Liberalismo e repubblicanesimo tra diritti, conflitto e comunità
- 23 Giugno 2024

Liberalismo e repubblicanesimo tra diritti, conflitto e comunità

Scritto da Nadia Urbinati

13 minuti di lettura

Reading Time: 13 minutes

Parlando di liberalismo, occorre svolgere una riflessione preliminare: si tende oggi a identificare il neoliberalismo con il liberalismo. Si tratta di un’identificazione sbagliata, che ha – o può avere – ricadute negative sull’ordine politico democratico. Propongo quindi un’opera di pulizia concettuale. Il liberalismo ha una ricchezza di implicazioni e di contenuti che va al di là dei rapporti di mercato e della libertà di arricchirsi. John Rawls parlava di “liberalismo politico” volendolo tenere distinto da quello economico. Hans Kelsen sostenne molto prima di Rawls che non si può identificare il liberalismo col liberalismo economico; come scrisse nel 1945, una «democrazia senza opinione pubblica è una contraddizione in termini. In quanto l’opinione pubblica può sorgere dove sono garantite la libertà di pensiero, la libertà di parola, di stampa e di religione, la democrazia coincide con il liberalismo politico, sebbene non coincida necessariamente con quello economico». La democrazia senza liberalismo è un ossimoro. Liberalismo e democrazia dovevano procedere insieme: la democrazia presume dissenso, diritto di parola e di associazione; dal canto suo il liberalismo ha coinciso fin dal suo sorgere con la libertà di parola e di opinione. Una democrazia è solida quando i cittadini hanno la certezza di non essere perseguitati o repressi per le loro idee qualora queste ultime non siano quelle che la maggioranza condivide; essi devono avere la libertà, individuale e collettiva, di associarsi per cercare di scalzare la maggioranza che governa e proporre una maggioranza diversa. I diritti civili di libertà sono ciò che la cultura liberale ha implicato almeno dal tempo di John Locke e della Rivoluzione inglese. Ed è quanto la democrazia esige, anche perché senza libertà di discutere e dissentire pubblicamente l’opposizione politica non sarebbe possibile.

Chiarita questa distinzione preliminare tra neoliberismo e liberalismo, vediamo di chiarire il concetto “liberalismo”. Questo nasce come filosofia politica nel corso della Rivoluzione inglese, con Locke come suo maggiore teorico e il movimento dei Levellers come prima espressione di movimento politico collettivo che chiese il diritto di voto per poter eleggere rappresentanti in parlamento. Né Locke né i Levellers si sono mai definiti “liberali”. Il liberalismo come ideologia nasce dopo la Rivoluzione francese, al tempo dell’imperialismo napoleonico, come reazione a esso e rivendicazione di governi costituzionali e diritti civili non dipendenti dall’arbitrio di chi detiene il potere. Madame de Staël e Benjamin Constant sono i due primi consapevoli teorici del liberalismo nella forma più prossima a quella a noi familiare. Il liberalismo emerge dunque dalla filosofia dei diritti naturali e in funzione anti-assolutista, con l’obiettivo di limitare il potere politico, quello della corona, in primo luogo, nel nome di un bene che sta prima e che è vulnerabile: la persona singola. Nel Seicento, contro il potere arbitrario e dispotico di Carlo II, il movimento che oggi chiamiamo liberale si impose con la proposta di un mutamento di regime: sovranità condivisa del parlamento con la monarchia, però con un parlamento eletto e con la monarchia come rappresentante della Nazione. Non è pertanto necessariamente corretto affermare, come si sente spesso dire, che il liberalismo è antipolitico; il liberalismo non ha contestato la dimensione politica in sé, bensì un’organizzazione del potere di comando che non prevede la limitazione, che non si fonda nel consenso di chi deve obbedire alle decisioni ma che rende i soggetti totalmente dipendenti dalla volontà di chi detiene il potere. Ecco perché il liberalismo sostiene che il governo sia fondamentalmente funzionale alla protezione di alcuni diritti fondamentali (ovvero naturali e, per noi, umani). Quel che viene a cadere con il liberalismo è l’idea della superiorità di valore della politica e del potere politico; il liberalismo non crede che la politica sia la sfera di vita e di azione dove cercare la realizzazione umana o del cittadino – un’idea che appartiene alla tradizione aristotelica e a quella repubblicana classica. Questo spiega perché il liberalismo pensa – con Constant ad esempio – alla felicità o alla realizzazione umana come dimensioni collocate nella sfera privata della vita, che quindi non coincidono con la partecipazione diretta alla politica. Qui si inscrive la distinzione, ideologica, tra libertà degli antichi e dei moderni – ideologica, nel senso che è costruita in relazione a un fine non conoscitivo ma pratico. Ciò spiega perché, se si vuol individuare l’alter del liberalismo, ci si deve rivolgere al repubblicanesimo, soprattutto se questo viene considerato nella sua dimensione etica e civica o come cultura della virtù, non semplicemente come ordine costituzionale.

Ora, il liberalismo, proprio perché è nato nella lotta contro il potere politico illimitato, è stato caratterizzato come un’ideologia diffidente verso il potere, anche quando questo potere ha la legittimità del consenso da parte di obbedisce alla legge, ovvero quando i sudditi sono cittadini e quindi coautori delle leggi, benché in forma indiretta. Questo tema diviene centrale nell’Ottocento – scrisse per esempio John Stuart Mill che anche qualora la volontà popolare e la decisione dei rappresentanti del popolo coincidessero, il potere sarebbe comunque esercitato da pochi non da tutti o dai molti. La rappresentanza implica una distanza tra il proporre e il decidere che, sebbene consenta ai cittadini di valutare l’operato dei governanti, di criticarli ed eventualmente di opporsi, li rende comunque soggetti della volontà di un gruppo che non coincide con il tutto. È sufficiente la sovranità popolare per vanificare il timore liberale dell’arbitrio? Dopo Jean-Jacques Rousseau e la Rivoluzione francese, in effetti, la concezione della legittimità politica viene coniugata come teoria della sovranità popolare: il potere non è più il volere arbitrario e insindacabile del monarca, ma corrisponde al volere del popolo. Alcuni pensavano – e ancora oggi molti lo pensano, a giudicare dalle strane idee di riforma della Costituzione che circolano, con la Presidente del Consiglio che sostiene di voler essere più “democratica” di oggi perché eletta direttamente dal popolo – che il popolo avesse sempre ragione. Vox populi vox dei. Perché preoccuparsi di limitare il potere se tra chi fa la legge e chi l’obbedisce non c’è distinzione? I liberali ben disposti verso la democrazia – alcuni di loro con un retroterra simpatetico rispetto alle idee repubblicane, come Mill o Tocqueville – iniziavano dunque a pensare che, anche quando il consenso fosse stato un potere autoimposto e legittimato dal comune volere e sentire, sarebbe stato comunque gestito dai pochi, esposto quindi a rischi di manipolazione. Del resto, votare in plebiscito, come sembra proporre la nostra Presidente del Consiglio, implica farlo dopo una campagna elettorale, e quindi tanta manipolazione e retorica. E anche votare per mandare a casa una maggioranza – per quanto cruciale – non basta a trasformare lo Stato in un esercizio di potere collettivo. Sarebbe un inganno sostenere che, siccome si ha il diritto di voto, con le elezioni il popolo parla e governa.

Il liberalismo ha ragione quando ci incoraggia a non fidarci mai completamente del potere, anche quando questo è definito dal principio di maggioranza (cioè è limitato) e derivato dal suffragio universale: come sosteneva Kelsen, la democrazia, soprattutto quando è basata sulle elezioni e non sul voto diretto in assemblea, deve essere sorretta da una dialettica permanente tra maggioranza e opposizione, sia nella società che nelle istituzioni. La democrazia è autonomia politica e ha un fondamento anarchico: significa non voler essere governati da nessun capo; questo è il principio dell’autogoverno, non quello di poter votare il proprio capo. Il problema è allora come sia possibile preservare l’autonomia in un sistema sociale e all’interno di un ordine istituzionale nel quale fatalmente ci ritroviamo a dover obbedire anche a quelle leggi in cui non ci riconosciamo; insomma, come conciliare la democrazia con questa inevitabile condizione di eteronomia che è irriducibile nell’ordine politico? Ciò è possibile a condizione di poter sempre cambiare la maggioranza che governa, secondo regole che ci diamo, come quelle del suffragio universale e della rappresentanza elettorale, e di poter sempre confidare sui diritti di espressione, di parola e di associazione. Insomma, è impossibile un ordine legale e politico nel quale noi obbediamo sempre e solo a leggi che ci diamo e che condividiamo. La discrepanza tra autonomia ed eteronomia è permanente e risolta provvisoriamente con il diritto di cambiare maggioranze e di condizionare le maggioranze con un’opposizione libera e forte, nonché una società civile non supina ma in grado di esprimere dissenso. La possibilità di autocrazia non è mai superata, anzi risiede dentro la democrazia stessa, la quale, proprio per questo, non è un sistema armonico e senza conflitti. A questo punto si comprende la rilevanza del liberalismo, che non è necessariamente una forma di antipolitica ma piuttosto una filosofia che pone il problema del limite del potere politico.

Da qui occorre procedere per comprendere la differenza del liberalismo dal neoliberismo. Nel quadro storico-teorico brevemente tratteggiato, emerge l’importanza della figura dell’individuo proprietario, la soggettività moderna animata dal sentimento dell’autonomia sociale e politica. Sappiamo che il padre della filosofia liberale, Locke, ha giustificato la proprietà con il lavoro, ovvero attraverso la responsabilità di prenderci cura dei nostri bisogni, con la nostra fatica, la nostra intelligenza e la nostra inventiva. Legando il diritto di proprietà all’impegno personale e alla fatica, Locke aveva tuttavia ammesso che non tutto è “naturale” (in questo caso pre-storico, nel senso in cui nella Genesi si apprende che Dio nel paradiso terrestre condannò gli umani alla fatica del lavoro). Con l’invenzione del denaro – un sistema di equivalenza artificiale o non naturale – gli umani potevano non solo evitare i problemi connessi al baratto (non poter razionalizzare e pensare in termini di futuro) ma anche raggirare il rapporto diretto tra lavoro e proprietà – raggirare in effetti la dannazione della fatica. Questo, per esempio, pagando degli altri per farli lavorare, cioè mettendo a contratto la forza del lavoro, una forza naturale mercificata. Di qui a legittimare la possibilità di espansione illimitata della ricchezza e, all’opposto, della condizione lavorativa come quasi una condanna eterna – cosa possibile con la concentrazione di capitale nelle mani di pochi – il passo è breve.

Il liberalismo ha il seguente problema endogeno: mentre solleva la questione della limitazione del potere politico e fornisce importanti strumenti normativi e costituzionali per realizzarla, presuppone nel frattempo che il potere economico in generale non incorra nello stesso problema di arbitrio e assolutismo; prima di tutto perché il potere economico non dispone del potere coercitivo che possiede lo Stato (ci si può licenziare da un padrone autoritario ma come farlo con lo Stato?), poi perché esso resta un potere esposto al rischio del mercato. La ricchezza, pensano infatti i liberali, non gode mai di una condizione di stabilità come invece lo Stato – per esempio quello monarchico del tempo di Locke. Per i liberali, dunque, è anche evidente che il potere economico dei moderni non è come quello dei nobili che era basato su codici di appartenenza per nascita, piuttosto che sull’impegno personale. La società borghese è individualista nel senso che postula che ogni persona possa cambiare la propria condizione di vita (parliamo oggi di scala sociale) – i diritti naturali alla proprietà, alla vita e alla libertà teorizzati da Locke sanciscono questa condizione. Tuttavia, nelle società capitalistiche i sistemi politici fondati sui diritti civili hanno reso la dimensione privata ed economica potente al punto che non sono tanto gli individui i protagonisti, quanto le compagnie multinazionali e le istituzioni finanziarie internazionali. La sfera economica ha acquisito una capacità di fuoco che va ben al di là dell’intraprendenza individuale a cui pensava Locke. Non si tratta più semplicemente del singolo che si costruisce la propria casa e la propria attività commerciale, ma di un sistema di capitalismo globale che incorpora l’attività dei soggetti individuali e in qualche caso nega lo stesso diritto di proprietà. Le compagnie monopolistiche globali sono esse stesse strutture normative con gestione oligarchica e nessun controllo democratico. Siamo oggi ben al di là del capitalismo industriale a base familiare, come era quello della FIAT degli Agnelli. Le multinazionali non sono proprietà di nessuno, non hanno radici in un qualche Paese e cercano anche di avere una rappresentanza ufficiale nei paradisi fiscali; riescono quindi a sfuggire a ogni obbligo fiscale nei Paesi da dove estraggono il loro profitto. La loro deresponsabilizzazione le mette al di sopra della legge e le rende una sfida alla sovranità degli Stati.

Di fronte a questo nuovo sistema di potere economico il liberalismo classico ha il fiato corto. Dirsi liberali oggi comporta quasi un’ammissione di contraddizione: se la concezione dei diritti individuali di libertà non si arma di raffinati strumenti di difesa, anche rispetto a queste nuove forme di assolutismo conglomerato globale, si dimostra debole e, soprattutto, non credibile. Una delle ragioni è che tra gli esiti del nuovo assolutismo delle concentrazioni di potere economico e finanziario vi è la messa a repentaglio dello Stato di diritto e delle democrazie costituzionali, che, infatti, mostrano di avere un potere limitato e perfino non sovrano. In questo modo le comunità politiche tutte – non solo determinati gruppi sociali, ma le stesse sovranità statuali – sono più deboli e, quel che è peggio, inducono i propri cittadini a pensarsi impotenti, nonostante i diritti politici. La debolezza di capacità di intervento dello Stato in materie fiscali e di politica economica può infatti indurre i cittadini a perdere la fiducia nelle istituzioni e nella loro stessa forza aggregativa e politica. “A che cosa serve votare?” – questa sembra essere la domanda che trapela dalla secessione, ormai di massa, dai seggi elettorali in quasi tutte le democrazie mature. La stessa organizzazione sembra poter fare poco: anche se i lavoratori e i cittadini meno abbienti si uniscono per organizzare forme di contestazione e rivolgere petizioni, a chi può interessare tutto questo, visto che il gestore dell’azienda alla quale rivolgono le loro richieste non ha il potere di condizionare la direzione, che sta probabilmente in un altro Paese ed è pronta a rispondere alle contestazioni dei lavoratori portando altrove la propria attività? Le armi della forza organizzata, che all’inizio dell’industrializzazione erano fondamentali per i lavoratori, sembrano avere molta meno presa proprio per la libertà che le aziende hanno di muovere i propri capitali e i propri investimenti dove vogliono, completamente fuori del controllo degli Stati. La stessa libertà di movimento di cui godono le aziende è ben superiore a quella goduta dai lavoratori.

Se oggi ci troviamo di fronte a una società disgregata è anche perché l’arma dell’associazionismo è meno potente; le tradizionali modalità di aggregazione hanno meno effetto. Certo, vediamo sempre più spesso forme incandescenti di reazione, ma si tratta per lo più di fuochi fatui, che non producono alcun incendio e che vengono sedati con facilità. Tra le conseguenze di questa ineguale forza sociale delle componenti economiche vi è una regressione delle democrazie a forme meno democratiche e con minori possibilità di correggere le disuguaglianze. E la secessione dai seggi elettorali di metà degli aventi diritto di voto è un segno di quanto poco potente sia considerata oggi la rappresentata politica.

Questa è la debolezza del liberalismo che ci dovrebbe interessare oggi. È evidente che i poteri da limitare e bilanciare non sono tanto o solo quelli politici – che comunque devono essere monitorati e limitati – ma quelli socio-economici. Eppure, ancora troppo poco interesse desta la questione sociale. Sia gli scienziati politici che gli opinionisti si concentrano sulle questioni politiche e sui partiti, molto meno sulle intermediazioni sociali e sulla loro ineguale capacità di influenzare la decisione politica e la rappresentanza. Bisognerebbe tornare a guardare verso il basso, o meglio fuori della sfera politica; e per fare questo l’armamentario teorico del liberalismo è il meno adeguato. Non si può cercare nel liberalismo una modalità di pensare l’aggregazione sociale, anche perché il liberalismo ha sempre ritenuto queste forme di coesione – dai sindacati alle “comunità” – come una violazione dei diritti individuali e della libertà negativa. È certamente vero che la comunità può essere anti-liberale, nel senso peggiorativo per cui nel nome del bene del tutto vengono sacrificati determinati diritti individuali. Quindi, il concetto di coesione richiede di essere specificato adeguatamente, ovvero, non per chiedere che lo Stato rivendichi una coesione etico-nazionale pena lo sfaldamento della società, ma per rivendicare una coesione civile fondata sul rispetto delle libertà e dell’uguaglianza dei cittadini. Ritornando a Jürgen Habermas, quello che servirebbe oggi, anche in relazione ai dibattiti sulla coesione europea, è un patriottismo costituzionale – non quindi una coesione intesa come omogeneità religiosa o etnico-nazionalista.

Tornando al liberalismo, esso costituisce sicuramente una fortezza per la protezione degli individui dal potere politico, soprattutto dall’arbitrio della volontà politica; ma bisogna parimenti riconoscere che, dentro a questa fortezza fatta di liberi individui, emergono le condizioni per nuove forme di dominio che il liberalismo non ha la forza di contenere. Se esso non vuole essere identificato col neoliberismo e vuole forgiare nuovi strumenti di difesa del valore della persona, è necessario dunque che metta in piedi un armamentario teorico simile a quello che ha dispiegato negli anni Cinquanta, all’inizio della Guerra fredda, contro il totalitarismo. In tal senso, a mio avviso, è proprio al repubblicanesimo che bisogna guardare; questa corrente di pensiero fornisce due elementi che possono essere decisivi al liberalismo e che quest’ultimo non possiede: l’idea di libertà come non-dominazione e l’idea che la cittadinanza sia acquisto di potere, non solo difesa dal potere. Il potere statale oggi è fragile – soprattutto rispetto ai potentati economici – anche perché c’è un forte scollamento tra il testo costituzionale e il modo in cui effettivamente si opera attraverso e rispetto alle istituzioni.

Andando alle radici teoriche e storiche del repubblicanesimo, non vi troviamo soltanto l’idea dei “buoni ordini”, o di norme costituzionali che incanalino e limitino i poteri dello Stato; troviamo anche una teoria del conflitto come permanente condizione di libertà. Quest’ultima idea manca al liberalismo, che si concentra sull’individualità e sulla sua protezione. Il liberalismo ha incanalato il conflitto di matrice repubblicana nelle istituzioni – attraverso la divisione dei poteri, i check and balance, le carte dei diritti. Gabriele Pedullà, in un libro su Machiavelli in Tumult. The Discourses on Livy and the Origins of Political Conflictualism (Cambridge University Press 2018), ha mostrato come in origine il repubblicanesimo – quello sorto nelle repubbliche italiane dell’umanesimo – abbia fornito l’idea per cui il conflitto è la condizione della stabilità delle istituzioni e della libertà stessa. Se oggi i potenti – non solo le maggioranze di governo, ma anche gli attori della società economia globale – sentissero il peso e la forza dei concorrenti, cioè di quei molti che sono gli individui dissociati o marginalizzati, avrebbero probabilmente più timore. L’idea del timore che devono sentire tutti coloro che hanno potere (anche quello economico, così come quello politico) è alla base della stabilità nella libertà, la condizione per evitare forme di monopolio, vecchie e nuove. Oggi, invece, si tende a rifuggire dalla conflittualità, in una ricerca costante e ossessiva del consenso; eppure, il dissenso e l’antagonismo hanno un valore di stabilizzazione dinamica del sistema quando avvengono all’interno di norme condivise e ben congegnate. Mentre la tradizione socialista riconosce la sede della conflittualità in una direttrice unica – la faglia di classe che divide operai e capitalisti – con la tradizione repubblicana è possibile pensare a forme diverse di conflittualità: oggi gli agenti della rivolta sociale contro il dominio possono essere gli immigrati, domani possono essere gli studenti, o altre minoranze sottorappresentate e senza potere di parola. Questo non può che rinnovare e tenere viva la nostra democrazia, radicandola nella libertà, civile e politica – poiché non c’è dissenso e opposizione se non esiste la sicurezza delle libertà individuali.

La sfida oggi sembra dunque consistere nel pensare a una forma sana di conflittualità sociale. Si menzionava prima l’idea attualissima per cui un aggregato sociale (un gruppo, una nazione, un’etnia) può diventare dispotico, sia al suo interno sia rispetto all’esterno, verso gli altri gruppi sociali o comunità. In questo contesto di diffidenza verso le differenze, il liberalismo può tornare nuovamente importante, alimentando la richiesta di tolleranza – come successo in passato con il pluralismo religioso tra chiese e denominazioni cristiane. Sono state le guerre di religione a far crescere l’idea che i diversi possono convivere e coesistere. La tolleranza, concetto fondamentale per Locke, ha a che fare da un lato col pluralismo sociale, dall’altro con l’espressione pubblica, libera, delle differenze. Questa lettura oggi sembra non bastare più. La tolleranza classica, fondata sulla privatizzazione delle fedi religiose, deve essere affiancata a un progetto diverso, che vuole l’intervento della politica, non la sua neutralizzazione: le diverse etnie, le diverse religioni e le diverse subculture che abitano le società democratiche contemporanee devono avere l’opportunità di esprimersi in pubblico, e la loro presenza non deve essere semplicemente tollerata, ma riconosciuta pubblicamente. Abbiamo assistito di recente alla polemica dei nazionalisti contro la scuola pubblica con sede alla periferia di Milano che ha deciso di sospendere l’attività scolastica nel giorno di conclusione del Ramadan. Questa intolleranza al fatto che le differenze non si limitino a convivere ignorate in mezzo alla maggioranza cattolica è un problema di libertà. Chi è cittadino e quindi è riconosciuto formalmente (cioè ha diritto di voto) deve anche poter esibire pubblicamente la propria identità culturale senza reazioni di discriminazione o addirittura di repressione. Le società multietniche oggi si trovano di fronte a una domanda di riconoscimento più che di tolleranza: la richiesta di essere visti come socialmente e culturalmente esistenti, parte integrante della comunità. Riconoscimento e tolleranza sono dunque ciò che regola il conflitto al livello sociale. Non riguardano il rapporto con lo Stato, la cui azione non deve certo consistere nel tollerare (o meno) i propri cittadini, ma riguarda l’applicazione e il godimento dei diritti. Nel sistema liberal-costituzionale la tolleranza è una virtù delle persone, dei cittadini: si tratta di una pratica molto difficile, ma senza la quale la democrazia non può sussistere – senza la quale è solo la maggioranza ad avere potere. In conclusione, il liberalismo dei diritti di libertà e il repubblicanesimo come riconoscimento della dimensione conflittuale che la libertà politica comporta sono le due tradizioni di cui la democrazia ha oggi bisogno per rinvigorire la cittadinanza. Non sono certamente gli unici ausili, se è vero che la sofferenza sociale è economica e non solo culturale. Ma ci permettono di porre in discussione un ordine di potere non inclusivo, che, soprattutto, cerca di identificare il dissenso come un disturbo e la contestazione come una disfunzione.

Scritto da
Nadia Urbinati

Professoressa ordinaria di teoria politica alla Columbia University di New York. Collabora con diversi quotidiani nazionali. Tra le sue numerose pubblicazioni: “Democrazia afascista” (con Gabriele Pedullà, Feltrinelli 2024), “L’ipocrisia virtuosa” (il Mulino 2023), “Democracy Disfigured. Opinion, Truth, and the People” (Harvard University Press 2021, tradotto in italiano da Egea / Bocconi University Press), “Pochi contro molti. Il conflitto politico nel XXI secolo” (Laterza 2020), “Me The People. How Populism Transforms Democracy” (Harvard University Press 2019, tradotto in italiano da il Mulino) e “Liberi e uguali. Contro l’ideologia individualista” (Laterza 2012).

Pandora Rivista esiste grazie a te. Sostienila!

Se pensi che questo e altri articoli di Pandora Rivista affrontino argomenti interessanti e propongano approfondimenti di qualità, forse potresti pensare di sostenere il nostro progetto, che esiste grazie ai suoi lettori e ai giovani redattori che lo animano. Il modo più semplice è abbonarsi alla rivista cartacea e ai contenuti online Pandora+, è anche possibile regalare l’abbonamento. Grazie!

Abbonati ora

Seguici