“Sguardi nel sottosuolo” di Natalino Irti
- 18 Novembre 2025

“Sguardi nel sottosuolo” di Natalino Irti

Recensione a: Natalino Irti, Sguardi nel sottosuolo, La nave di Teseo, Milano 2025, pp. 368, 24 euro (scheda libro)

Scritto da Luca Picotti

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Natalino Irti, Accademico dei Lincei, tra i più importanti giuristi italiani, è tornato in libreria con un volume che dietro alla «sobria nudità» della diagnosi nasconde una analisi, per così dire, intima del diritto, rigorosa ma anche personale, quasi a rappresentare un testamento intellettuale. Sguardi nel sottosuolo è il titolo del volume, edito da La nave di Teseo nella collana Krisis, diretta dall’autore e da Massimo Cacciari. Da questi sguardi riemergono, nitidamente, tutte le grandi tematiche affrontate da Natalino Irti nelle sue opere; troviamo, riflessi, lavori come Nichilismo giuridico, Norme e luoghi, così come il più recente Viaggio tra gli obbedienti.

Il diritto è il protagonista principale, ma nell’ottica in cui l’ha sempre inteso Natalino Irti. Ossia come fatto umano, intrinsecamente legato alla realtà in cui è calato: «Il diritto si risolve in tensioni di umane volontà; e vi si incontrano, e spesso confliggono, concezioni del mondo, idee della società e dell’esistenza individuale, spaventose ondate di moderne tecnologie» (p. 9). Non si tratta di un diritto arido, isolato dal contesto di riferimento, bensì di un diritto vivo, metro di misura e significato dei fatti sociali, strumento politico, espressione di valori dominanti, cornice dell’esistenza. Non è un caso che nei libri di Natalino Irti, e quest’ultimo lavoro lo conferma, troviamo sì i grandi maestri del diritto, da Emilio Betti a Francesco Carnelutti, ma troviamo anche Emanuele Severino e Massimo Cacciari, Johann Gottlieb Fichte e Max Weber, Luigi Pirandello e Paul Valéry. Un mosaico trasversale di riferimenti culturali.

Ma in cosa consiste il sottosuolo in cui si muovono e da cui provengono gli sguardi del grande giurista? La prospettiva presenta sfumature romantiche e squarcia le tensioni del nostro presente. Da un lato c’è l’astratta artificialità del soprassuolo, dove si svolge «l’algida vita degli apparati economici, le industrie producono, gli individui lavorano e consumano, i mercati rompono le frontiere e si espandono nella sconfinatezza. È il mondo della automatica e calcolabile funzionalità, che assegna all’individuo uno specifico compito, e ne fa un criterio di identificazione e di giudizio» (p. 10). Troviamo qui le burocrazie statali, la pubblicizzazione dell’esistenza, il grande ingranaggio della tecno-economia. Dall’altro lato, nascosto nell’intimità, nell’irrazionale, vi è il sottosuolo delle identità, dei miti e dei simboli, dei desideri di evasione, ove il privato – il diritto privato nella sua essenza – cerca di ritagliarsi il proprio spazio; si manifestano istanze di protezione e il diritto si ramifica in più diritti.

È una fotografia che, partendo da due dimensioni del diritto – quella del soprassuolo e quella, o quelle, del sottosuolo – coglie diversi tra i nodi più squisitamente politici di questa fase storica, capaci di illuminare le fratture socio-culturali di molte società occidentali: la disaffezione, lo smarrimento, la rivalorizzazione dei luoghi in contrapposizione alla fredda astrattezza dei meccanismi globali – si pensi al tema, molto discusso nella letteratura sul cosiddetto populismo, della cesura tra i somewhere e gli anywhere. Azione che è in parte reazione: «C’è […] il ridestarsi o rivelarsi dello spirito di nazionalità, che rompe, in singoli parti del globo, l’uniforme e anonima coltre della tecno-economia, e fa risuonare le antiche e venerande parole dei luoghi. Dove sembra di riascoltare il Fichte dello Stato commerciale chiuso, di rivivere il sentimento della concretezza e singolarità storica: chiusura dei traffici economici e degli scambi internazionali, difesa della propria moneta, appello alle origini. La nazionalità vuole riprendersi la forma dello Stato, e richiamare in essa l’unità di politica, diritto, economia. Tutte queste forze raccolte insieme nella definita misura di un territorio» (p. 78).

Territorio, limiti e chiusura. Categorie che ben interpretano gli assi di questa fase storica, in contraddizione con la tendenza alla sconfinata espansione della tecno-economia, che non vuole conoscere limiti e confini. Eppure, oggi proliferano, sempre di più, misure restrittive adottate dagli Stati per circoscriverla, piegandola ai propri interessi nazionali: dazi, sanzioni finanziarie, export control, screening degli investimenti esteri, congelamenti di società. Si entra così nel cuore delle riflessioni su Stato, diritto e territorio. Natalino Irti riprende nel volume il concetto di geo-diritto, introdotto agli inizi degli anni Duemila di fronte alle sfide poste al diritto statale-territoriale dalla globalizzazione, dalla lex mercatoria, dall’emergere di Internet e dei fenomeni digitali, emblema della pretesa sconfinatezza della tecno-economia. «Il diritto, convertendosi o atteggiandosi in geo-diritto, prova a inseguire e catturare la tecno-economia, a ricomporre, mercé trattati o intese fra gli Stati, la coestensione di sovranità, popolo ed economia. Ma essa gli sfugge di continuo, fluida invisibile inafferrabile, e si dà, da sé a sé stessa, le norme della lex mercatoria, dei grandi accordi economici e finanziari riposanti sul vincolo della semplice promessa e sulla reputazione d’impresa» (p. 44).

Una tensione immanente che, a parere di chi scrive, nella tesi esposta in L. Picotti, Linee invisibili (Egea 2025), si traduce nella scomposizione di ogni movimento del mondo nelle diverse geografie giuridiche relative ai singoli Stati, senza che questi movimenti possano acquisire significato proprio al di là delle giurisdizioni sovrane, isole costitutive di senso. La tecno-economia non è, in quest’ottica, un soggetto unitario, bensì un intreccio di rapporti poggiante sul mosaico delle geografie giuridiche e da queste plasmato. Trattasi delle linee invisibili. Un tanto risulta evidente in questa fase storica, in cui il concetto di nazionalità appare rivalorizzato come non mai: nazionalità di società e imprese, merci e persone, tecnologie e know-how. Tutto viene ricondotto alla geografia giuridica di riferimento: il luogo dove è stata effettuata la lavorazione sostanziale della merce ai fini dell’applicazione del dazio, la percentuale di componentistica tecnologica americana in un prodotto ai fini della soggezione dello stesso al sistema statunitense di export control, la nazionalità di ultima istanza di una piramide societaria ai fini dello screening degli investimenti esteri, e via dicendo. Non si prescinde dalla suddivisione del mondo in geografie giuridiche. Oggi come ieri. Se nell’ordinario ciò appare meno evidente, in tempi straordinari di crisi l’intricato mosaico delle linee invisibili si manifesta invece in tutta la sua palpabilità. In questo senso, il geo-diritto non insegue, ma plasma, è ed è sempre stato il metro di misura. La tecno-economia non riesce a sfuggire alle geografie giuridiche; semplicemente aumentano la complessità, le aree grigie, le misure opportunistiche, il gioco di interdipendenze, i punti di attrito.

Dopodiché, un elemento centrale, che emerge dal libro e che ha accompagnato anche la riflessione sul geo-diritto di cui sopra, è il ruolo dello Stato, che a sua volta introduce uno dei temi più cari all’autore: quello del positivismo giuridico. «Il “positivismo” giuridico risiede […] nel riconoscere che il diritto si risolve in un insieme di norme fatte dall’uomo, e che tali norme oggi assumono l’esclusiva forma della legge. Il positivismo giuridico è oggi positivismo della legalità di Stato, ossia dell’ente che detiene il monopolio della forza coercitiva» (p. 210). La prospettiva dell’autore è coerente con una concezione del diritto come calato nella storicità, nella volontà umana che ne funge da fondamento, determinandone contenuti e confini. La stessa Costituzione è una legge, posta e im-posta secondo i canoni valoriali dello specifico periodo storico ed espressione delle relative volontà umane. Tale posizione può essere ricondotta alla migliore tradizione del realismo giuridico e va letta come mera diagnosi, anche se conduce a implicazioni difficili da digerire, come la integrale emancipazione del diritto dal concetto di giustizia, nonché l’asserzione per cui anche le leggi imposte dallo Stato nazista erano e rappresentavano, in quel momento, il diritto positivo valido in quello specifico periodo storico e Paese. La positività del diritto porta con sé la tragedia delle vicende umane. Non è un caso che il positivismo giuridico sia sempre stato oggetto di numerose critiche, o comunque tentativi di superarlo, tramite aperture meta-positive, tali da accompagnare la legalità di Stato con categorie dalla pretesa oggettività e immutabilità. Valori al di sopra di ciò che è posto e im-posto. In questo senso, Irti sfida coloro che evocano i valori, richiamandoli al «dovere di una profonda consapevolezza e di una schietta dichiarazione. O di considerare i valori come espressione della volontà umana, forme di potenza terrena, scopi perseguiti dal mondo e nel mondo; o di collocarli in un sopra-mondo, in un “ordine oggettivo”, assoluto e immutabile, da cui discendono per conferire alle norme fondamento di verità» (p. 205) – a riecheggiare, pertanto, pretese di diritto naturale o divino.

La riflessione di Natalino Irti, pur ponendosi come diagnosi, nonché invito ai futuri studiosi a provare a sciogliere i nodi della dialettica tra positivismo e anti-positivismo, lascia intendere quali siano gli assi al centro della propria analisi, intrisa di realismo giuridico: il ruolo dello Stato, la coercitività come elemento imprescindibile e connaturato al diritto, la volontà umana e la contingenza storica, la pretesa a-territorialità della tecno-economia e il radicamento spaziale della norma. Sino al concetto di obbedienza: un diritto è tale quando viene accolto da obbedienza da parte dei sottoposti e ciò non è solo legato al monopolio della forza statale – ossia la capacità di renderlo eseguibile – ma anche alla sua declinazione linguistica e concreta: un diritto del tutto svincolato dalla realtà, che fa passi più lunghi della gamba chiedendo l’improponibile, rischia di tradursi in carta morta; così come un diritto mal declinato, eccessivamente artificioso, incomprensibile ai più, è destinato anch’esso a perdere la capacità di essere obbedito.

Nei suoi sguardi nel, o dal, sottosuolo, Natalino Irti ci riporta all’intima natura del diritto, e dunque della realtà che ci circonda. Illumina l’intrinseca umanità della dimensione giuridica, calandola nelle cornici storiche, economiche, politiche e socio-culturali di riferimento. Ne emerge un intreccio tanto complesso quanto affascinante, che si muove tra passato e presente, senza sacrificarsi alla linea temporale. È un’opera che è qui, per restare.

Scritto da
Luca Picotti

Avvocato e saggista. Ha conseguito un Dottorato di ricerca presso l’Università di Udine. È membro dell’Osservatorio Golden Power e scrive per diverse testate, occupandosi di tematiche giuridico-economiche, scenari politici e internazionali. È autore di: “Linee invisibili. Geografie del potere tra confini e mercati” (Egea 2025) e “La legge del più forte. Il diritto come strumento di competizione tra Stati” (Luiss University Press 2023).

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