Recensione a: Antonio Zoppetti, Lo tsunami degli anglicismi. Gli effetti collaterali della globalizzazione linguistica, goWare, Firenze 2023, pp. 292, 18 euro (scheda libro)
Scritto da Marta Sommella
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Antonio Zoppetti apre il suo volume Lo tsunami degli anglicismi elogiando il cambiamento linguistico: «Le lingue cambiano insieme alle società, alle culture e alla storia, ed è un bene che lo facciano, altrimenti non sarebbero vive» (p. 9). Tuttavia, l’autore fa notare che troppo spesso accade che parole inglesi si insinuino nel lessico dell’italiano per descrivere la realtà dei nostri giorni, come se tutto ciò che è nuovo si possa – o meglio – si debba esprimere solo in inglese crudo. Infatti, sempre più di frequente si assiste all’innesto di anglicismi come se fossero tecnicismi necessari, mentre nella lingua di provenienza sono semplicemente parole comuni. Di conseguenza, la lingua utilizzata in diversi ambiti è un “itanglese” dalla «struttura sintattica italiana infarcita di sostantivi in inglese» (p. 14) – la cui “capitale” è senza dubbio Milano – che rappresenta un impoverimento espressivo dell’italiano piuttosto che un arricchimento.
A riprova di ciò, Zoppetti porta all’attenzione del lettore esempi di cui la cronaca italiana è oltremodo ricca: «Gli spacciatori sono pusher, le prostitute escort, gli assassini killer…» (p. 16), sollevando il tema centrale del testo che ruota intorno alla presunta incapacità di reperire e impiegare equivalenti italiani in modo naturale in determinati contesti. Pertanto, lo studioso si chiede – e chiede al lettore – che cosa accadrà dell’italiano se non sarà più in grado di coniare nuove parole non ricorrendo all’inglese, come dimostrato dalla crescente percentuale di termini inglesi registrata in risorse lessicografiche più che affidabili, come il Devoto Oli, di cui Zoppetti seguì personalmente il riversamento in CD-ROM nel 1990.
Una delle cause che hanno portato all’ingente contaminazione linguistica messa in luce dall’autore è stata senza dubbio la scomparsa del latino e del greco da cui un tempo si attingeva per creare nuove parole, oggi provenienti prevalentemente dall’anglosfera. I giornali influenzano il nostro lessico più di quanto si creda e in essi si rileva un elevatissimo numero di anglicismi, soprattutto in Rete. Proprio in merito al lessico, di grande interesse risulta il modello di Tullio De Mauro «che lo paragonava a una sfera dove il nucleo, al centro, contiene le parole di base, quelle di altissima frequenza che formano più del 90% delle nostre conversazioni. Sono poco più di 7.000 parole che tutti usano e conoscono, persino i bambini, e nel 1980 lo studioso le aveva raccolte nel primo Vocabolario di base della nostra lingua» (pp. 24-25). Attorno alle parole di base ci sono poi le parole “comuni” – così classificate da De Mauro – ovvero quelle che una persona di media cultura dovrebbe conoscere, dal momento che si possono incontrare quotidianamente, e che stimava fossero circa 30.000. Infine – attorno a queste – ci sono i tecnicismi in uso in determinati settori, che costituiscono la parte più esterna della sfera lessicale.
In considerazione di questi dati, Zoppetti afferma che, sorprendentemente, «l’inglese sta penetrando ovunque» (p. 25). La sinteticità dell’inglese è la sua vera forza e ciò emerge dalle riflessioni dell’autore che – nel primo capitolo del libro – si sofferma sull’indiscutibile capacità della lingua inglese di esprimere concetti con un numero di parole nettamente minore rispetto all’italiano, o attraverso espressioni più brevi e immediate. A tal proposito, Gian Luigi Beccaria ha rilevato – in accordo con il linguista danese Otto Jespersen – una sorta di “comodità lessicale” che spesso riduce tutto addirittura a semplici monosillabi. La sinteticità dell’inglese costituisce l’alibi perfetto per i giornalisti italiani che – a differenza dei loro colleghi francesi e spagnoli – si sentono legittimati a ricorrere all’inglese soprattutto nella formulazione di titoli concisi. L’autore però afferma che la verità è che la stampa italiana attinge dall’inglese per ricercare un effetto in cui entrano in gioco motivazioni diverse dalla sinteticità, che hanno molto a che fare con scelte sociologiche e psicologiche, oltre che linguistiche.
A testimonianza di ciò, Zoppetti fornisce esempi che dimostrano che la sinteticità non sempre appartiene all’inglese, bensì deriva da «decurtazioni tipiche italiane, per cui parliamo di basket invece di basketball, ma in inglese significa cesto e non si usa per indicare la pallacanestro. Anche social vuol dire sociale e non piattaforme sociali (social network), i reality show non sono reality (cioè, realtà), e quando diciamo spending al posto di spending review, in inglese stiamo dicendo l’esatto contrario di ciò che vorremmo intendere, e cioè la spesa, e non la sua revisione. Per non parlare di comodi monosillabi assenti nell’inglese come golf (che è uno sport e non un maglioncino o pullover), slip o pile, veri e propri “itanglismi”» (p. 27). Inoltre, un’ulteriore conferma del fatto che l’inglese non venga preferito per questioni legate alla sua brevità risiede nella scelta di termini come misunderstanding o leader, più lunghi di “equivoco” e “capo” o “guida”.
Nel seguito del testo, lo studioso ricorda l’attenzione con cui un tempo i traduttori trattavano la lingua italiana, negli ambiti e nei settori più disparati, fumetti compresi. Si pensi alla rivista Linus che negli anni Sessanta ha avuto il grande merito di diffondere in Italia le strisce di Charles Schulz, portatrici di usi e costumi d’oltreoceano come l’intramontabile “dolcetto o scherzetto” halloweeniano reso con “o la borsa o la vita”. Simili scelte traduttologiche tenevano decisamente alla lontana gli anglicismi, e non per pigrizia. Infatti – nella visione di Zoppetti – non è certo la pigrizia a impedirci di contrastare la rapida diffusione del morbus anglicus rispetto al quale, già negli anni Ottanta, Arrigo Castellani aveva espresso preoccupazione.
Nel ricercare le cause che conducono al ricorso all’inglese vale la pena tenere presente che «le parole non sono “neutre” e non possiedono solo il significato, cioè la denotazione che indica qualcosa. Possiedono anche una connotazione, cioè la capacità evocativa che va oltre il significato» (p. 35). Nello specifico, si ricorre all’inglese compiendo un atto di snobismo, nel tentativo di esprimere la propria appartenenza a una classe sociale elevata, colta. Contrariamente, l’impiego della lingua italiana porta con sé un senso di inferiorità nato nel Novecento, secolo in cui in Italia il sogno americano ha cominciato a prendere forma, alimentato da una propaganda ben costruita attraverso cinema, televisione, radio, pubblicità. Inoltre, bisogna ricordare che l’unificazione del parlato italiano è recente ed è avvenuta inizialmente attraverso la stampa e più tardi mediante la televisione. E si noti che il mito americano faceva i conti anche con posizioni antiamericaniste, adottate non solo da fascisti, ma anche da chi si opponeva al regime come Alberto Moravia, uno dei principali portavoce dell’antiamericanismo, che era stato a New York dove si era immerso nella società statunitense da lui aspramente criticata in quanto fortemente spersonalizzante, come da sue dichiarazioni presenti in articoli di giornale pubblicati tra il 1935 e il 1937.
Negli anni Quaranta, si assistette a una vera e propria guerra ai barbarismi iniziata con una tassa sulle insegne commerciali in lingua straniera e finita con gli elenchi dei sostitutivi ai forestierismi stilati dalla Reale Accademia d’Italia. L’autore ricorda che lo sforzo del fascismo fu significativo soprattutto nel doppiaggio di film stranieri e contribuì all’unificazione della pronuncia dell’italiano che si consolidò sulla dizione alla romana in caso di difformità con il toscano letterario. Con l’arrivo degli americani – mentre l’italiano veniva sempre più soggiogato dalla lingua dominante – si creavano contaminazioni interessanti tra la lingua dei soldati e i dialetti. Basti pensare al caso di due capolavori cinematografici: Sciuscià di Vittorio De Sica (1946) e Paisà di Roberto Rossellini (1946). Il termine sciuscià, da shoeshine, designava i ragazzini che si aggiravano tra le macerie della città proponendosi ai soldati come lustrascarpe; paisà era invece una delle parole che i militari avevano appreso e che impiegavano di frequente.
Rispetto alla media dei neologismi in inglese importati dai primi del Novecento sino agli anni Quaranta (nell’ordine della sessantina di voci per decennio) si sono rilevati aumenti in ogni decennio a seguire, fino ai giorni nostri: «E così dopo il jazz è arrivato il rock ’n roll, e sono spuntati i jukebox, i flipper e gli hula-hoop, mentre dopo l’epoca di Flash Gordon, Superman o Mandrake anche i fumetti si diffondevano sempre più capillarmente con i loro smack, gulp, wow e slurp» (p. 78). Nonostante il Sessantotto italiano si sia posto in antitesi rispetto al sogno americano, condannandone il capitalismo, il consumismo e l’imperialismo, anche il piccolo schermo è andato via via americanizzandosi: film e telefilm americani hanno nutrito generazioni affamate di produzioni leggere e senza pretese, facendo nascere in loro il desiderio di stili di vita e prodotti, costruendo il mito di un Paese migliore dove migrare per realizzarsi, un po’ come accadde più tardi, negli anni Novanta, in Albania, dove l’Italia costituiva la meta desiderata, conosciuta grazie a un ripetitore installato in Montenegro che consentiva la visione di programmi televisivi italiani.
Silvio Berlusconi aveva contribuito all’americanizzazione delle televisioni commerciali e della politica, ricalcando il modello di Kennedy della politica-spettacolo, attraverso i faccia a faccia stile combattimento sul ring e gli spot elettorali più emotivi che informativi, oggi trasmessi persino in diretta streaming in Rete e sui canali social, dove talvolta raggiungono anche milioni di visualizzazioni e condivisioni grazie al potere degli hashtag esercitato da orde di follower. L’americanizzazione linguistica è ormai senza freni: termini come slide, road map, Jobs Act e tutti gli altri Act (Food Act, Student Act, Digital Act, Green Act, Family Act…) e ancora premiership, leadership, governance, bipartisan, establishment si sono inseriti in veste di anglicismi istituzionali in un lessico sempre più oscuro ai non addetti ai lavori. Lievemente più trasparente è il lessico del cinema e della televisione, seppur ricchissimo di termini “intraducibili”: «un film d’azione è diventato un action movie, il fantastico è fantasy, l’orrore horror, la fantascienza science fiction, lo spionaggio spy-story, un dramma è chiamato drama, una commedia nera black comedy e più in generale si parla sempre più spesso di comedy invece di commedia, alla faccia di quella di Dante. Lo stesso si può dire della televisione, costituita sempre più da format statunitensi e da palinsesti fatti di sitcom, talkshow, reality…» (p. 111).
La globalizzazione economica ha implicato la globalizzazione culturale generando più ondate di omologazione a migliaia di chilometri di distanza; una globalizzazione che sembrerebbe coincidere con l’americanizzazione del mondo, un tempo “imperialismo americano”, che prima ancora era il colonialismo che ha visto l’esportazione e l’imposizione della propria lingua e cultura su popoli considerati incivili e inferiori. In tal senso, l’inglese non è una lingua neutra, bensì è la lingua madre dei popoli dominanti che si vuole imporre a tutto il globo nella sua versione stereotipata e internazionale chiamata anche globalese o globish. Contemporaneamente, assistiamo ogni anno alla morte di circa venticinque lingue secondo i calcoli del linguista tunisino Claude Hagège. Un’anglicizzazione imponente si rileva anche nelle università di tutto il mondo, nel tentativo di attirare studenti. Significativo è il caso dell’Olanda, in cui «il 90% degli abitanti conoscono l’inglese e quasi la metà dei corsi universitari sono tenuti in inglese, ma si arriva addirittura all’85% nel caso dei master e della formazione post-universitaria» (p. 166), a scapito dell’idioma locale. Analogamente, sembra che fare divulgazione in italiano stia diventando sempre più difficoltoso, come segnala da tempo la scienziata Maria Luisa Villa, motivo per cui, nella visione di Luca Serianni, si ha l’impressione che l’italiano sia destinato a diventare un dialetto adatto alla comunicazione quotidiana e alla poesia.
Citando Wittgenstein, Antonio Zoppetti spinge il lettore a riflettere su come e quanto i limiti del linguaggio (o dei linguaggi) che si conoscono costituiscano anche i limiti del proprio mondo e della realtà che si è in grado di descrivere. Un secolo addietro, Humboldt aveva colto il forte legame tra il linguaggio che si possiede e il proprio modo di pensare, un’idea che si ritrova anche in 1984 di Orwell in cui la dittatura vuole promuovere una neolingua funzionale al controllo del pensiero. Nel contrastare l’idea secondo cui l’inglese sia la lingua della scienza e che lo sia sempre stata, lo studioso richiama alla memoria la rivoluzione linguistica galileiana che ha dato vita per la prima volta a un modello di prosa scientifica chiaro e preciso, che ha fatto dell’italiano la lingua della scienza, impiegando termini come pendolo, bilancetta, cannocchiale, momento, forza, gravità, impeto, resistenza, potenza, rifrazione. Nonostante ciò, anche la diffusione del coronavirus ha ulteriormente anglicizzato la lingua italiana, in cui si sono infiltrate espressioni – apparentemente insostituibili – come lockdown, fake news, green pass, smart working, hub vaccinali e covid hospital, trend, screening, recovery fund, no vax e no mask.
Contrariamente all’Accademia della Crusca, l’Académie Française e la Real Academia Española creano sostitutivi ufficiali alle parole inglesi e le promuovono attraverso efficaci campagne mediatiche, attuando una valida strategia di contrasto all’ampia diffusione di anglicismi. Più avanti nel testo, Zoppetti fa notare che mentre in Europa l’inglese si insegna dalle elementari, nel Regno Unito e negli Stati Uniti si fa troppo poco per promuovere la conoscenza delle lingue straniere nelle scuole e nelle università. In considerazione di ciò, l’Europa dovrebbe difendere maggiormente il plurilinguismo che ancora la caratterizza, sostenendo associazioni come la GEM+ di Bruxelles (per una Governanza Europea Multilingue), o l’OEP (Osservatorio Europeo del Plurilinguismo) in Francia. Una soluzione all’imposizione dell’inglese in tutto il mondo si potrebbe trovare nell’adottare l’esperanto che, estremamente semplice dal punto di vista morfosintattico, nonché fonologico, nel giro di un paio di generazioni potrebbe divenire la lingua franca del futuro. Tuttavia, tale soluzione si scontrerebbe con gli interessi di chi sfrutta la propria posizione dominante dal punto di vista linguistico e quindi culturale, sebbene possa risultare efficace nell’arginare lo tsunami anglicus da cui ogni lingua sta venendo inesorabilmente travolta.