La rivoluzione silenziosa: il lavoro oggi, tra aspirazioni e frustrazioni. Intervista a Paolo Iacci
- 05 Agosto 2025

La rivoluzione silenziosa: il lavoro oggi, tra aspirazioni e frustrazioni. Intervista a Paolo Iacci

Scritto da Viola Andreolli

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Il mondo del lavoro negli ultimi anni è stato segnato da trasformazioni radicali accentuate dalla pandemia di Covid-19. Un cambiamento congiunturale e culturale che ha prodotto una riflessione profonda sul valore del lavoro e sulle nuove aspettative dei lavoratori, specialmente nelle nuove generazioni.

Paolo Iacci è un manager d’impresa, psicologo del lavoro e docente universitario di gestione delle risorse umane all’Università Statale di Milano. Autore di numerosi libri di management e lavoro, in Smetto quando voglio. Il lavoro nel nuovo millennio tra quiet quitting e silenzio organizzativo (Egea 2024), Iacci esplora i temi cruciali del mondo del lavoro contemporaneo, come il quiet quitting, le grandi dimissioni e l’aumento dei NEET. Nel nuovo saggio La rivoluzione silenziosa. Quando le persone ridisegnano le regole (Egea 2025), descrive il ribaltamento del patto psicologico tra lavoratori e organizzazioni suggerendo soluzioni operative per le aziende.

In questa intervista, Paolo Iacci riflette su come sta cambiando il mondo del lavoro e su come creare imprese più sane e produttive in una società sempre più sviluppata e interconnessa, ma che è allo stesso tempo più complessa e fragile.


Nei suoi libri lei afferma che il 2020, con il Covid e l’isolamento forzato, ha segnato uno spartiacque, portando nel mondo del lavoro una diffusione del burnout. Che cosa è cambiato, in profondità e nella pratica, nel nostro modo di vivere il lavoro dopo la pandemia?

Paolo Iacci: La pandemia ha accelerato una serie di cambiamenti che erano già in atto, ma che, con il Covid, sono esplosi. È stato il primo momento in cui l’intera umanità è stata colpita simultaneamente da un evento distruttivo, che ha cambiato radicalmente la vita quotidiana di tutte le persone. Già ci trovavamo in una condizione di forte incertezza, ma con la pandemia questo sentimento è diventato ancora più grande. Si è creata una situazione paradossale: in una società iperconnessa come la nostra, mai come in questo momento l’uomo ha raggiunto un tale livello di sviluppo tecnologico, eppure, contemporaneamente, non si è mai sentito così solo e così inerme. Con la pandemia, in ogni parte del mondo, le persone hanno rivisto le priorità della propria vita. Per molti, il lavoro, pur rimanendo importante, ha perso posizioni nella scala delle priorità: sono passate in primo piano la salute, la sicurezza e le relazioni con gli altri. Questo è stato, in sintesi, l’elemento scatenante di processi con radici ben più lontane.

Se guardiamo all’Italia, ci sono dati interessanti ma anche preoccupanti. In un rapporto del Censis, ad esempio, si evidenzia che il 32% delle persone si sente stressato e l’83% chiede alle proprie aziende un supporto attraverso forme di welfare integrativo per tutelare la salute e il benessere. È evidente una sensazione diffusa di stress e di difficoltà, che non riguarda solo l’aspetto economico ma anche la sfera psicologica e la qualità della vita quotidiana. Anche qui emerge un paradosso: da un lato il lavoro perde centralità nella vita delle persone, ma dall’altro si chiede alle aziende di supplire alle mancanze dello Stato, soprattutto sul fronte del welfare, dove si chiede all’organizzazione di farsi carico di bisogni fondamentali. Questo, a mio avviso, è uno degli aspetti più interessanti e contraddittori del cambiamento in atto. 

 

Restando sui dati di contesto: secondo le rilevazioni Gallup (importante società di consulenza statunitense), solo il 5% degli italiani si sente coinvolto nel proprio lavoro, ma il 44% ritiene che la professione dia senso alla propria vita. Come si spiega questa contraddizione tra desiderio di identificazione e alienazione quotidiana?

Paolo Iacci: Anche questa apparente contraddizione tra disaffezione quotidiana e desiderio di identificazione con il proprio lavoro non è un fenomeno del tutto nuovo. Già prima della pandemia si registrava un abbassamento della soglia di frustrazione percepita come accettabile. Un dato significativo in tal senso è quello delle dimissioni volontarie: nel 2016 erano circa un milione, nel 2018 erano già salite a 1,6 milioni. Dopo una lieve battuta d’arresto durante la pandemia, il trend è ripreso con vigore: negli ultimi tre anni ci siamo stabilizzati tra i 2,1 e i 2,2 milioni di dimissioni volontarie annue. Oltre il doppio rispetto a dieci anni fa.

Questo non significa che le aziende sono improvvisamente peggiorate. Anzi, molte imprese hanno ampliato le attività di welfare, il che rende il fenomeno ancora più interessante: più welfare viene offerto, più aumentano le dimissioni. Un paradosso solo apparente. In realtà, ciò che è cambiata è la soglia di tolleranza individuale: le persone non accettano più di restare in ambienti in cui non si sentono valorizzate, dove vi è tensione nei rapporti con i colleghi o con i superiori, dove le aspettative di crescita professionale vengono disattese.

Non si tratta quindi di una fuga dal lavoro in sé. Al contrario: oggi, in Italia, il numero di persone che lavorano non è mai stato così alto negli ultimi cinquant’anni. Ciò che emerge è piuttosto una fuga da forme di lavoro percepite come insoddisfacenti. In questo senso, il desiderio che il lavoro abbia un senso profondo nella propria vita resta vivo, ma si accompagna a una crescente esigenza di benessere e realizzazione anche nell’ambiente lavorativo quotidiano.

Uno dei segnali più rilevanti di questa trasformazione è il fenomeno del quiet quitting. Non si tratta, come spesso si fraintende, di smettere di lavorare o di venir meno ai propri doveri, ma piuttosto di una forma di disimpegno silenzioso: il lavoratore svolge solo ciò che è strettamente richiesto, senza alcuna proattività, senza investire energia o creatività. È una forma di resistenza passiva, di ritirata simbolica, che si manifesta quando l’ambiente di lavoro è percepito come inadeguato o tossico, e non si ha la possibilità di cambiarlo o lasciarlo.

 

A proposito di “fuga dal lavoro”, sebbene in Italia non abbiamo assistito alla stessa grande ondata di dimissioni che ha caratterizzato la “Great Resignation” americana, il ripensamento collettivo sul significato del lavoro è sfociato in un “Great Reshuffle”, cioè una riorganizzazione delle priorità lavorative. Come mai nel nostro Paese abbiamo assistito ad un fenomeno diverso? E come si inserisce nel contesto del cambiamento culturale che stiamo vivendo?

Paolo Iacci: È vero, in Italia non abbiamo assistito a una vera e propria Great Resignation come negli Stati Uniti, ma piuttosto a un Great Reshuffle, accompagnato da un processo ancora più profondo: un Great Rethinking. Non si è trattato, cioè, di una fuga dal lavoro, ma di una riflessione collettiva sul senso del lavoro e sul suo posto nella vita delle persone. Questo cambiamento ha radici culturali profonde. L’Italia, come altri Paesi europei, proviene da una cultura del secondo dopoguerra in cui il lavoro era percepito come un dovere sociale. Lavorare significava contribuire alla ricostruzione e al benessere collettivo dopo la devastazione bellica. In quel contesto, il lavoro era fatica, sacrificio necessario per costruire un futuro migliore. E la felicità era pensata come qualcosa da raggiungere nonostante il lavoro o dopo il lavoro. Oggi, quella spinta si è affievolita. Le nuove generazioni non accettano più l’idea che il lavoro debba essere per forza un’esperienza alienante o frustrante. Chiedono, piuttosto, un lavoro in cui potersi riconoscere e che permetta di essere felici. Se quell’ambiente non è in grado di offrire benessere, crescita o riconoscimento, allora si cambia. E lo si fa con una decisione sempre più consapevole.

La ricerca Gallup è interessante anche per un altro dato: la quota di lavoratori “apertamente ostili”, cioè persone non solo disingaggiate, ma attivamente contrarie all’ambiente lavorativo. Tra gli over 50, questa percentuale è del 26%; tra i giovani sotto i 35 anni, è del 18%. Perché questa differenza? Perché i più giovani, se non sono soddisfatti, si dimettono più facilmente: hanno un mercato del lavoro più dinamico e meno vincoli familiari. Gli over 50, e soprattutto gli over 55, spesso non possono permettersi di lasciare il lavoro: hanno meno opportunità di ricollocamento e maggiori responsabilità economiche. Questa impossibilità di scegliere genera frustrazione e ostilità. Le nuove generazioni sono quindi la forza motrice di questo cambiamento valoriale. Il lavoro non è più soltanto fonte di reddito, ma spazio in cui si cerca identità, significato e – almeno in parte – felicità. Ed è questa rielaborazione, più ancora delle dimissioni in sé, a segnare il tempo presente.

 

Nel quadro che lei traccia, le nuove generazioni appaiono profondamente divise. Da un lato più di 2 milioni di NEET, ragazze e ragazzi, che si ritirano nell’inattività e nel disincanto; dall’altro, il 69% dei giovani è disposto a emigrare all’estero, animato da un desiderio di futuro e di significato. In entrambi i casi emerge un nodo irrisolto: l’Italia sembra incapace di offrire prospettive credibili a chi cerca realizzazione, e spesso reagisce con indifferenza o rassegnazione. A suo avviso, che tipo di risposte concrete culturali, politiche e organizzative servirebbero oggi per ricostruire un legame tra le nuove generazioni e il lavoro?

Paolo Iacci: Va innanzitutto chiarito che stiamo parlando di due fenomeni distinti: da una parte i NEET, giovani che non studiano né lavorano; dall’altra, quelli che scelgono di emigrare. Entrambi segnalano un nodo irrisolto nel rapporto tra le nuove generazioni e il lavoro, ma le cause e le risposte necessarie sono differenti.

Partiamo dai NEET. L’Italia presenta un tasso di inattività strutturalmente elevato: il 36%, contro una media europea del 33%. Questo significa che mancano all’appello circa un milione e mezzo di persone che, in altri Paesi, sarebbero attive nel mercato del lavoro. All’interno di questo quadro, troviamo oltre due milioni di giovani che non studiano e non lavorano, i sopracitati NEET. In molti casi, si tratta di ragazzi e ragazze privi di titoli di studio o, soprattutto, di una preparazione professionale minima per accedere al mondo del lavoro. Il problema è duplice: da un lato, in Italia la formazione tecnica e professionale è in crisi profonda, trascurata da anni e incapace di offrire percorsi credibili e accessibili. Dall’altro lato, c’è una crisi dell’ascensore sociale. Se un giovane non percepisce, attraverso il lavoro, la possibilità concreta di migliorare la propria condizione di vita, allora viene meno la motivazione stessa a formarsi o a cercare un’occupazione. Per rispondere a questo fenomeno servirebbe quindi un investimento massiccio nella formazione tecnica e professionale, e al contempo politiche capaci di riattivare la mobilità sociale e rendere nuovamente desiderabile il lavoro come strumento di emancipazione.

Diverso è il caso di chi decide di lasciare l’Italia. Oggi abbiamo circa 6 milioni di italiani stabilmente all’estero, e ogni anno sono circa 140.000 le persone che scelgono di emigrare. Di queste, il 70% sono giovani e il 40% laureati. Un dato sorprendente è che molti di loro non partono da regioni con alta disoccupazione giovanile, ma da aree economicamente forti come Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte. Questo ci dice che non emigrano perché non trovano lavoro, ma perché cercano un lavoro più soddisfacente, una carriera più veloce, maggiore autonomia organizzativa, servizi pubblici più efficienti e un migliore equilibrio tra vita privata e vita lavorativa. In questo contesto, non è la mobilità giovanile in sé a essere un problema – anzi, il movimento dei talenti è un segno di vitalità. Il problema sorge quando questo movimento diventa una fuga senza ritorno.

C’è, inoltre, un problema strutturale: il sistema economico italiano è composto prevalentemente da piccole e medie imprese, con un tasso di managerializzazione più basso rispetto ad altri Paesi industrializzati. Questo limita l’innovazione tecnologica, rende gli stili gestionali più tradizionali e gli assetti organizzativi meno flessibili. A questa struttura si accompagna anche un mindset culturale che fatica ad accettare il cambiamento profondo che la situazione richiederebbe. In altre parole, l’Italia non solo offre meno opportunità, ma spesso è anche meno pronta a trasformarsi per trattenere i giovani “in fuga”. In passato, esistevano incentivi fiscali per chi rientrava in Italia dopo un’esperienza all’estero, o per attrarre lavoratori altamente qualificati. Oggi questi strumenti ci sono ancora, ma in forma attenuata. Ripristinarli e potenziarli potrebbe essere un primo passo concreto.

 

Come da lei sottolineato, un altro segnale di questa trasformazione è la crescente spersonalizzazione del rapporto tra individuo e organizzazione, che spesso porta a una tendenza a “scaricare” il malessere lavorativo sul datore di lavoro. Quanto è giusto attribuire la responsabilità alle imprese, e quanto invece dipende dai limiti culturali, strutturali e sociali del nostro sistema? In che modo le aziende possono rispondere alle crescenti aspettative dei lavoratori senza gravare eccessivamente sulle loro risorse?

Paolo Iacci: Questo cambiamento non riguarda solo la dimensione individuale, ma tocca appunto anche la sfera sistemica e collettiva. Prendiamo, ad esempio, il fenomeno del ghosting nel lavoro: un candidato che riceve una proposta di assunzione e poi scompare senza dare spiegazioni. Questo comportamento, che troviamo anche nelle relazioni personali, è passivo ma profondamente aggressivo: non è il conflitto, ma l’indifferenza che diventa l’atto finale. Questo riflette un cambiamento nel “patto psicologico” tra lavoratore e azienda, un patto che in passato si fondava su fiducia e reciproco impegno, ma che oggi si sta sfaldando, generando reazioni difensive e chiuse.

Non possiamo pensare che tutte le risposte al disagio lavorativo debbano arrivare dalle aziende, né possiamo attribuire loro ogni responsabilità. Spesso i manager si trovano a stretti tra Scilla e Cariddi: da un lato, i mercati globali che chiedono performance sempre più alte, dall’altro, i lavoratori che chiedono maggiore riconoscimento, benessere e significato nel lavoro. Molti manager non sono preparati ad affrontare questa sfida, e le imprese dovrebbero investire nella formazione delle competenze relazionali ed emotive. Ma la tensione tra ciò che il mercato chiede e ciò che le persone si aspettano è una sfida difficile da conciliare, e non può essere scaricata interamente sulle aziende. Il problema è più ampio e coinvolge carenze strutturali nel nostro sistema sociale e istituzionale. Molti cittadini cominciano a non percepire più lo Stato come un interlocutore efficace, e si rivolgono alle aziende per soddisfare bisogni che dovrebbero invece essere gestiti dal settore pubblico. Le aziende vengono spesso viste come l’unica ancora di salvezza. Tuttavia, anche loro hanno limiti strutturali e non possono sostituirsi allo Stato. Un esempio chiaro è quello della previdenza: si può incentivare la pensione integrativa aziendale, ma se in futuro l’INPS dovesse trovarsi in crisi, nessuna integrazione aziendale potrà colmare quel vuoto.

Tutto ciò si riflette anche nel modo in cui le persone vivono il loro lavoro. È come se stessero guidando un’auto con il freno a mano tirato: si muovono, ma con fatica, solo spingendo molto sull’acceleratore. Le persone non si rifiutano di lavorare, ma non mettono più nulla di sé in quello che fanno. Questo è molto diverso rispetto a decenni fa, quando il disagio lavorativo si traduceva in proteste collettive, scioperi e mobilitazioni. Oggi, la reazione è più individuale, silenziosa e frammentata. Non più un conflitto contro il sistema, ma un ritiro personale, un’assenza di sé che, paradossalmente, diventa la cifra del malessere contemporaneo. In definitiva, la trasformazione del lavoro richiede un cambiamento sistemico. È necessario trovare un nuovo equilibrio tra responsabilità pubblica, capacità organizzativa e partecipazione individuale.

 

Riguardo al tema dell’importanza strategica della formazione, quanto questa può bastare per rispondere alle trasformazioni del lavoro contemporaneo? E su quali altri fronti dovremmo investire per costruire un sistema più equo, inclusivo e sostenibile?

Paolo Iacci: Oggi, la formazione non può più essere pensata come una fase iniziale e limitata alla scuola o alla formazione professionale. È fondamentale che la formazione diventi un processo continuo, che prosegua durante la vita lavorativa e, in alcuni casi, anche oltre. La rigidità della divisione della vita tra formazione, lavoro e riposo non è più sostenibile: questi momenti devono sovrapporsi e dialogare tra loro. La formazione permanente, anche dopo l’entrata nel mondo del lavoro, diventa quindi centrale, ma deve essere accompagnata da un modello lavorativo più flessibile, in cui sia possibile, per esempio, integrare lavoro e riposo in età più avanzata attraverso formule come il part-time o nuove modalità contrattuali.

Questa necessità è resa ancora più urgente da due fenomeni strutturali: l’invecchiamento della popolazione e la denatalità. Se vogliamo che le persone lavorino più a lungo, e in futuro sarà inevitabile, dobbiamo sapere che non potranno sostenere gli stessi ritmi di chi ha trent’anni di meno. La transizione verso un’economia della longevità richiede non solo una continua evoluzione della formazione, ma anche un ripensamento delle forme di impiego e della regolamentazione del lavoro. In Paesi come il Regno Unito, ad esempio, modelli più agili come contratti part-time, occupazioni non continuative e altre forme contrattuali meno rigide hanno aumentato la partecipazione al lavoro. In Italia, invece, la regolamentazione del lavoro fatica a stare al passo con le esigenze reali delle persone.

Sebbene molte aziende stiano evolvendo, sviluppando una cultura manageriale più inclusiva e investendo nella formazione continua, come detto prima la soluzione a questi cambiamenti non può essere affidata solo alle imprese. Il vero “grande assente”, oggi, è l’intervento pubblico dello Stato come regista, come garante di servizi, come promotore di alleanze tra pubblico e privato. Prendiamo, ad esempio, la questione abitativa nelle grandi città: non possiamo chiedere alle aziende di risolverla. Così come una formazione ricorrente, capillare, accessibile, non può essere lasciata alla sola buona volontà delle imprese. È necessaria una regia collettiva, in cui il pubblico giochi un ruolo attivo e propositivo. Le aziende possono fare molto, ma senza politiche pubbliche adeguate avranno sempre le armi spuntate.

 

Nel capitolo finale di Smetto quando voglio, lei sottolinea l’importanza di rimettere l’essere umano al centro, in un contesto in cui la tecnologia avanza a velocità impressionante. Con l’intelligenza artificiale che si diffonde rapidamente, quale ruolo vedrà l’alleanza tra tecnologia e umanesimo nelle trasformazioni future? 

Paolo Iacci: Il nodo cruciale, come ho cercato di evidenziare nel libro, non riguarda solo il lavoro in sé, ma la direzione che sta prendendo la nostra società. Viviamo in un’epoca in cui la tecnologia si sviluppa velocemente, mentre l’umanità, intesa come consapevolezza e capacità di riflessione, fatica a stare al passo. Questo squilibrio rischia di generare effetti profondi, non solo economici, ma esistenziali. Le trasformazioni che abbiamo osservato, come la crisi del lavoro insoddisfacente e la crisi del patto psicologico, sono sintomi di un bisogno più grande: quello di rimettere la persona al centro, non più come semplice risorsa, ma come essere umano con i suoi limiti, le sue aspirazioni e le sue complessità. Serve una nuova alleanza tra umanesimo e tecnologia, in cui la seconda non schiacci il primo, ma lo potenzi. E per farlo serve uno sforzo collettivo: educativo, culturale, politico. Se le aziende oggi inseguono i lavoratori – mentre prima era il contrario – è perché i lavoratori non vogliono più essere solo forza lavoro, ma persone. E questo, prima ancora che un cambiamento organizzativo, è una rivoluzione antropologica. Sta a noi decidere se vogliamo accompagnarla, o subirla.

L’intelligenza artificiale rappresenta poi una rivoluzione profonda, ma non deve essere temuta. Dobbiamo essere aperti al cambiamento, imparare a conoscere queste tecnologie e ad usarle, ma con una direzione chiara, mantenendo sempre come obiettivo la salvaguardia dell’umano: la felicità dell’uomo, intesa come realizzazione della propria identità più profonda. È un pensiero antico, da Socrate alle grandi tradizioni orientali, ma oggi più che mai attuale: la felicità non è in ciò che abbiamo, ma ciò che siamo. Questo è il nostro orizzonte, la nostra stella polare. E anche nell’impresa, anche nella formazione manageriale, non possiamo dimenticarlo.

Già oggi si prova a formare i capi non solo sulle competenze tecniche, ma sulla capacità di ascolto, di empatia, di cura. Ma è un percorso lungo. Non si cambia un mindset in un giorno. Proprio per questo, dobbiamo tornare a Socrate, al suo “so di non sapere”, alla consapevolezza dei propri limiti. Solo così potremo affrontare l’incertezza senza paura, e ritrovare, anche nel lavoro, l’amore per la conoscenza, per l’altro, per ciò che rende davvero umana la nostra esperienza. E forse, da lì, ricominciare a cercare la felicità. Individuale e collettiva.

Scritto da
Viola Andreolli

Studia presso la Facoltà di Scienze Politiche e Relazioni Internazionali dell’Università di Bologna. Ha collaborato con diverse riviste occupandosi di politica estera, diritti sociali e turismo culturale. Ha partecipato al corso 2024 della scuola di formazione “Traiettorie. Scuola di lettura del presente”.

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