Scritto da Rebecca Paraciani
7 minuti di lettura
Quando si parla di amianto o di asbesto, si fa riferimento ad un insieme di minerali costituiti da sottilissime fibre che garantiscono alta resistenza ed estrema flessibilità. Oltre ad essere indistruttibile, è dotato di ottimo assorbimento acustico e isolamento termico ed è in grado di resistere all’usura e all’abrasione[1].
L’amianto vede il proprio momento di gloria durante il periodo dell’industrializzazione europea e nord americana, grazie alle sue molteplici potenzialità, che lo rendono adattabile a diversi scopi, e alla facilità con cui è possibile trovarlo in natura. È presente in circa 3000 prodotti, nella maggior parte dei quali si trova miscelato con il cemento.
Il cemento-amianto, noto come Eternit, brevettato dal Ludwig Hatschek nel 1902, consiste nella commistione di acqua, cemento e fibre di amianto. Questa miscela andava a creare un impasto che poteva essere laminato in forma di lastre piane o ondulate o trafilato per la costruzione di tubi e manufatti. Il brevetto dell’austriaco Hatschek fu il punto di partenza di società indipendenti in Belgio, Inghilterra e Svizzera. È il 6 gennaio 1906 quando l’ingegnere Adolfo Mazza decide di avviare la produzione di cemento-amianto anche in Italia, acquistando il marchio Eternit e fondando la “Società Anonima Eternit-Pietra Artificiale”.
Sono i primi anni del 1900 e sulla scena internazionale ad utilizzare la “miracolosa” invenzione di Ludwig sono l’Eternit dell’Europa continentale, la Turner & Newall inglese e l’americana Johns & Manville. Nell’Europa continentale le famiglie imprenditoriali che decidono il destino dell’amianto sono quattro: la famiglia Hatschek, gli svizzeri Schmidheiny, la famiglia francese dei Cuvelier e quella belga, la famiglia Emsens-De Cartier[2].
Le ricchezze che possono derivare dal cemento-amianto sono paragonabili a quelle che porta il petrolio: le materie prime necessarie alla produzione sono disponibili in grandi quantità e a prezzi molto bassi. La potenziale floridità di questo mercato ha portato alla nascita di collaborazioni tra i maggiori produttori. Le imprese nel campo della lavorazione dell’Eternit si sono date mutuo sostegno, impegnandosi a rispettare particolari condizioni di vendita per sospendere la concorrenza, impedire la discesa dei prezzi e garantirsi un continuo profitto.
Nel 1928 nasce la SAIAC: società associata dell’industria del cemento amianto, come strumento di mutuo aiuto, attraverso l’annullamento della concorrenza e il controllo sui prezzi in regime di oligopolio. Diventerà anche un utile apparato per controllare il sapere scientifico e le informazioni in tema di amianto. Lo scopo era infatti quello di gestire le conoscenze scientifiche che si stavano accumulando, evitando che raggiungessero l’opinione pubblica. Una delle modalità scelte per perseguire lo scopo è stata quella di anticiparne i risultati.
Una crescente consapevolezza sull’amianto
Il primo di questi studi risale al 1943, commissionato dalla Turner & Newall. L’80% dei topi testati sviluppa, in tre anni dal contatto con la polvere d’amianto, un cancro ai polmoni. Per tutelare l’immagine delle aziende e continuare a garantirsi la lavorazione dell’amianto, questo cartello di mutuo aiuto decise di non divulgarli. Verranno resi noti solamente negli anni Novanta. Un altro studio censurato dalla SAIAC risale al 1946, condotto dal dottor Hardy, medico del dipartimento di medicina preventiva della Harvard Medical School, il quale aveva dimostrato la relazione tra l’utilizzo dell’amianto e l’insorgere del cancro alla pleura. Anche questa volta fu proibita la pubblicazione dei risultati. Sempre l’industria inglese, nel 1954, commissiona uno studio epidemiologico che dimostra che il rischio medio di ammalarsi di asbestosi[3] tra uomini che lavorano a contatto con l’amianto da oltre venti anni, risulti dieci volte maggiore rispetto a quello della popolazione generale[4]. Altro episodio che risale allo stesso anno coinvolge il dottor Knox, medico del lavoro della Turner, il quale commissionò al dottor Doll un ulteriore studio epidemiologico sugli effetti dell’amianto tra i lavoratori della fabbrica. Considerando 113 lavoratori esposti professionalmente all’amianto per almeno 20 anni, egli notò una ricorrenza di cancro polmonare di 10 volte maggiore rispetto a quella della popolazione non esposta[5]. Anche questa volta, per salvaguardare gli sporchi profitti della lobby, sarebbe stato opportuno non divulgare gli esiti della ricerca, ma Doll si oppose pubblicando sul “British journal of industrial medicine” gli sconcertanti risultati.
Sul finire degli anni Cinquanta, alla 2° Conferenza Internazionale sulla Pneumoconiosi, si parla per la prima volta di mesotelioma, un tumore letale, e di come questo tipo di tumore sia correlato all’amianto[6]. Il tempo di latenza di questo cancro può raggiungere i quarant’anni. Gli studiosi Wagner e Webster riportano i risultati di una loro indagine condotta in Sud Africa, in un’area nella quale veniva estratta e lavorata la crocidolite[7]. Su trentatré casi di mesotelioma, in solo otto di essi era chiaramente rintracciabile un’esposizione ad amianto che poteva essere ricondotta al lavoro; nei rimanenti casi l’esposizione era riconducibile all’aver vissuto nei pressi dell’area considerata. Per la prima volta il mesotelioma diventa tema di discussione all’interno di una situazione pubblica, considerato non più come rara conseguenza dell’asbestosi, ma come causato dall’esposizione ad amianto, che non è vista più come potenziale conseguenza lavorativa, ma che può colpire anche soggetti che vivono vicino alle zone contaminate. Nel 1964, un altro incontro risulterà importante per la conoscenza delle ombre che l’amianto porta con sé. Irving Selikoff, pietra miliare della battaglia civile contro i pericoli dell’amianto, presiede presso l’Accademia di Scienze di New York una tavola rotonda sui mesoteliomi. In questa occasione di confronto anche un italiano, Vigliani, presentò i risultati di una ricerca condotta sui lavoratori indennizzati per asbestosi tra il 1943 e il 1965 nelle province di Torino e Alessandria. Tra i soggetti affetti di asbestosi, i casi di mesotelioma e carcinoma polmonare erano di gran lunga superiori che trai soggetti affetti da silicosi[8] (patologia respiratoria che insorge a seguito dell’inalazione di silicio).
Sono però gli anni del dopoguerra e la ricostruzione che li caratterizza sembra non poter procedere senza amianto, che infatti registrerà, sino agli anni Settanta, un’impennata nei consumi. Le fabbriche decidono di mettere in atto strategie di cronicizzazione, adottando piccoli accorgimenti adatti a garantirsi una progressione più lenta delle malattie asbesto correlate e che, quindi, destasse meno scalpore nell’opinione pubblica[9]. Vengono individuate all’interno degli stabilimenti zone dove il pericolo di esposizione è presente e zone dove invece “non vi è alcun rischio”. Viene detto che è possibile abbattere le polveri d’amianto con l’implementazione di apposite ventole. Non vengono informati i lavoratori, non vengono spostati in settori meno nocivi i lavoratori già ammalati, non vengono disposti per i lavoratori controlli medici periodici.
In questo stato di crescente consapevolezza, le industrie si ingegnano per invertire il flusso di informazioni a proprio vantaggio. Vincolante è l’incontro del 1971 a Londra, durante la Conferenza Internazionale degli organismi di informazione sull’amianto. Lo scopo è uno: veicolare le informazioni in modo tale da difendere l’amianto, mettendo in atto strategie comuni per continuare ad incrementare i propri profitti. A questo scopo organizzano due tipi di azioni, positive e difensive. Le azioni positive consistono nella creazione di campagne pubblicitarie, documentari, film e materiale informativo che cercano di far immaginare un mondo senza amianto. Campagne come «dove saremmo senza l’amianto?» oppure «cosa faremmo senza l’amianto?» mettono in luce tutte le qualità del miracoloso materiale, facendo leva sul suo essere naturale, sulle sue capacità ignifughe e ancora sul suo indispensabile utilizzo per la ricostruzione, per il funzionamento dei trasporti pubblici e privati. Le azioni difensive consistono nel difendere l’asbesto con le unghie e con i denti. Non è sufficiente mettere in luce le sue potenzialità straordinarie, occorre ridurre al minimo le informazioni relative alla sua tossicità. Il modo per farlo è spiegato da Howard, segretario della conferenza del 1971: «occorre situare nella giusta prospettiva le informazioni sulla salute, ogni volta che vengono trasmesse al pubblico in maniera fuorviante»[10].
Regolamentare l’utilizzo dell’amianto
Questo stato di allarme è il punto di partenza per la fondazione dell’Associazione Internazionale per l’Amianto (AIA), che nasce per propagandare la difesa del materiale, anche con l’aiuto di uomini di scienza, sindacalisti ed esperti in comunicazione, cooptati al servizio degli interessi dei colossi.
Sul finire degli anni Settanta la Comunità Europea manifesta la necessità di regolamentare l’utilizzo dell’amianto, applicando ai sacchi delle etichette informative sui rischi correlati all’utilizzo della polvere che potrebbero però rappresentare il crollo industriale dell’amianto. L’AIA propone un’etichetta dai toni più miti: non deve apparire la parola “cancro” e deve affermare che sia l’uso improprio del materiale ad arrecare danni alla salute e non quello generico[11]. Nonostante queste fossero le premesse, la scritta che appare sui sacchi dello stabilimento inglese Turner & Newall è diversa: “Respirare polvere di amianto può provocare cancro e altre malattie letali”. Durante il processo Eternit sono stati riportati agli atti quattro verbali, altamente rappresentativi della natura e degli scopi degli incontri dell’AIA a seguito della ammissione dell’industria inglese. Viste le pressioni del tema amianto-salute e considerati anche gli effetti sulla domanda a seguito della pubblicizzazione fatta dal Regno Unito, l’AIA individua una comoda via d’uscita: riconoscere la nocività dell’abuso d’amianto, facendo credere che il pericolo consista nel lavorarlo senza le precauzioni. L’amianto è all’apice dell’utilizzo e abbandonare il mercato costituirebbe perdite esagerate. La soluzione è quella di introdurre la clausola della lavorazione sicura e controllata e, nel frattempo, trovare e sviluppare materiali sostituitivi, verso i quali transitare in maniera progressiva per continuare a garantirsi l’oligopolio e i derivanti profitti.
Le informazioni faticano a rimanere. I sindacati si stanno informando, i lavoratori e le lavoratrici dell’Eternit di Napoli e di Casale Monferrato si stanno mobilitando e a partire dalla cittadina piemontese ha inizio anche la prima richiesta di giustizia formale nei confronti dei dirigenti dello stabilimento di Casale[12].
La decisione di fare fallire la Eternit italiana fu presa a Zurigo nel 1983. Il 23 dicembre il Gruppo Eternit Italiano è stato lasciato fallire. L’industria dell’amianto cercò di isolare quanto più possibile le decisioni dei dirigenti italiani e di tutelarsi da eventuali azioni penali successive, offrendo ai curatori del fallimento 5,5 miliardi di lire da ripartire tra il gruppo Eternit di Casale Monferrato e di Napoli, a patto che rinunciassero ad una serie di azioni legali, tra cui la richiesta di danni amianto correlati. Gli obiettivi sono chiari: mantenere il caso a livello locale, evitare qualsiasi riferimento al gruppo svizzero e minimizzare il danno economico, oltre che di immagine. Le strategie, portate avanti per oltre dieci anni attraverso sofisticate tecniche di comunicazione, non riescono a mettere a tacere Casale Monferrato, cittadina dove la mobilitazione collettiva non si arresta di fronte alla chiusura dello stabilimento e nemmeno davanti ai primi risultati sul piano della giustizia formale, diventando un pilastro della lotta all’amianto e gettando le basi per il maxi processo Eternit che riunisce 2897 parti offese e 6932 parti civili contro il belga Louis De Cartier e lo svizzero Stephan Schmidheiny, responsabili delle scelte degli stabilimenti della società Eternit SPA.
[1] Carnevale F. e Chellin E., Amianto. Miracoli, virtù, vizi, Firenze, Tosca, 1992.
[2] Altopiedi R. e Panelli S., Il grande processo, «Quaderno di storia contemporanea ISRAL», n 51/2012, pp.17-77.
[3] L’asbestosi è una malattia che interviene a seguito dell’inalazione prolungata di fibre di asbesto, che vanno ad ostacolare lo scorrere del flusso d’aria nei polmoni. È una patologia cronica e progressiva che impedisce la regolare respirazione. Ha un periodo di latenza di almeno 15 anni dalla prima esposizione all’amianto.
[4] Rossi G., Amianto. Processo alle fabbriche della morte, Milano, Melampo, 2012.
[5] Doll R., Morality from lung cancer in asbestos workers, in «British Journal of Industrial Medicine», n 12/1955, pp. 81-87.
[6] Il mesotelioma è un tipo di tumore che nasce dalle cellule del mesotelio, che è il tessute che riveste la parete interna del torace, dell’addome e lo spazio attorno al cuore. La tipologia di mesotelioma più diffusa (3 casi su 4) è il mesotelioma pleurico, che contamina la cavità toracica.
[7] Si tratta di una varietà di asbesto, noto come “amianto azzurro”, considerato tra i tipi più pericolosi di amianto.
[8] Di Amato A., La responsabilità penale da amianto, Milano, Giuffrè, 2003.
[9] Carnevale F. e Chellin E., Op. cit.
[10] Rossi G., Amianto. Processo alle fabbriche della morte, Milano, Melampo, 2012.
[11] Altopiedi R., Azione collettiva e costruzione della vittimizzazione. Il caso Eternit, «Studi sulla questione criminale», 1/2013, pp. 31-59.
[12] Nel 1981 venne avviata una causa civile contro l’Eternit di Casale Monferrato e l’INAIL che accertò la nocività ambientale presente in tutto lo stabilimento. Dal 1983 la pretura di Casale avviò un’indagine tesa ad accertare la responsabilità e la causa delle sempre più numerose morti tra i lavoratori e i cittadini di Casale Monferrato. La fase istruttoria durò dal 1984 al 1990 e si concluse con la condanna, nel 1993, di quattro dei quindici dirigenti della società italiana, accusati di omicidio colposo plurimo e lesioni colpose plurime aggravate.