Scritto da Federica Bessi
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La figura dell’archeologo cattura l’attenzione delle persone senza il minimo sforzo. Ciò avviene poiché, spesso, l’immaginario comune tratteggia tale professionista munito di cappello a tesa larga e di stivali in cuoio pronti a sfidare la pioggia e il fango: un vero e proprio Indiana Jones che si prepara a riportare alla luce strabilianti tesori sepolti. Un tale ritratto, senza dubbio affascinante, rischia tuttavia di eludere la sostanza di questa disciplina, molto più complessa di quanto il mito lasci credere.
Dell’archeologia potremmo dire, senza peccare di hỳbris, che faccia parte da sempre, o quasi, delle attività quotidiane degli esseri umani. La curiosità verso ciò che è appartenuto al passato ha infatti un’età ben più che secolare, ed è profondamente ancorata nel tempo: si pensi ai Greci e ai Romani, i primi di cui si ha notizia circa l’attenzione da loro rivolta a casuali scoperte provenienti dal sottosuolo, non ignorate ma spontaneamente poste sotto la lente dell’osservazione – ancora oggi alla base della ricerca archeologica – offrendo un esempio di metodo ante litteram che con il tempo si sarebbe affinato e potenziato.
Sembra un paradosso, ma non lo è: nulla è più costante e presente del passato. Custodito nella terra, esso rappresenta la radice che garantisce la sopravvivenza della nostra umanità. Ogni traccia materiale riportata alla luce e ogni rovina scavata permettono all’antichità di riprendere fiato e narrare così delle origini dell’umanità. Tuttavia, l’impatto con questi cosiddetti reperti spesso comporta confusione e difficoltà di interpretazione per via della parzialità con cui essi si presentano. E qui entra in gioco l’archeologia, che guarda nella profondità dell’oggetto o del monumento rinvenuto e attraverso la sua analisi si pone l’obbiettivo di ricostruire il contesto entro cui questi sono stati concepiti, realizzati, usati. Ecco che un anonimo frammento di ceramica, sporco di terra e dalla finitura ormai sbiadita, ha la possibilità di essere associato ad altri elementi a lui simili e rievocare così anfore che avevano come obiettivo quello di conservare antiche vivande. A partire da un capitello, si può aprire la strada verso la ricostruzione di imponenti e maestosi edifici che continuano a custodire l’eco di costumi e tradizioni di popoli ormai lontani nel tempo. Ogni scoperta, grande o piccola che sia, rappresenta un pezzo del puzzle della storia che l’archeologo vuole riassemblare. Consapevole dell’impossibilità di poter ricomporre un quadro completo della storia di epoche antiche, egli è comunque spinto ad avvicinarsi al disegno che maggiormente ne ricordi l’aspetto.
Attività quotidiane, conoscenze tecnologiche, tradizioni culturali e relazioni interpersonali proprie di contesti storici di cui ci restano solo notizie vaghe e misteriose possono rimanere impresse nella memoria umana solo attraverso la cura, la salvaguardia e la valorizzazione dei beni archeologici, loro ambasciatori. Queste tracce disseminate in tutto il mondo devono, dunque, ricevere il giusto trattamento poiché ciò che oggi è stato raggiunto deve la propria esistenza a una serie di avvenimenti narrati da fonti storiche e rappresentati da elementi materici sopravvissuti al fluire del tempo e alle intemperie del clima.
Le tracce archeologiche, dunque, hanno fatto la loro parte: arrivare, seppur a volte in condizioni precarie, fino ai giorni d’oggi. La società del presente ha l’obbligo morale di restituire loro la dignità che un tempo le contrassegnava, e fare sì che i loro sforzi non siano stati vani. Riconoscere il valore dell’archeologia è stato un primo passo verso la giusta direzione, a partire dal considerarla a tutti gli effetti una disciplina scientifica che si basa su un metodo di ricerca ben stabilito e rivolto a definire e inquadrare nel giusto tempo e spazio i manufatti dei popoli che il nostro pianeta ha ospitato. La stessa considerazione delle tracce materiali è mutata: strabilianti tesori e preziosi oggetti da collezione al giorno d’oggi vengono riconosciuti in primis come documenti storici dal forte potere comunicativo, tramite cui risalire a culture, tradizioni, modi di vivere che non fanno più parte del presente ma da cui esso ha tratto il suo nutrimento.
La possibilità di far vivere nuovamente antiche realtà ha trovato nel restauro un fedele alleato sin dall’Ottocento, quando vennero gettate le basi dell’attività nella sua concezione moderna: in particolare, quando iniziò a circolare l’idea di poter ricucire pezzi separati di storia attraverso la ricomposizione dell’unità strutturale di alzati architettonici un tempo maestosi e solenni. Contemporaneamente, si andava a definire una rinnovata concezione del bene archeologico, non semplice “cosa d’arte” ma testimonianza diretta del passato, verso cui l’uomo aveva l’obbligo morale di tutela e salvaguardia: ecco, dunque, che nel corso del Novecento vennero emanate sempre più norme per definire il concetto di valorizzazione di questi manufatti e l’approccio d’intervento da adottare.
Valorizzare significa come prima cosa migliorare la conoscenza su un bene culturale, bussola tramite cui orientare ogni decisione all’interno di un programma di ricerca, che solo in un secondo momento deve prendere in considerazione interventi che ne migliorino la fruizione e ne rafforzino il rapporto con il mondo esterno. In relazione a un manufatto tramandatoci dal passato, un buon piano di valorizzazione richiede come prima istanza il coinvolgimento di figure professionali capaci di formulare un progetto innanzitutto archeologico, che ne metta in evidenza la storicità.
Fino a qualche decennio fa la figura dell’archeologo non sempre veniva coinvolta nella progettazione di questi piani di tutela, soprattutto in relazione ad antichi edifici o ad elementi architettonici da risanare o restaurare. Architetti e restauratori erano quotidianamente chiamati a progettare operazioni su resti di strutture un tempo monumentali e definite, dove la materia veniva spesso trattata in un’ottica più “tecnica”, che tendeva a prevalere sulle istanze storiche. Si pensi al Novecento, il secolo del cemento armato, durante il quale un uso spropositato di materiale moderno ha portato a consistenti danni al patrimonio culturale mondiale. Emblema di questo modus operandi sono i lavori di restauro condotti attorno al Partenone di Atene dagli architetti Pittakis e Balanos: il consolidamento della trabeazione fratturata con travi in ferro coperte da cemento, l’aggiunta sulla porta del tempio di un architrave in cemento armato, la ricomposizione di parti troncate con conci di pietra dura rivestiti con una colata di cemento colorato, sono solo alcune delle azioni invasive che ne hanno danneggiato l’essenza primordiale.
Oggi, invece, l’archeologia sta vivendo un momento epocale nella storia del suo sviluppo e delle sue prerogative, poiché nuovi interventi legislativi sottolineano la necessità di integrare sin dalle prime fasi della pianificazione le conoscenze archeologiche: solo attraverso una metodologia multidisciplinare è possibile, infatti, dare vita a un programma all’interno del quale la materia su cui intervenire venga trattata a partire dalla sua istanza storico-culturale, così da poterla risaltare al massimo delle sue potenzialità. Il ruolo dell’archeologo come “progettista” è riconosciuto ufficialmente a partire dalla Legge 55/2019 che equipara questa professione a quella dell’architetto e dell’ingegnere, segnando un cambiamento memorabile per la disciplina. L’inserimento dell’archeologia all’interno della progettazione garantisce sin dalle sue prime fasi di pianificazione una ricerca conoscitiva del bene culturale preso in analisi, permettendone una tutela più efficace. Se fino a qualche anno fa questa circostanza continuava a essere poco recepita dai colleghi di altri settori, le più recenti disposizioni dell’aggiornato Codice dei Contratti Pubblici (D.lgs 36/2023) sottolineano espressamente la presenza dell’archeologo come supporto alle attività di verifica preventiva dell’interesse archeologico.
Un esempio rappresentativo di questa nuova concezione progettuale può essere osservato a Pompei. Per lungo tempo, gli interventi di consolidamento e restauro hanno privilegiato la mera esigenza tecnica di “mettere in sicurezza” le strutture, spesso sacrificando la loro istanza storica: materiali estranei venivano impiegati senza particolare attenzione alla loro compatibilità; elementi architettonici venivano ricostruiti sulla base di ipotesi più intuitive che scientifiche. L’inserimento dell’archeologo sin dalle fasi iniziali della pianificazione – oggi, per l’appunto, sancito e rafforzato dalle norme sopracitate – ha rovesciato questa prospettiva. La conoscenza diviene il punto di partenza del progetto: la lettura stratigrafica delle murature consente di riconoscere le diverse fasi costruttive, la mappatura dei materiali guida la scelta di tecniche di restauro rispettose dell’originale, mentre i rilievi tridimensionali e la fotogrammetria restituiscono una documentazione puntuale dello stato di conservazione prima e dopo gli interventi. Il risultato non è più una semplice operazione di risanamento, ma un processo di valorizzazione in grado di far emergere nuove informazioni storiche e di restituire al sito quella dignità che il tempo, pur avendolo consegnato fino a noi, aveva in parte oscurato.
Questi passi avanti compiuti non rappresentano solo un avanzamento tecnico, ma anche un maggior riconoscimento sociale del ruolo dell’archeologo. Dare spazio a questa figura significa ammettere che la conoscenza del nostro patrimonio culturale non è né un lusso né una perdita di tempo, ma un investimento concreto: ogni progetto di tutela e valorizzazione che integra competenze archeologiche diventa un’occasione per diffondere consapevolezza, rafforzare il legame con la nostra storia e consegnare alle generazioni future una conoscenza storica più chiara e condivisa. Con il suo approccio multidisciplinare e scientifico, l’archeologia rappresenta inoltre un motore di sviluppo sostenibile, non solo sotto il profilo culturale, ma anche economico e sociale. Rendere tangibili reperti, luoghi e memorie del nostro passato può garantire una maggiore circolazione di persone interessate a conoscere le proprie origini, e dunque sostenere un turismo più consapevole. Investire in progetti che valorizzino il proprio patrimonio significa promuovere educazione culturale e innovazione, offrendo opportunità concrete per la crescita di intere comunità e per il miglioramento della qualità della vita.
Dare il giusto valore all’archeologia non è solo un atto di giustizia professionale: è un gesto di rispetto verso chi ci ha preceduto e un invito ad alimentare la memoria collettiva che permette di ricordare all’individuo la sua appartenenza a una comunità molto più vasta di quanto possa immaginare.