Rappresentanza: le condizioni antropologiche della politica
- 08 Agosto 2014

Rappresentanza: le condizioni antropologiche della politica

Scritto da Giacomo Bottos

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Il dibattito su populismo e rappresentanza oggi è ampiamente fuorviante.

La critica della rappresentanza da parte dei populisti, formulata in maniera confusa, quando assume contorni più definiti presenta l’aspetto di un rifiuto di legittimità espresso nei confronti non solo del rapporto fra elettore e deputato, ma più in generale delle forme della politica. Temi classici della riflessione politica sul tema della rappresentanza -come la questione del mandato libero o imperativo, delle forme istituzionali o dei meccanismi elettorali- pur comparendo rimangono dei dettagli che non esauriscono la totalità del problema.

Si manifesta piuttosto in queste modalità di protesta un confuso malessere, che in un qualche modo è più profondo e va oltre le varie istanze di cui i movimenti populisti si fanno portatori. Un sentimento immediato di protesta, di rifiuto, di indignazione si esprime in questi movimenti e solo dopo, o superficialmente, viene giustificato riconducendolo a cause apparenti o parziali (i politici corrotti, l’Unione Europea, gli immigrati ecc.).

Di fronte allora a questo genere di proteste, che spesso assumono un carattere marcatamente regressivo e che non si fanno portatrici di reali istanze di trasformazione del reale, limitarsi a ribadire la legittimità formale del sistema istituzionale esistente rischia di essere una risposta corretta ma insufficiente.

D’altra parte l’adesione mitigata, a dosi omeopatiche, a singole rivendicazioni e stilemi della protesta populista da parte della politica istituzionale può essere una risposta magari efficace sul breve periodo ma incapace di risolvere radicalmente il problema. Se infatti il populismo può diffondersi in maniera così pervasiva questo allude ad un’insufficienza profonda della politica istituzionale.

Se il populismo rappresenta un sintomo del disagio diffuso nei confronti delle forme istituzionali esistenti (forme istituzionali che vanno considerate in stretta relazione con un determinato sistema economico-sociale) e ne segnala, con la sua stessa esistenza, mancanze e insufficienze, tuttavia le ragioni a cui il populismo riconduce questo disagio costituiscono una spiegazione manifestamente insufficiente.

Costi della politica, corruzione, inefficienze rappresentano semmai la manifestazione superficiale e non la causa profonda della crisi della politica. D’altra parte, il riferimento al populismo consente ad una politica istituzionale non all’altezza del proprio compito di non affrontare il problema profondo della propria natura, contrapponendosi e criticando in maniera semplicistica un’alternativa manifestamente inaccettabile. Il populismo serve spessissimo come alibi e come sistema per ricompattare l’elettorato. Per dirla in altri termini: l’autocomprensione tanto del populismo quanto quella della politica istituzionale (che troppo spesso si aggrappa alla superficialità del politicamente corretto) sono fuorvianti e in fondo impolitiche. La politica è, appunto, il grande assente di questo dibattito.

 

Rappresentanza e costruzione di una prospettiva politica

Se vogliamo prendere sul serio il problema della rappresentanza non possiamo considerarla come una mera procedura formale. La rappresentanza è prima di tutto un legame che unisce governanti e governati, un legame che si fonda sulla capacità della politica di interpretare, dando forma (quindi non di rispecchiare e nemmeno di contrapporsi censurando), i sentimenti e le aspirazioni più profonde di un’epoca, trasformando ciò che è confuso in un progetto politico coerente ed efficace.

Per fare questo è necessario contemperare due abilità opposte: la capacità di aderire parzialmente ai sentimenti immediati della popolazione e al tempo stesso quella di riformularli, di dare a questi sentimenti un’espressione non immediata ma resa compatibile con la costruzione di una prospettiva politica. La capacità di tenere assieme in un equilibrio difficilissimo queste due tendenze è ciò che appunto connota il politico. Oggi è esattamente questa capacità, questa arte che si è smarrita. Perché si ritiene che non sia più necessaria. Perché si pensa che nel mondo post-moderno la mediazione politica sia superata da altre forme di rappresentazione. Ma forse è proprio questa convinzione il principale ostacolo che impedisce di pensare una politica capace di svolgere questo compito sul terreno del presente.

Ma se si vuole fare questo tentativo, se ci si vuole mettere in questa prospettiva, si incontra subito un grande problema. Sembra cioè che manchino le condizioni antropologiche perché questo lavoro di interpretazione e di messa in forma possa avere luogo.

Che fare se i sentimenti che la politica deve interpretare assumono un carattere distruttivo? Se la rappresentazione viene rifiutata? Se si genera, per cause storico/economiche e per errori politici, un diffuso sentimento anti-politico che rende in generale impossibile perfino comprendere il linguaggio della politica? Come costruire un progetto politico sulla base di un vissuto esistenziale collettivo che si oppone alla propria traduzione in termini politici? Da questo punto di vista il populismo è doppiamente un nemico. In primo luogo perché rafforza tale sentimento antipolitico e in secondo luogo perché monopolizza la “connessione sentimentale” con il popolo impedendo ad altri di impostarla su basi diverse. Ma è un nemico anche un certo modo più classico di fare politica che nega il problema stesso della “connessione sentimentale”, che trascura del tutto il problema consegnando all’avversario un facile argomento polemico e la possibilità di identificare la “politica” con una prassi asfittica, che trascura il problema di una mediazione reale. Lo stesso ricorso sempre più pervasivo alle tendenze tecnocratiche, a una politica cioè che rifiuta di porsi il problema della sua legittimazione perché si considera investita di un sapere superiore e precedente allo scontro politico, contribuisce potentemente all’ulteriore decadimento del legame fra società e politica.

Esiste un nesso dialettico fra amministrativismo e populismo. In verità, a partire dalla crisi del partito di massa avvenuta negli anni Settanta e dall’affermarsi dell’egemonia neoliberista non si è ancora riusciti a trovare un modo di organizzare la politica che coniugasse democrazia, ampia partecipazione, formazione, elaborazione politico-culturale, efficacia e potenzialità trasformativa. I ricorrenti appelli alla necessità di trovare un modo “nuovo” di fare politica segnalano solo il fatto che il problema rimaneva e rimane irrisolto. D’altra parte è centrale non considerare il problema solo come un problema organizzativo e tantomeno come un problema di comunicazione.

La stessa feticizzazione del “partito tradizionale” è una risposta insufficiente e difensiva al problema. Il partito – qualunque forma esso assuma- è e rimane comunque uno strumento le cui finalità, la cui organizzazione ed articolazione devono essere determinati da un ragionamento politico. Ma se queste finalità -e il nesso fra finalità e mezzi- diventano progressivamente sempre più difficili da determinare -come esito della maggiore complessità globale- questo non dovrebbe condurre allo scetticismo ma piuttosto ad un maggiore sforzo di riflessione teorica e di immaginazione politica per pensare nuove forme organizzative in grado di produrre comprensione del presente.

 

Lo scambio fra riflessione e politica

Su questo terreno un’analisi del modello del think tank sarebbe preziosa. Infatti il problema centrale non è tanto e solo quello delle forme organizzative della politica, quanto di come avvenga lo scambio fra riflessione e politica. Fra teoria e prassi, si sarebbe detto un tempo. Ma un problema ancora più grave si pone allora. Il think tank tende ad essere espressione di un certo modo di concepire la politica, in cui in un ambito ristretto si elaborano soluzioni e proposte di policy che hanno come interlocutore principale le istituzioni e gli addetti ai lavori, in un orizzonte che è quello della post-democrazia delineata da Colin Crouch. Se invece l’idea è di sviluppare un concetto maggiormente espansivo di democrazia, allora diventa cruciale capire come i luoghi di elaborazione politico-culturale possano essere rimessi in contatto con quelli ove la politica viene concretamente praticata e come immaginare questi luoghi in modo tale che possano favorire tale elaborazione e riflessione. Come rendere diffuse le soluzioni che vengono elaborate nei centri di ricerca (nei casi fortunati in cui questi esistono già), e viceversa, come trasformare i partiti essi stessi, almeno parzialmente, in luoghi di elaborazione che possano porsi all’altezza della complessità del presente? La soluzione a questo problema non può essere puramente teorica, ma dev’essere una prassi che mescoli comprensione della situazione e intelligenza organizzativa.

Occorre ricreare un’intellettualità collettiva che sia in grado, diffusamente e puntualmente, ma a partire da una comprensione globale condivisa almeno nelle sue linee generali, di realizzare quella difficile mediazione fra idea politica e attuazione di essa in una realtà sicuramente non propensa ad accoglierla perché popolata da soggettività formate sulla base di un’egemonia impolitica. Per invertire questa tendenza occorre formare pazientemente e tenacemente nuclei sparsi sul territorio, centri di pensiero ed azione che coltivino, nella sua difficoltà, una prospettiva alternativa e cerchino, realisticamente, di comprendere come e in che limiti questa possa essere applicata nel presente. Non si tratta solo di concepire un’astratta dottrina ma anche di “accompagnarla”, di capire come essa possa aderire alle mille pieghe del reale.

Da tutto questo non discendono immediatamente prescrizioni politiche, discende piuttosto un modo di porsi. Un modo di stare dentro alle cose. Sia nei partiti, sia nei confronti del mondo dell’associazionismo, delle aggregazioni, del terzo settore. Occorre elaborare strategie per una ripoliticizzazione di un mondo che spesso è stato giocato contro la politica, come suo sostituto o come regno dell’onestà contrapposto alla corruzione della politica. Bisogna invece decostruire questa contrapposizione, riportando nella società la consapevolezza del legame delle issues particolari con una prospettiva generale e d’altra parte arricchire la politica di un rapporto con la società che spesso è stato perso assecondando tendenze autoreferenziali.

Si è per molto tempo pensato che esistesse un mondo che andava difeso dagli attacchi che provenivano dall’esterno. La verità è che questo mondo si è svuotato dall’interno, è diventato sempre più povero e sempre più privo di vita e di idee. Occorre prendere atto di questo fatto in maniera disincantata, proprio per procedere alla ricostruzione. Il partito, la politica oggi, qualunque cosa vogliamo intendere con questo termine, non è certo un dato, ma può essere solo (eventualmente) il risultato di un lavoro, e può essere ora, in primo luogo, innanzitutto un atteggiamento. Disporsi in questo atteggiamento, e riconoscere coloro che si pongono in un atteggiamento simile, è il primo passo per dare inizio ad un percorso complesso, accidentato e dall’esito incerto ma che è forse l’unico che si può indicare a chi oggi voglia fare politica nel senso forte del termine. Si fa politica solo entro le condizioni date. Se tali condizioni non vi sono occorre crearle. E la prima condizione che oggi manca e che sarebbe necessaria perché una politica possa darsi è una condizione antropologica. Occorre una riforma intellettuale e morale, per esprimerci con un lessico gramsciano.

Per chi si pone in questa ottica, per chi concepisce tale obiettivo, la difficoltà del compito non può essere altro che un incentivo ad intraprenderlo con più grande impegno.

Scritto da
Giacomo Bottos

Direttore di «Pandora Rivista» e coordinatore scientifico del Festival “Dialoghi di Pandora Rivista”. Ha studiato Filosofia presso l’Università degli Studi di Milano, l’Università di Pisa e la Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha scritto su diverse riviste cartacee e online.

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