Scritto da Simone Pavesi
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Lorenzo Pregliasco è un analista politico ed esperto di comunicazione politica e opinione pubblica, founding partner di Quorum e direttore di YouTrend. Tra le sue numerose pubblicazioni: Il paese che siamo. L’Italia dalla prima Repubblica alla politica on demand (Mondadori 2023), Benedetti sondaggi. Leggere i dati, capire il presente (ADD Editore 2022) e Politica Netflix. Chi detta l’agenda nell’era dei social (Will Media 202). È inoltre autore e curatore di podcast di successo quali: “La democrazia in America”, “Elezione straordinaria” “Flipper” e “Qui si fa l’Italia”.
In questa intervista approfondiamo il ruolo dei podcast dedicati alla divulgazione attraverso l’esperienza di “Qui si fa l’Italia”, in cui Lorenzo Pregliasco e Lorenzo Baravalle raccontano i momenti che hanno fatto la storia dell’Italia a chi come loro non li ha vissuti. In che modo viene realizzato un podcast di questo tipo? Quali sono le fasi del processo creativo, dall’ideazione alla documentazione, e produttivo, dalla scrittura al montaggio? Quali sono le competenze richieste? E quanto contano davvero gli ascolti?
La storia raccontata a chi non l’ha vissuta, da chi non l’ha vissuta. Sembra voler essere un’esperienza quasi pedagogica, un messaggio non inter ma intra-generazionale. Come nasce l’idea di raccontare alcuni dei momenti salienti della storia del nostro Paese e di farlo attraverso un contenuto esclusivamente sonoro? Perché, insomma, Qui si fa l’Italia?
Lorenzo Pregliasco: L’idea nasce durante la pandemia nella primavera del 2020: il mio co-autore, Lorenzo Baravalle, mi invia un messaggio con la proposta di spiegare e raccontare alcuni momenti e personaggi della storia politica italiana in un podcast. Si trattava di un tipo di comunicazione che in quel periodo si stava scoprendo, o per molti riscoprendo, e di un linguaggio al quale, da un certo punto di vista, eravamo affezionati. Personalmente, è una modalità di narrazione che apprezzo molto, tant’è che ho ascoltato moltissimi podcast, spesso internazionali, anche prima che diventassero così diffusi in Italia, almeno per quanto riguarda l’approfondimento. Questo è il contesto originario in cui nasce l’idea, che si consolida intorno all’opportunità di raccontare la storia italiana con un linguaggio contemporaneo. L’obiettivo è stato, sin da subito, dare nuova vita a vicende decisive per la nostra identità politica e sociale, che però non avevano una forma di racconto pienamente contemporanea e pensata per chi, appunto, non c’era; o anche per chi c’era ma nel frattempo si è sintonizzato su nuovi linguaggi, su nuovi ritmi. In questo senso, gli episodi di Qui si fa l’Italia sono frutto di un lavoro rigoroso, con una grande attenzione alla dimensione narrativa e alla divulgazione delle dinamiche sociopolitiche del tempo, inserite però in un racconto accessibile e al passo coi tempi. Questo è stato possibile grazie all’uso di modalità espressive capaci di dare voce al passato, attraverso clip dell’epoca, ospiti rappresentativi o testimoni delle vicende narrate, e un ospite di altissimo profilo in ogni puntata. L’insieme di questi elementi rende Qui si fa l’Italia il prodotto che è e che viene apprezzato, senza la volontà di sostituirsi ad altri modi di raccontare come i tanti documentari televisivi di ottima fattura o i numerosi e preziosi libri di saggistica. L’idea è stata quella di provare a riempire uno spazio vuoto, lavorando sull’identificazione generazionale e sul suo significato.
Selezionare i momenti che hanno fatto la storia non è un compito facile ed è un’operazione carica di responsabilità, sia perché inevitabilmente porta a escludere fatti di cruciale rilevanza, sia perché è necessario decidere come raccontarli. In che modo viene realizzato un podcast di questo tipo? Quali sono le fasi del processo creativo, dall’ideazione alla documentazione, e produttivo, dalla scrittura al montaggio?
Lorenzo Pregliasco: Tutto parte dalla scelta dei temi, che nella prima stagione erano, se vogliamo, quasi obbligati: dal 2 giugno, nascita della Repubblica, fino alla discesa in campo di Silvio Berlusconi nel 1994. Una sorta di summa della Prima Repubblica, che poi, nella seconda stagione e in quella nuova che è in corso di uscita, lascerà spazio a un allargamento dello sguardo; a personaggi, vicende, misteri e pagine significative della nostra storia in parte anche meno conosciute dal grande pubblico. Quello che abbiamo cercato di fare nella seconda e nella terza stagione è stato introdurre gradualmente alcune di queste pagine meno scontate, meno obbligate. La selezione dei temi è un passaggio delicato, che viene svolto con gli altri autori, Francesco Magni, Alessandro Negri, e da quest’anno Giulia Arduino, oltre ovviamente a Lorenzo Baravalle. Per la terza stagione il metodo che abbiamo utilizzato è stato quello di mappare e proporre numerosi temi, per poi identificare quali riscuotevano più interesse nel gruppo autoriale. Siamo stati attenti a bilanciare le puntate che raccontano fatti ed episodi che descrivono personalità di periodi diversi del nostro Novecento. Una volta selezionati i temi, c’è la fase di documentazione che è sempre molto impegnativa e lunga, perché dietro ogni puntata, che si consuma nel giro di un’ora per chi l’ascolta, c’è un lavoro enorme: giorni e giorni passati tra gli archivi dei giornali, le monografie, i libri e in certi casi anche gli articoli di riviste storiche o di studi politici o economici, a seconda dei temi. Passiamo in rassegna anche tutti i documentari principali usciti su ciascun argomento, per vedere come sono costruiti, quali elementi raccontano e come lo fanno. In alcuni casi prestiamo attenzione a prodotti culturali di altro tipo, come i testi scritti dai protagonisti delle vicende che raccontiamo, i film ambientati nel contesto dell’epoca, o comunque tutte le altre tessere del puzzle che permettono di avere una documentazione rigorosa e ampia su quello che raccontiamo. Spesso non basta un testo biografico per raccontare un personaggio, ma è necessario leggere cosa hanno scritto i suoi contemporanei e i giornali nei momenti in cui il protagonista di una nostra storia agiva e viveva. Da parte nostra, c’è sempre il tentativo di vedere lo sfondo e mostrare com’era il Paese dietro alle vicende che raccontiamo. Dopo questo lavoro di documentazione si estrapolano dei filoni, dei macrotemi, e viene scritto una sorta di canovaccio per ciascuna puntata. La trasformazione di quel canovaccio nel copione è un altro lavoro estremamente impegnativo, perché la scrittura per podcast ha le sue specificità. Non c’è solo la necessità costruttiva di dotare il racconto di un’impalcatura pienamente narrativa – con personaggi, cause, conseguenze, ostacoli, imprevisti e disvelamenti – ma anche l’esigenza di scrivere avendo cura di determinati accorgimenti rispetto allo stile, che è diverso da quello di un libro, perché un prodotto audio si deve scrivere tenendo sempre ben presente che verrà ascoltato. Alcune formule che scritte, e quindi lette, funzionerebbero molto bene, non funzionano altrettanto bene quando vengono ascoltate. Questo implica una grandissima attenzione ai dettagli di ogni frase e di ogni passaggio e la scelta di termini che devono tenere insieme rigore, precisione, accuratezza, ma anche accessibilità per chi ascolta. Dopo questa fase molto delicata, si registra. A partire da questa terza stagione registriamo in colonna separata, come si direbbe nel mondo del cinema; quindi, Lorenzo Baravalle ed io ci dividiamo prima pezzi di copione, e poi c’è l’arduo e prezioso lavoro di sound design – montaggio e inserimento di musiche – che in questa terza stagione è opera di un sound designer tra i più apprezzati in Italia – Stefano Tumiati – mentre nelle prime due stagioni il lavoro era stato svolto da Emiliano Frediani. Questo è un passaggio che ha una sua specifica delicatezza autoriale, perché noi che abbiamo scritto la puntata ci aspettiamo un certo tipo di sonorità, un determinato tipo di clima, una precisa gestione dei silenzi, delle pause. Dunque, ogni puntata che viene poi ascoltata, prima di essere pubblicata passa attraverso uno o due passaggi del montato, in cui noi autori ascoltiamo e prendiamo nota riguardo a tutti questi aspetti sonori, un po’ come capita nelle orchestre, con le annotazioni del compositore sulle partiture. Insomma, chi scrive la puntata ha in mente un certo flusso sonoro, che poi propone e condivide, e su cui cerca di intendersi con chi è specializzato proprio nella costruzione del suono; da questa collaborazione nasce il prodotto montato definitivo.
Pensando a qualche episodio in particolare, non si può non fare riferimento all’intreccio delle vite di Aldo Moro e Carlo Alberto Dalla Chiesa: il primo, quattro anni più grande, prima di diventare uno dei più importanti leader politici e rappresentanti istituzionali del Paese, è professore del secondo alla facoltà di giurisprudenza di Bari. Quest’ultimo, divenuto il “super-detective” che ha combattuto il fascismo, le brigate rosse e la mafia, viene ucciso per mano della criminalità organizzata quattro anni dopo l’assassinio di Moro da parte degli stessi brigatisti che il generale riuscì a fermare. Entrambi, tanto potenti da sollecitare cambiamenti progressivi ma epocali per la Repubblica, sono al contempo estremamente vulnerabili, probabilmente a causa di uno Stato assente o che non ha fatto abbastanza. Nel corso di questo viaggio nella storia della nostra Repubblica, che ruoli ha avuto lo Stato, quali sono le principali responsabilità e colpe delle istituzioni?
Lorenzo Pregliasco: Le loro vite si intrecciano in università a Bari, a Milano in via Montenevoso e nel corso del rapimento stesso di Moro, una vicenda in cui, come si sa, ha un ruolo anche il generale Dalla Chiesa, per quanto marginale. Sono entrambe figure enormi della nostra storia, che con le loro storie ci consentono di raccontare e di illuminare vicende altrettanto importanti. Per quanto riguarda Aldo Moro si tratta ovviamente del suo rapimento e della sua uccisione, ma anche di tutto ciò che stava intorno a un protagonista della nostra storia politica; quella di Dalla Chiesa è invece una storia che rappresenta il ruolo dello Stato che, come lui definì in uno dei suoi ultimi interventi pubblici, è l’unico possibile potere di fronte agli abusi, alle prevaricazioni, all’illegalità. Queste due figure mettono in evidenza anche le contraddizioni dello Stato stesso, ma non mi piace parlare di colpe. In Qui si fa l’Italia spero si colga un’attenzione civile, anche di appartenenza e di affetto, per la cosa pubblica e per il percorso nazionale che abbiamo svolto fin qui come italiani. Non è un podcast nel quale trovare facilmente l’indignazione, che spesso emerge invece abbondantemente nel racconto della politica. Certo, cerchiamo di evidenziare, come dicevo, le contraddizioni, come quelle del boom economico o della stagione della violenza politica e del terrorismo. Tuttavia, se è vero che sono tante le responsabilità dello Stato, il punto che vogliamo rimarcare è anche quello di non sentirsi de-responsabilizzati. Si tratta di riconoscere che lo Stato è qualcosa che, in un certo senso, rispecchia l’impegno di tanti, forse di tutti.
Anche voi, con la vostra narrazione, avete una grande responsabilità. Il racconto diventa fonte di potere, capace di instillare convinzioni, dubbi, perplessità nelle menti di chi ascolta. Quando si descrive la vita di personaggi di questo calibro, non si corre il rischio di idealizzarli? Si è davvero liberi di parlarne a 360 gradi o in qualche modo il mito si conserva proprio grazie alla fede che in esso riponiamo, senza porci troppe domande?
Lorenzo Pregliasco: Il rischio di idealizzare i grandi personaggi esiste. D’altra parte, credo si tratti di un prodotto che ha raccontato – spero con equilibrio e con libertà – profili molto diversi e in alcuni casi anche molto discussi della storia italiana, da Giulio Andreotti a Bettino Craxi, da Enrico Berlinguer a Silvio Berlusconi, passando per Aldo Moro, Carlo Alberto Dalla Chiesa e altri. Le figure che selezioniamo sono raccontate dando spazio alle loro intuizioni e ai loro errori; quindi, cercando il più possibile di evitare l’effetto “cartolina”, per così dire.
Una novità della terza è il carattere di podcast indipendente e la conseguente necessità di sostegno da parte del pubblico. In generale, dal punto di vista produttivo, dell’industria di settore, considerando gli aspetti della sostenibilità del modello di business e delle competenze richieste, si può dire che tutti possono fare un podcast? Quanto contano davvero gli ascolti?
Lorenzo Pregliasco: Sì, in questa stagione siamo un podcast indipendente, laddove le prime due stagioni sono state prodotte da Spotify. Dunque, il sostegno del pubblico è importante. Abbiamo la fortuna di essere un prodotto con grandi ascolti, con una comunità di ascoltatori forte che poi ci scrive, commenta e condivide le puntate. Questa è una fortuna che non hanno in moltissimi ed è vero che tutti possono fare un podcast, ma ben altro è chiedersi se tutti possono fare un podcast sostenibile dal punto di vista economico. La risposta a questa seconda domanda, naturalmente, è no. A questo proposito, mi sembra di vedere nel mercato italiano una certa saturazione di podcast brandizzati che non sempre brillano per la qualità dei contenuti. D’altra parte, progetti di approfondimento, come può essere Qui si fa l’Italia, ma anche molti altri, o sono legati a testate, oppure hanno la necessità di coprire i costi attraverso gli sponsor o il pubblico che li ascolta. Per quello che osservo sul mercato dei podcast in Italia, penso che ci sia spazio per un certo numero di prodotti con una quantità di ascoltatori adeguata, ma forse non tantissimi a livello aggregato, perché comunque il mercato italiano non è di grandi dimensioni. Gli ascolti contano, evidentemente, sia per la capacità di aggregare una comunità di ascoltatori, sia in termini di appetibilità per eventuali altri podcast.
Specularmente, guardando al pubblico, si potrebbe dire che il podcast è diventato il libro degli anni Venti del Duemila? All’interno del processo evolutivo dell’intelligenza umana, questo passaggio è positivo per raggiungere nuove fette di popolazione che altrimenti resterebbero escluse da buona parte dell’offerta culturale, oppure si tratta del segnale di una definitiva rassegnazione rispetto ad una dilagante povertà intellettuale?
Lorenzo Pregliasco: Credo che i podcast siano prodotti culturali molto diversi dai libri, con una loro dignità e un loro valore, dato dalle numerose opportunità che un racconto solo audio consente e, dunque, dal rapporto di intimità che si crea con chi ascolta. Peraltro, va detto che al di là dei podcast di cinque minuti e di quelli conversazionali in stile talk show che sono una trasposizione della radio, i podcast di approfondimento o di inchiesta giornalistica – come Veleno o Il dito di Dio, due podcast di grande qualità e successo di Pablo Trincia, o ancora Serial e In The Dark, in lingua inglese – sono prodotti con un valore assimilabile magari non a un libro ma a un capitolo, a un paper, a un long read, come chiamano nel contesto anglosassone gli articoli lunghi su temi importanti. Sono reportage o documentari audio, e mi sembra che questo sia un modo in cui possono essere raccontati. Quindi, non vedo una rassegnazione rispetto alla dilagante povertà intellettuale; anzi, penso che siano un mezzo per portare dei contenuti, che meritano di essere ascoltati, all’attenzione delle persone.
Per finire una curiosità: dopo l’Italia, si farà anche l’Europa? Qual è il futuro del podcast?
Lorenzo Pregliasco: Si farà anche l’Europa? Non lo so, vedremo. Diciamo che Qui si fa l’Italia è un progetto indubbiamente impegnativo, che ci ha dato e ci sta dando grandi soddisfazioni e tante gratificazioni. Intanto c’è una terza stagione che è in corso dal 27 agosto 2024, con una nuova modalità: un episodio ogni mese, il 27 del mese, e questo è un nuovo modello che ci permette di distribuire le uscite su un periodo più lungo, il che è un vantaggio dal punto di vista della produzione rispetto a pubblicazioni compatte come quelle delle prime due stagioni. Quale sarà il futuro del podcast però ancora non lo sappiamo.