni – come l’iniziativa di Firenze del salario minimo negli appalti o il living wage di Milano – e la decisione di alcune corti (confermate dalla Cassazione) di affiancare alla contrattazione il ruolo di un giudice nell’accertare che i minimi siano rispettati, dimostrano che qualcosa si è già mosso. In tal senso, l’introduzione di un salario minimo in Italia non è di per sé sbagliata secondo Garnero, ma va applicata preliminarmente in alcuni settori specifici, meno tutelati, per poterne valutare l’efficacia. Un salario minimo generalizzato rischierebbe infatti di indebolire la contrattazione negli ambiti in cui questa funziona positivamente, e di produrre effetti distorsivi sull’economia.

Scritto da
Massimiliano Garavalli

Associate Consultant per PwC, si occupa di gestione progetti e policy analysis su temi di mobilità sostenibile, energia e trasporti dell’Unione Europea. Ha fondato ed è attualmente Presidente di Sistema Critico, progetto culturale di divulgazione su temi di attualità nato a Pesaro. Laureato in Economia e Politica Economica a Bologna, si è specializzato sullo studio delle disuguaglianze, sul welfare e sulle politiche pubbliche. È socio editor per Orizzonti Politici, dove si occupa di politica statunitense ed economia, e ha collaborato con Il Caffè Geopolitico e IARI, dove ha scritto di geopolitica dell’America Latina.

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