Scritto da Andrea Romano, Davide Sardo
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“Chi parla male pensa male, e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti”. Citazione facile, dal famoso Palombella Rossa di Nanni Moretti, per non scomodare i filosofi che nell’ultimo secolo si sono interrogati sul rapporto tra pensiero e parola. Le parole sono importanti, perché in parte è vero che il pensiero si concretizza solo quando si fa parola. Bisogna trovare le parole giuste, perché l’accuratezza del linguaggio è il più importante tra i limitati strumenti a nostra disposizione per superare le barriere della comunicazione tra esseri umani.
Se poi si supera la dimensione dialogica, e ci si concentra sulla dimensione collettiva, quella del discorso pubblico, quella del lessico comunemente accettato ed utilizzato, la correlazione tra parole e concetti si arricchisce di nuovi significati. La scelta di una parola, invece di un’altra, per riferirsi apparentemente allo stesso concetto, o allo stesso fenomeno, finisce per influenzare la percezione collettiva dell’oggetto descritto.
È incontestabile, insomma, che la scelta delle parole abbia un contenuto politico. Non semplicemente nel senso della comunicazione politica, ma anche al livello, logicamente precedente, della costruzione di un’interpretazione collettiva della realtà, di un punto di vista dalla quale osservarla, e di un orizzonte verso il quale tendere. Non si tratta, anche qui, ovviamente, di un’intuizione originale: anche chi (come chi scrive) non ha familiarità con la copiosa dottrina politologica in materia, probabilmente conosce almeno le bellissime pagine di George Orwell sulla Neolingua.
Con il progressivo sgretolarsi dei grandi campi di aggregazione ideologica che avevano presidiato il dibattito pubblico in Italia nella seconda metà del secolo scorso, ma anche a causa dell’evoluzione dei mezzi e dei destinatari stessi della comunicazione politica, il lessico è stato nell’ultimo ventennio un interessante campo di battaglia politica. Una battaglia tutt’altro che sopita, e che anzi negli ultimi mesi è stata rilanciata, in modo esplicito, da Matteo Salvini.
Linguaggio e ideologia, mezzo e contenuto della comunicazione, sono difficili da separare nel messaggio leghista, in un ambito in cui le scelte lessicali hanno avuto l’obiettivo di sdoganare progressivamente pensieri ancora percepiti come proibiti. In queste righe, invece di tentare di fornire un inquadramento complessivo della dinamica accennata, si cercherà di concentrarsi su due espressioni: “clandestino” e “razzista”.
Si tratterà, qui, di spiegare come l’utilizzo che il leader leghista (e, a rimorchio, la maggior parte dei mezzi di comunicazione) fanno di queste espressioni sia logicamente ingiustificata, nel senso che comporta un’erronea definizione delle dinamiche che dovrebbero essere descritte dai termini in questione. La strategia del rifiuto del dialogo nei confronti di argomenti (anche giustamente) ritenuti impronunciabili ha, infatti, mostrato ancora una volta la sua debolezza di fronte al cedimento del tessuto valoriale collettivo: l’arma della logica è probabilmente più difficile da usare (soprattutto nel contesto dei botta e risposta televisivi o da social network), ma resta, certamente, la più appuntita.
Prima di dedicarci a “clandestini” e “razzisti”, merita però un cenno anche la parola “immigrazione”. Non tanto per quanto riguarda la sua (complicatissima) definizione, quanto circa il suo uso nel linguaggio comune, con riferimento a qualsiasi questione che coinvolga comunità etniche di origine straniera. È un utile esempio di come l’uso di una parola apparentemente innocua, ma concettualmente sbagliata, possa alterare il significato stesso di un fenomeno. L’utilizzo dell’etichetta “immigrazione” per quanto riguarda problematiche che coinvolgono non solo tipologie di migranti completamente diverse, sia dal punto di vista sociale che dal punto di vista giuridico, ma anche gruppi eterogenei di cittadini e stranieri, di individui che hanno viaggiato migliaia di chilometri e di persone nate sul territorio italiano, conduce necessariamente a uno sviamento di prospettiva con riguardo all’analisi della questione, e alle possibili soluzioni fornite di fronte ai problemi che essa pone.
Sulla parola “clandestini”, Matteo Salvini si è intestato una vera e propria battaglia: perché chiamare “migrante” chi entra o risiede irregolarmente sul territorio italiano? L’argomento sembra a prima vista convincente, ma ad uno sguardo più attento risulta non solo fallace, ma a malapena un argomento.
In effetti, occorre da un lato ricordare che il riconoscimento del diritto di asilo, così come della qualifica di rifugiato, ha natura accertativa e non costituiva, in quanto attinente ad un diritto soggettivo perfetto (ciò determina, tra l’altro, la competenza sulla relativa domanda in capo al giudice ordinario, cfr. Cass, S.U., 1999 n. 907). Dall’altro lato, e conseguentemente, va segnalata l’esistenza di un vero e proprio diritto soggettivo all’ingresso nel territorio dello stato come elemento inseparabile dal diritto di asilo di cui all’art. 10, comma 2 Cost., a meno di non voler privare la norma costituzionale di qualsiasi effettività. Un tale assunto peraltro risulta estendibile alla qualifica dello status di rifugiato (diversa e meno ampia dell’asilo, in quanto comprensiva del fondato timore di essere perseguitato), come conferma la dottrina prevalente: ciò in quanto, l’ammissione nel territorio è configurabile quale il risvolto positivo dell’obbligo di non-refoulement, dal momento che deve logicamente corrispondere ad un divieto di respingimento dello straniero una presa in carico da parte dello Stato (cfr. da ultimo Mastromartino, Il diritto d’asilo, Torino, 2012, p. 237 ss.).
Del resto, a conferma di quanto detto, possono enumerarsi molteplici fonti di natura interna, europea ed internazionale che sottopongono ad una disciplina particolare l’ingresso nel territorio da parte di chi intende presentare domanda di asilo o di protezione internazionale. Si prenda, ad esempio, il considerando n. 9 della direttiva “rimpatri”, che stabilisce come il soggiorno dello straniero non può essere considerato irregolare dal momento in cui viene presentata la domanda di protezione internazionale fino alla decisione in merito a tale domanda; peraltro, la Corte di Giustizia ha esplicitamente escluso l’applicabilità di tale direttiva ai richiedenti protezione internazionale rilevando che lo straniero “ha diritto a rimanere nel territorio dello Stato membro di cui trattasi fino a che la sua domanda sia stata respinta in primo grado e non può quindi essere considerato in «soggiorno irregolare» ai sensi della direttiva 2008/115, mirando quest’ultima ad allontanarlo da tale territorio” (sentenza Arslan, par. 48).
Inoltre, l’art. 31 della Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati impedisce agli Stati contraenti di adottare sanzioni nei confronti degli stranieri che entrano in modo irregolare nello stato qualora presentino domanda di protezione internazionale; si tratta, peraltro, di un principio che è stato recepito nel testo unico sull’immigrazione: infatti, nel caso di presentazione di protezione internazionale è sospeso il procedimento penale eventualmente avviato per il reato di ingresso e soggiorno irregolare (si tratta del c.d. reato di clandestinità che, occorre ricordare, è tuttora in vigore, nonostante sia ormai prossimo alla scadenza il termine di 18 mesi entro cui il governo è stato chiamato ad abrogare tale reato; cfr. art. 1, co. 2, lett. b) della legge n. 67/2014). Ancora: la Corte costituzionale ha affermato che l’espulsione dello straniero subisce una “efficacia paralizzante” nel caso di domanda di asilo o di protezione internazionale (Corte cost., sent. n. 5/2004).
In sostanza, appare evidente come sia in base a considerazioni di carattere teorico che secondo precise disposizioni normative di carattere interno, europeo ed internazionale, la definizione di “clandestino” non sia applicabile né allo straniero che presenta in Italia domanda di asilo o di protezione internazionale né tantomeno – stante la natura dichiarativa e non costitutiva del riconoscimento della protezione internazionale – allo straniero che transita nel territorio italiano al fine di presentare domanda in un paese diverso da quello in cui ha fatto il primo ingresso in Europa.
Per quanto riguarda, invece, l’uso del termine “razzista”, il discorso sarebbe, in generale, persino più complesso. Esula dalle pretese di queste righe, tuttavia, quella di fornire una definizione generale della parola “razzista”, come quella di stabilire se, e fino a che punto, l’immaginario e il linguaggio leghista possano definirsi “razzisti”. Si cercherà, invece, di dimostrare l’inconsistenza dei fondamenti fattuali (e giuridici) dell’uso che Matteo Salvini comunemente fa della parola “razzista”, nel tentativo di ribaltare l’accusa spesso rivolta nei suoi confronti, e denunciando un preteso comportamento discriminatorio adottato dal Governo italiano nei confronti dei propri cittadini. Il Governo (o, a seconda dei casi, lo Stato) sarebbe, insomma, “razzista” nei confronti degli italiani (o “razzista al contrario”, come se ci fosse un “razzismo al dritto”), in quanto si farebbe garante, nei confronti dei cittadini stranieri (o dei rifugiati, o degli appartenenti a minoranze etniche) di diritti che non sono garantiti alla generalità dei cittadini italiani. Al netto della difficoltà di ricondurre entro dei binari logici delle affermazioni tanto generiche, è tuttavia possibile dimostrare il contrario, e cioè non solo che l’accesso per i cittadini stranieri (e, in particolare, per i richiedenti asilo) ad un insieme di diritti comunque più limitato di quelli garantiti ai cittadini italiani è sottoposto a numerose e complesse condizioni giuridiche, ma anche che l’effettività della tutela di tali diritti è, nella pratica, notevolmente limitata.
Riflettere sui diritti degli stranieri significa confrontarsi con una realtà normativa estremamente complessa, dovuta ad un alto tasso di pluralizzazione di status e diritti, e caratterizzata da un intreccio di fonti europee, internazionali ed interne. Peraltro, la stessa distinzione tra rifugiati e “migranti economici”, ormai in uso nel dibattito politico senza la dovuta dose di problematicità, meriterebbe una attenta riflessione (cfr. ad es. qui). Per l’ampiezza del tema, conviene tuttavia circoscrivere l’attenzione alla disciplina dell’asilo nel cui ambito la tutela dei diritti fondamentali, tanto dei richiedenti asilo e protezione internazionale, quanto dei suoi titolari e beneficiari, è estremamente problematica, nonostante l’enunciazione costituzionale particolarmente ampia (art. 10, comma 3 Cost.) e l’esistenza di una organica disciplina sulla protezione internazionale di matrice europea. Senza alcuna pretesa di esaustività possono quindi evidenziarsi alcuni fattori di condizionamento nell’accesso ai diritti nelle diverse fasi della richiesta di asilo e di protezione internazionale.
E’ evidente come nella fase dell’accoglienza – che si estende dal momento della protezione al suo riconoscimento – la tutela dei diritti sia particolarmente carente. Numerosi documenti realizzati sia in sede istituzionale (cfr. Senato e Anci e al.) sia dagli enti del terzo settore più rappresentativi (cfr. ASGI) segnalano da tempo una insufficiente risposta del nostro ordinamento, tanto sul piano del diritto positivo che della prassi. I problemi più rilevanti investono innanzitutto il profilo del sovraffollamento delle strutture di accoglienza, così come la disomogenea erogazione dei servizi di assistenza nel territorio nazionale a seconda della struttura ospitante. Ma si può inoltre citare il trattenimento di rifugiati e richiedenti asilo nei CIE, dovuto tanto alle maglie più larghe della disciplina nazionale rispetto a quella europea (cfr. qui) quanto a determinate prassi (cfr. qui) nonché alla carenza di informazioni fornite dalle autorità competenti nei confronti dei soggetti interessati (secondo il rapporto del Senato sui CIE: “L’informazione che ricevono rispetto ai diritti e alle possibilità di realizzare un percorso in Italia non sono sufficienti a evitare il trattenimento nel CIE”, p. 28).
In particolare, tali carenze nella garanzia dei diritti nella fase dell’accoglienza trovano riscontro anche nella giurisprudenza straniera e sovranazionale: in un momento in cui il tema dei trasferimenti verso l’Italia da altri paesi europei ha assunto una particolare centralità mediatica, occorre ricordare che diversi Tribunali amministrativi tedeschi hanno in passato negato il trasferimento verso l’Italia – Stato competente nei relativi casi ai sensi della Convenzione di Dublino – di richiedenti protezione internazionale per le condizioni di accoglienza del nostro sistema (cfr. Scaccia, 2013). Ad una simile conclusione, peraltro, è giunta di recente la Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha parlato di “seri dubbi” circa gli standard di accoglienza italiani (caso Tarakhel c. Svizzera, spec. par. 115).
Se poi ci si sposta nella fase dell’avvenuto riconoscimento dello status, la garanzia dei diritti dei beneficiari dell’asilo e della protezione internazionale deve scontrarsi con gravi carenze nella effettività della tutela: nel momento in cui hanno termine i servizi di accoglienza per richiedenti asilo, infatti, è stata documentata una inadeguatezza dei concreti strumenti di inserimento sociale di cui dispone il nostro ordinamento, tale da determinare situazioni di grave marginalità sociale (cfr. ancora qui). In particolare, la difficoltà dell’iscrizione anagrafica (che rileva anche per i richiedenti) e di accedere al coacervo di diritti civili e sociali che da essa conseguono costituisce uno dei profili più allarmanti (cfr. qui).
Infine, per richiamare uno dei limiti più rilevanti della normativa europea, una volta riconosciuta la protezione internazionale persistono dei condizionamenti particolarmente significativi per quanto riguarda la libertà di circolazione e soggiorno e l’accesso al lavoro in uno Stato membro dell’area Schengen diverso da quello che ha riconosciuto la protezione: infatti, attualmente, solo dopo cinque anni dal momento in cui viene presentata la richiesta, lo straniero può ottenere il permesso di soggiorno di lungo periodo che consente di svolgere un’attività lavorativa – per un periodo di tempo superiore ai 90 giorni – in un altro Stato in cui si applica la Convenzione di Schengen. Il limite della mobilità lavorativa sembra incidere in modo significativo sul malfunzionamento della Convenzione di Dublino dal momento che costituisce un incentivo ulteriore a richiedere la protezione nel paese che offre maggiori garanzie occupazionali, anche in relazione alle competenze lavorative del richiedente asilo. Una riduzione del termine per l’ottenimento del permesso di soggiorno di lungo periodo, pertanto, appare una proposta più che ragionevole (cfr. al riguardo la proposta del Meijers Committee).
In conclusione, il campo di battaglia lessicale va preso sul serio. La battaglia, però, va condotta sullo stesso terreno sul quale la sfida viene lanciata, e cioè quello della politica. Non bisogna credere, insomma, che il tema possa essere ridotto ad una questione di strategia comunicativa, ed affidato alle discutibili cure di qualche professionista del settore. Né si tratta, semplicemente, di barricarsi dietro a una lista di parole proibite, se non si è in grado di arginare la penetrazione dei concetti di cui quelle parole sono portatrici. Per riportare, consapevolmente, la politica in prima fila nella battaglia per il significato delle parole occorre, da un lato, riconoscere la complessità della realtà, senza limitarsi agli slogan televisivi o da social network. D’altra parte, pur nella consapevolezza di tale complessità, occorre produrre una visione complessiva del futuro, costruire un pensiero forte che inserisca i significati accettati e quelli rifiutati in un quadro coerente e dotato di una propria stabilità logica e assiologica. Il rischio, altrimenti, è quello di finire a correggere l’ortografia delle parole scelte dagli altri.