Subito dopo la sua morte, si è parlato del calciatore olandese Johan Cruijff come di un rivoluzionario. Ben pochi hanno spiegato questa pesante affermazione. Se pensiamo a Muhammad Alì che si converte all’islam e diserta la guerra del Vietnam, o alle Pantere Nere che mostrano il pugno chiuso sul podio delle Olimpiadi del 1968, l’olandese non fa parte dei questa tradizione. Figlio di un ortolano morto quando il giovane prodigio aveva solo 12 anni, cresciuto nel principale club di Amsterdam, l’Ajax, Johan ha tenuto spesso un comportamento irrequieto senza scioccare nessuno. Di certo privo di alcuna simpatia socialista, comunista o anarchica, affermava di considerarsi un ribelle esclusivamente perché voleva cambiare le regole. Priva di funzione sociale, la ribellione di Cruijff ha cercato di rendere meno monotono e più efficace il sistema.
Per comprendere la ribellione di Cruijff dobbiamo analizzare la società in cui ha vissuto. L’Olanda del dopoguerra si contraddistingueva per un’estrema rigidità sociale. La società era organizzata in tre pilastri principali: il cattolicesimo, il protestantesimo e la socialdemocrazia. A questi, si aggiunse il pilastro liberale, che includeva chi non si riconosceva nei primi tre. Questo schema veniva definito pillarisation (verzuiling, in olandese). Se in occidente sindacati e partiti politici rappresentavano le diverse anime della società, nei Paesi Bassi la divisione in pilastri investiva anche le frequenze radiofoniche, le trasmissioni televisive, la stampa, le scuole, le associazioni sportive e quelle culturali. Nessuno poteva tirarsi fuori da questa divisione.
Questo sistema funzionava dal punto di vista del conflitto tra capitale e lavoro. Grazie ad un canale di rappresentanza forte, chiare regole di contrattazione collettiva e un certo potere di consultazione e informazione nelle decisioni manageriali, i tre sindacati, derivati dai tre pilasti, non fecero esplodere il conflitto tra capitale e lavoro. Esplose invece il malcontento delle giovani generazioni che non si identificavano in quella società perché incarnava uno schema sociale e morale precostituito, considerato bacchettone e noioso.
Rispetto alle generazioni precedenti, i giovani olandesi potevano beneficiare di una maggiore istruzione e di una più ampia dose di tempo libero. Nacque così il movimento dei Provo, che inizialmente rivendicava semplicemente il diritto a spendere il proprio tempo libero ludicamente. Ben presto il movimento prese una forma più articolata che lo portò ad ottenere forme di libertà mai pensate in Occidente. I Provo erano provocatori che si ribellavano all’ordine costituito, si schieravano contro il tabagismo ma a favore della liberalizzazione delle droghe leggere, a favore dell’ambientalismo come della liberazione sessuale, contro il consumismo. Le manifestazioni raggiunsero il picco nel 1966, durante il matrimonio tra la Principessa Beatrice e un diplomatico tedesco con un passato nella Wehrmacht. Tutto ciò era visto come fumo negli occhi del fiero sentimento anti-nazista (oltre che anti-tedesco) che pervadeva le strade di Amsterdam.
Le violente dimostrazioni segnarono una svolta nella storia Olandese. Il governo decise di piegarsi a buona parte delle richieste dei provocatori e Amsterdam diventò la città più libera del mondo. Meta di qualsiasi tipo di avanguardia, la capitale fu affollata da capelloni, intellettuali e artisti di varia natura che ne fecero uno dei centri culturali di maggiore interesse. Sorsero esperimenti in ogni campo. Il più famoso è sicuramente quello nel calcio.
L’esperimento calcistico prese il nome di “calcio totale” (totaalvoetbal, in olandese), inventato dall’allenatore dell’Ajax, Rinus Michels. In precedenza, il calcio si basava su lanci lunghi, ritmi monotoni, difese solide e una punta centrale pronta ad insaccare. Ciascun calciatore doveva avere una conoscenza specifica del proprio ruolo, senza travalicare i propri confini. Nel calcio totale i giocatori dovevano esprimersi in ogni ruolo, perché chi si spostava dalla sua posizione doveva essere subito rimpiazzato da un compagno. La squadra doveva aggredire tutto il campo, occupando gli spazi sia grazie ad un pressing continuo che a un gioco compatto che coinvolgeva tutta la squadra, fatto di rallentamenti e accelerazioni fulminanti. Il capitano veniva eletto democraticamente dallo spogliatoio.
Questa visione di gioco è ancora molto moderna e ci ricorda il tiki-taka dell’attuale Barcellona. Se proviamo a spaziare i nostri orizzonti, il calcio totale rientra nella logica dell’organizzazione del lavoro post-fordista. Il fordismo imponeva ritmi di lavori monotoni per soddisfare una domanda di prodotti illimitata, lo scientific management imponeva agli operai di conoscere in maniera dettagliata solo la mansione svolta, e i lavoratori erano affiatati dalla coscienza di classe anche se svolgevano un lavoro individuale lungo la catena di montaggio.
Al contrario, nel post-fordismo la produzione dovette adeguarsi alla volatilità della domanda. Ancora oggi, in alcuni momenti l’impresa deve produrre più velocemente, in altri operare a ritmi più blandi. L’operaio deve comprendere il significato dell’operazione che sta effettuando ed essere in grado di esercitare più mansioni. Il concetto di lavoro individuale è decostruito grazie a team costituiti da 5-8 operai che ruotano le mansioni, pianificano le ferie e sono guidati da un team leader che, in alcuni casi, viene eletto dagli altri membri.
Nelle fabbriche, come nel calcio, si creò uno schema meno imbrigliato nei paradigmi ideologici precedenti, in cui la società veniva per alcuni versi democratizzata. La divisione in classi o pilastri cadeva, mentre acquisiva importanza l’appartenenza a gruppi scelti in maniera autonoma, come l’azienda, la squadra di calcio o di lavoro, i capelloni, etc. Si delineava una società più libera, più irruenta e insubordinata ma largamente basata sul mercato, per questo più consumista, più veloce, più stressante.
L’atteggiamento pubblico del campione olandese Cruijff rifletteva questi cambiamenti. Anche se generalmente non si interessava di politica, disconosceva nettamente le dittature, e lo dimostrò rifiutando il denaro offertogli dal Real Madrid, simbolo del potere di Francisco Franco. Allo stesso tempo amava i piaceri, non disprezzava il denaro, gli piaceva fumare, ogni tanto si irritava, tirava un pugno, e fuggì dalla casa madre Ajax quando non venne rieletto capitano.
L’atteggiamento del calciatore olandese Cruijff ricorda il “Grande” Jay Gatsby nato dalla penna di Francis Scott Fitzgerald, figura di un ruggente parvenu che si arricchisce a dismisura, tenta di entrare nella bella società dell’epoca e ne sovverte le regole organizzando feste bellissime. La borghesia tradizionale lo odia profondamente e lo considera un mostro privo di morale. In realtà, l’alta società non riesce ad accettare che un povero sia diventato loro pari ed è proprio la morale borghese ad essere ormai carta straccia, mentre Gatsby, festaiolo edonista, si fa carico dei pochi valori presenti nel libro. In questo è un rivoluzionario. Ma Gatsby soffre la sua nemesi.
La nemesi di Cruijff è il Mondiale del 1974, dove la classe dominante dell’epoca prese la rivincita. Nel 1974 il mondo era diviso in blocchi mentre infiammava il conflitto tra capitale e lavoro. L’Olanda partecipava alla rassegna da scheggia impazzita, fuori dal contesto, ormai entrata in una fase post-ideologica che aveva come unico collante politico l’anti-nazismo. Al contrario, il gruppo 1 simboleggiava la contrapposizione ideologica contemporanea incarnandone tutte le sue contraddizioni. Come uno scherzo del destino, qui si incontrarono il Cile di Pinochet, la Germania Ovest e la Germania Est.
Come ciliegina sulla torta, l’Unione Sovietica si era appena rifiutata di giocare lo spareggio a Santiago del Cile, nello stadio in cui il dittatore Pinochet torturava i dissidenti. Nel girone successe di tutto. Il cileno antifascista Carlos Caszely tirò un pugno al tedesco occidentale Berti Vogts, diventando il primo cartellino rosso nella storia di un mondiale. La Germania Ovest era guidata dal Kaiser Franz Beckenbauer, così chiamato per la somiglianza al re Ludwig II di Baviera, come ad assegnarli lontane origini nobiliari e dal maoista Paul Breitner, che, dopo pochi anni, accettò volentieri il denaro di Francisco Franco. La Germania Est imbrigliò la corazzata dell’Ovest per poi infilare il portiere Sepp Maier con un goal di Jürgen Sparwasser, il quale, un anno prima della caduta del muro, fuggì in occidente lasciando impietriti i vertici della STASI.
L’Olanda, dopo un percorso meno tumultuoso, iniziò a giocarsi la finale con la Germania Ovest, costruendo subito una delle più grandi azioni di tutti i tempi che portò gli arancioni a segnare un rigore fischiato a meno di due minuti dall’inizio. Poi si perse, e venne imbrigliata dalla corazzata tedesca, che vinse 2-1, come mossa d’orgoglio dell’antica borghesia calcistica che non vuole arrendersi di fronte ad aggressivi parvenu. Ma fu un sussulto di breve durata, pochi anni più tardi, un piccolo ragazzo argentino di nome Diego portò a termine il lavoro dell’olandese spazzando via quel che restava del calcio passato, del suo gioco e della sua morale.
Vuoi leggere l’anteprima del numero due di Pandora? Scarica il PDF