Recensione a: Sabino Cassese, Governare gli Italiani. Storia dello Stato, il Mulino, Bologna 2014, pp. 408, 28 euro (scheda libro)
Scritto da Francesco Magni
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Sabino Cassese è uno dei più grandi giuristi italiani. Erede di una lunga e nobile tradizione, ne è esimio e trasversalmente stimato interprete, vanta una cinquantennale carriera accademica e decine di pubblicazioni nel vastissimo campo del diritto pubblico e amministrativo.
Ha mantenuto sempre uno sguardo puntuale e attento sull’attualità e la contemporaneità, assumendo anche quelle responsabilità di governo (ricoprendo la carica di Ministro della Funzione Pubblica nel Governo Ciampi) di cui si era sempre occupato da studioso.
Nella vastissima produzione, scientifica e non, a sua firma si è inserito nel 2014 il volume in commento (Sabino Cassese, Governare gli italiani. Storia dello Stato, il Mulino 2014) che vi occupa una posizione peculiare e molto importante. Cassese, con la consueta abilità didattica e capacità redazionale, ha infatti dato alle stampe un’opera ambiziosa, una storia dello Stato, così come il titolo suggerisce e indica, ma nel più vasto senso del termine.
Non è solo una storia del diritto, della legislazione e degli eventi dell’Italia unita. Il volume rappresenta il tentativo, molto ben riuscito, di illustrare con linguaggio semplice e a tutti accessibile la storia del Paese da un angolo prospettico particolare, quello del governo, in tal modo consegnando un affresco complessivo, articolato e assai originale del passato e del presente dell’Italia non solo allo studioso ma anche al lettore semplice. Nei tempi presenti il tentativo di Cassese ha una sua valenza se possibile ancora maggiore.
L’evoluzione politico giuridica degli ultimi decenni, la nascita di numerosi organismi sovranazionali, il sorgere di una serie a tratti incontrollata di poteri “esterni” e “altri” rispetto alle tradizionali dinamiche della sovranità rendono ancor più complessa e interessante una “storia dello Stato”, proprio in una fase storica in cui lo Stato, almeno per come lo abbiamo conosciuto nell’ultimo secolo e mezzo, sembra attraversare la sua crisi più grave.
Quello del governo delle cose umane, però, rimane il più rilevanti dei temi della politica e della teoria stessa dello Stato. Il volume non casualmente si apre con una lunghissima serie di domande, che danno al lettore una immediata e ben definita, per quanto vastissima, cornice che contiene l’ampio tema dell’opera e a cui pagina dopo pagina l’Autore prova a dare risposte, suffragandole con ragionamenti e argomentazioni storico giuridici.
Il cuore della trattazione sono le antiche debolezze dello Stato, l’incapacità delle classi dirigenti susseguitesi dall’Unità in poi di dare alla nostra fondamentale macchina organizzativa una sua organicità effettiva ed efficiente, il progressivo allontanarsi, nei tempi più recenti, della politica dell’amministrazione e, soprattutto, il ruolo dello Stato nel contesto interno e internazionale. Mantenendo attento lo sguardo del politikòn zôon, Cassese non si limita a una mera ricostruzione dei fatti ma indaga, partendo da circostanze oggettive, le insoddisfazioni di ieri e quelle di oggi e il rapporto, sempre fondamentale per un giurista, tra Stato e cittadini.
L’Autore avvia, in questo modo e su queste premesse, una indagine per macro argomenti (lo “State building” tanto nella costruzione dell’apparato amministrativo quanto nelle innumerevoli riforme elettorali; i rapporti del potere politico con l’economia, l’industria e la finanza; lo Stato come problema storico e il suo progressivo superamento), capace di individuare di volta in volta le fasi, i periodi, i modi e i tempi delle cause profonde e strutturali del (mal)funzionamento dello Stato, delle sue crisi e delle sue rinascite.
Cassese pone in apertura non solo un insieme di domande su cui riflettere (pp. 11 e 12) ma, altresì, una problematica che rappresenta il vero e proprio nucleo dell’opera: lo Stato come problema storico. Significativamente, peraltro, dopo aver preso in custodia il lettore e averlo guidato attraverso i meandri principali delle problematiche affrontate nel libro, l’Autore chiude l’opera con un conclusiva riflessione sui caratteri costanti della storia dello Stato e una valutazione su ciò che ci aspetta nel nostro immediato futuro, tanto alla luce della caratteristiche dell’Italia quanto in considerazione delle progressive trasformazioni che sta subendo la forma statuale da un punto di vista più generale.
Proseguendo la consultazione dell’opera si è, in primis, immersi nelle straordinarie complessità del momento fondativo (pp. 48 e ss.), in cui le élite dell’epoca furono chiamate a pensare, immaginare e realizzare un assetto unitario in una fase politica turbolenta. I limiti e le debolezze mostrate allora rappresentano un elemento che occorre sempre tenere in considerazione nell’analisi della storia d’Italia.
Qui Cassese riprende, attualizza, sviluppa e rende organiche e funzionali al suo testo molte delle riflessioni già affrontate in passato (si veda in modo particolare Italia, una società senza Stato, il Mulino, Bologna 2011) e proprie anche dell’opera di Guido Melis (si veda soprattutto Storia dell’amministrazione italiana”, il Mulino 1996 e Fare lo Stato per fare gli italiani, il Mulino 2014).
Pur a fronte delle difficoltà di una unificazione frutto di ragioni disparate, si rileva acutamente come non sia stata solamente la geografia fisica a mutare ma anche quella amministrativa, quella politica e, soprattutto, quella economica. Il punto centrale è che l’azione di (ri)nascita non fu portata immediatamente a termine.
Se la massima notoriamente attribuita a Massimo d’Azeglio, “fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”, pur nella sua controversa origine, ben esprimeva la necessità di procedere a una unificazione di un popolo ancora diviso da profondissime diversità linguistiche e culturali, rileva correttamente Cassese come oltre al popolo occorresse procedere anche alla unificazione della Nazione. E, invece, fu costruito solo lo Stato.
Rimase, pertanto, un profondissimo divario tra Italia formale ed Italia reale, che finì per costituire un ostacolo mai completamente rimosso nel nostro sistema Paese che, soprattutto nel Meridione, ha minato e continua a minare le basi della legittimazione della classe politica, al punto che il suo principale meccanismo di selezione, la legge elettorale, ha subìto e continua a subire modificazioni continue senza mai trovare una sua definitiva stabilizzazione (pp. 65 e ss.).
Così, i governi succedutisi nell’Italia post unitaria hanno impostato un sistema a centralismo debole in cui si è cercato attraverso svariati sistemi – non ultimo il costante e sistematico uso (o forse sarebbe meglio definirlo abuso) delle forze armate – di garantire l’ordine pubblico e di costruire un sistema in cui un coacervo di culture, popoli, culture, tradizione e istituzioni, profondamente diversi e divisi se non addirittura contrapposti riuscissero non solo a coesistere ma a farsi Nazione.
Ne è risultato quello che l’Autore acutamente definisce un “centro vuoto” (p. 343), in cui le fragilità politiche e governative hanno condotto dapprima al costituzionalismo debole dello Statuto Albertino e, successivamente a crisi frequenti che hanno esposto la neonata Italia liberale al drammatico avvento del fascismo.
L’Autore non trascura i pesantissimi lasciti delle guerre, non solo di quelle Mondiali, analizzate in pagine (p. 207 e ss.) in cui si dedica a una puntuale storia delle istituzioni militari, alla questione romana, alle relazioni tra Stato e Chiesa. Caratteri che non solo non si dissolvono ma tendono al contrario a persistere e a mantenersi vivi, diventando “caratteri costanti della storia dello Stato”, riepilogati nel già menzionato bilancio conclusivo (pp. 327 e ss.).
Cassese non dimentica di sottolineare il fondamentale ruolo dei giuristi, tanto nel campo dottrinale quanto in quello giurisprudenziale i quali, pur facendo ricorso a un “forte statalismo ideologico, condito da teorie dello Stato nate in Germania” (p. 29), sentono la fondamentale rilevanza del loro ruolo di innovativo equilibrio non solo della singola controversia ma del complessivo sistema Paese che cercano di mettere al passo con i grandi modelli degli Stati/Nazione europei.
Tenute a mente le riflessioni sulla Storia d’Italia e delle sue Istituzioni, che si è cercato sin qui di illustrare, le considerazioni senz’altro più interessanti dell’opera in commento riguardano la fase di crisi dell’istituzione statuale nel suo complesso considerata. L’Autore non è, come noto, nuovo a considerazioni di questo tipo e fondamentali risultano moltissime delle sue pubblicazioni in materia (da La crisi dello Stato, Laterza, 2002 al volume Chi governa il mondo?, il Mulino, 2014).
Ecco come l’ultima parte di questa Storia dello Stato, in un capitolo significativamente intitolato “Oltre lo Stato italiano”, l’Autore porta a sintesi le sue riflessioni degli anni e degli scritti precedenti e le inserisce in quest’opera in cui la teoria si fa storia concreta per poi tornare a descrivere, attraverso una valutazione in parte prognostica, il futuro della forma Stato e, conseguentemente, delle genti che lo abitano. Viene illustrato, in tal modo, l’insieme delle trasformazioni prodotte dalla globalizzazione su alcuni elementi e profili essenziali dello Stato, dal rovesciamento della legittimazione, alla deterritorializzazione di alcuni diritti.
Se il diritto internazionale pubblico nasce in quanto singoli Stati sovrani alienano alcune delle loro potestà in favore di organismi sovranazionali, tali organismi hanno progressivamente assunto caratteristiche proprie e, pur in parte svincolati dalle dinamiche della tradizionale legittimazione democratica, risultano oggi i controllori di quegli stessi Stati che ne avevano consentito la nascita (per rimanere alla strettissima attualità, la questione dei giudizi espressi dalle istituzioni europee sulle politiche economiche del Governo italiano è una plastica rappresentazione del fenomeno descritto da Cassese).
L’Autore si dedica, altresì, a una questione rilevantissima ma spesso trascurata, quella della regolazione dei movimenti di capitali a livello globale, anche per sottolineare come i cambiamenti del ruolo e delle forme dello Stato, nella prospettiva della globalizzazione, non portano a una sua scomparsa né a una crisi di sovranità. Se, infatti, lo Stato diventa per un verso più debole, e sembra vittima di decisioni e imposizioni derivanti da un livello più alto, per altro verso esce, forse paradossalmente, rafforzato da questo processo in quanto protagonista, insieme con gli altri Stati, di fenomeni che trascendono i suoi confini e dei suoi poteri tradizionali.
Quello che è un consolatorio limite, il confine, diventa zavorra. Quello che è insopportabile peso, l’invadente ruolo di istituzioni e organi sovranazionali, si fa opportunità.
Si rileva, quindi, come “uno dei più diffusi errori è quello di ritenere che, con lo sviluppo della globalizzazione, gli Stati perdano importanza e siano destinati a scomparire. Invece, mai come con la globalizzazione, gli Stati sono divenuti stabili e hanno ampliato la loro azione” (p. 376).
D’altra parte, e in questo l’Autore coglie senz’altro un punto fondamentale della questione, innumerevoli sono, oramai, i profili del governo delle cose umane che travalicano gli artificiali confini imposti dalla storia politica. Migrazioni, clima, trasporti, finanza e movimenti di capitali non potrebbero in alcun modo essere tenuti sotto controllo da ogni singolo Stato in sé considerato.
In conclusione, le riflessioni svolte in questa senz’altro fondamentale opera inducono Sabino Cassese a immaginare, e proporre, una serie di innovazioni e migliorie necessarie per consentire all’Italia di essere all’altezza dei fenomeni globali.
L’Autore individua in quattro fondamentali punti il confine all’interno del quale inscrivere la questione dello Stato nella contemporaneità: i rapporti Stato-cittadini, l’organizzazione del nuovo Stato nell’era della globalizzazione, il nuovo personale e le nuove procedure necessarie in tale era. Trattasi senz’altro degli aspetti cruciali della questione.
Ci si permette di rilevare come, a fronte delle questioni problematiche prospettate dall’Autore, spontaneo sorga un timore. Lo Stato consegnatoci dalla migliore tradizione filosofico-giuridica occidentale ha assolto, per secoli, alla fondamentale funzione di neutralizzare un altro stato, quello di natura.
Individuato nel contratto sociale l’elemento fondamentale, il nodo gordiano della questione giuspubblicistica nella sua essenzialità, il Leviatano è stato fons et origo di ogni autorità e, conseguentemente, di ogni legge e di ogni ordinamento, positivo e non. L’ordine geopolitico post Westfalia è stato immaginato e si è sviluppato come risposta a quelle che il filosofo Giacomo Marramao acutamente definisce “potestas indirectae” (di veda sul tema il fondamentale Dopo il Leviatano, Bollati e Boringhieri, ult. ed. 2013).
Non sfugge come il consolatorio sistema statuale occidentale realizzato e accettato anche in ragione di una sempre maggiore legittimazione democratica sia stato, in altre latitudini e longitudine, sinonimo di sanguinaria oppressione coloniale.
Sennonché, il crollo quasi definitivo di tale sistema istituzionale, pur nella illustrata nuova funzione dello Stato nella globalizzazione, sembra, altresì, riaprire inesplorati raggi di azione a tali potestas, circostanza che, in considerazione della mancanza quasi totale di legittimazione democratica degli organismi sovranazionali in questione, rischia di favorire l’emergere di un nuovo stato di natura senza un vero nuovo Stato in grado di neutralizzarne i caratteri peggiori.
Sala del Consiglio dei Ministri (Palazzo Chigi). Crediti immagine: Governo Italiano – Presidenza del Consiglio dei Ministri [CC 4.0] attraverso wikimedia.com