Recensione a: Guido Melis, Fare lo Stato per fare gli italiani. Ricerche di storia delle istituzioni dell’Italia unita, il Mulino, Bologna 2015, pp. 312, 24 euro (scheda libro)
Scritto da Francesco Magni
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Da molti decenni uno dei principali e mai seriamente affrontati argomenti di discussione (e di speculazione) politica è la riforma dello Stato e della Pubblica Amministrazione. Per capire la ragione di tali palesate e mai completamente risolte necessità occorre, però, porsi una domanda preliminare.
Qual è stato il ruolo delle istituzioni pubbliche, e soprattutto, per l’appunto, dell’apparato amministrativo, nella costruzione dell’Italia unita? Se Manzoni mise mano al suo Fermo e Lucia e si prodigò nella redazione della versione definitiva dei Promessi Sposi per costruire, definire e consegnare ai posteri quella lingua nazionale che ancora mancava in un Paese imprigionato nei limiti dialettali, cosa hanno fatto le neonate amministrazioni e istituzioni del Regno per dare slancio al nuovo sistema-Paese? E quale, in seconda battuta, è stato il peso che tale apparato ha avuto nelle successive fasi della storia del Paese?
Per fornire una risposta a tali non semplici e cruciali interrogativi, Guido Melis ha pubblicato nel 2015 il volume Fare lo Stato per fare gli Italiani. Ricerche di storia delle istituzioni dell’Italia unita. Proseguendo la sua peculiare e originale ricerca storiografica iniziata nel lontano 1996 con la fondamentale opera Storia dell’amministrazione italiana, il professor Melis, ordinario di Storia delle istituzioni politiche e di Storia dell’amministrazione pubblica presso l’Università di Roma “La Sapienza”, raccoglie nel volume in commento una serie di saggi che riprendono e sviluppano temi già largamente trattati in tale oramai risalente pubblicazione.
L’intuizione che guida l’Autore sta nell’approfondire e nello spiegare con straordinaria capacità espositiva un aspetto della storia d’Italia mai adeguatamente indagato fino all’avvio delle sue pubblicazioni. Se, infatti, da sempre abbondano i contributi sulla storia degli eventi, delle idee e finanche della legislazione, quello della nascita e dello sviluppo (colposamente lento e quindi tardivo) dell’apparato istituzionale e amministrativo italiano è stato un elemento tanto importante quanto poco conosciuto della nostra storia nazionale. Per quanto, come detto, elemento di stringente attualità.
Pur constando di una raccolta di diversi saggi brevi, il volume mantiene una sua sapiente omogeneità e risulta strutturato sulla base della consueta tripartizione della recente storia italiana: dapprima gli anni dell’unità d’Italia e poi della destra e sinistra storica fino al giolittisimo, successivamente le influenze delle riforme del ventennio fascista e, infine, il nuovo stato costituzionale repubblicano.
Domanda preliminare che si pone Melis è quella sul ruolo dello Stato e del suo apparato amministrativo nella costruzione del neonato sistema Paese. Ebbene, attraverso una documentata analisi delle fonti e dei documenti dell’epoca e mediante una tanto puntuale quanto poco confortante analisi comparatistica con gli altri grandi Paesi europei, emerge distintamente come in Italia lo Stato non abbia in alcun modo contribuito a tale fenomeno, a quello che viene definito il “nation building”. Questo risulta figlio di altri e ben diversi attori. Rileva Melis, infatti, come il piccolo Regno di Sardegna abbia realizzato l’unità nazionale attraverso “un mix di fortunate coincidenze” (abilità di Cavour nel gioco delle grandi potenze, la spedizione dei Mille garibaldina, la marginale e poco brillante partecipazione allo scontro franco-austro-prussiano del 1866), il quale ha portato a una “unità largamente dovuta a fattori esterni, realizzata in un Paese [..] disunito sia sul piano dell’economia [..] sia su quello della cultura e della lingua” (p. 17).
In un quadro simile di profonda disomogeneità e a fortissima trazione settentrionale, lo Stato è intervenuto solo in un secondo momento, circa un quarantennio dopo l’Unità, con l’avvio del decollo industriale dei primi del Novecento, allorquando, cioè, si sono palesati e sono emersi fortissimi il bisogno e la necessità di infrastrutture e di adeguati servizi pubblici, come le ferrovie e le poste. Lo Stato, in sintesi, ha semplicemente assicurato e fornito allo sviluppo economico e industriale la stampella minima di cui aveva bisogno. Il tutto, si badi, in un panorama europeo ben diverso e che fornisce un paragone piuttosto impietoso rispetto a quel che avvenne in Italia.
Non solo, infatti, robuste democrazie come Francia e Gran Bretagna, ma finanche la neonata Germania si sono avvalse di forti, massicci, vigorosi apparati pubblici che non si sono limitati ad assecondare e accompagnare lo spontaneismo dello sviluppo economico e industriale ma lo hanno, al contrario, ideato, progettato, guidato secondo la propria peculiare idea di Paese e di interesse nazionale. L’Italia, al contrario, si presentò completamente impreparata all’appuntamento unitario.
È sufficiente pensare come con la nascita nel 1861 del Regno d’Italia non solo non fu previsto un unico supremo consesso giurisprudenziale ma furono, al contrario, istituite nuove Corti di Cassazione cosiddette “regionali”, eredi malcelati degli Stati pre-unitari: la Cassazione di Torino per i territori dell’ex-Regno di Sardegna ed il Lombardo-Veneto, quella di Firenze per il Granducato e i Ducati, la Corte Roma per gli ex possedimenti papali, quelle di Napoli e Palermo per il territorio del defunto Regno delle Due Sicilie. Rimasero poi operanti ben sei istituti parapubblici che emettevano carta moneta e la riforma Giolitti del 1893, che pur limitò tale prerogativa a tre soli istituti, ben si guardò dall’unificarli. Persino la legislazione rimase a lungo disomogenea, permanendo la vigenza di numerosi codici penali preunitari e una molteplicità di diritti regionali.
Alla luce di ciò, l’Autore si chiede se la fama del centralismo dello Stato italiano, a volte addirittura definito eccessivo, non sia, piuttosto, qualcosa da confinare nei meandri del mito. Certamente, segnala Melis, un intento centralista era presente nelle intenzioni dei primi Governi del Regno, ma si è trattato a lungo di un centralismo debole, incompleto, fragile. In poche parole, lo Stato italiano fu costretto ad andare a rimorchio degli interessi industriali, non ne costituì certamente la locomotiva.
Tale fenomeno emerge chiaramente anche dalla quantità e dalla qualità del pubblico impiego. Quasi esclusivamente settentrionale ai suoi primordi, andò progressivamente meridionalizzandosi, in tal modo realizzando quel tacito scambio, quel subdolo patto che ha continuato a caratterizzare il sistema Paese: al ceto medio del Nord si aprirono le porte del lavoro nell’indotto, nella grade e media industria, nei settori economici e avanguardistici; al Sud, quasi radicalmente (forse scientificamente?) escluso da tale possibilità, veniva consegnata la grande opportunità del posto pubblico, per sua stessa natura inamovibile e, pertanto, fonte di tranquillità.
Ecco, allora, come Melis riesce a illustrare con sorprendente e lodevole semplicità quale fu l’influenza del piemontesismo e poi della meridionalizzazione del personale pubblico e, soprattutto, quali gli effetti della «giuridicizzazione» e della fuga dei tecnici dallo Stato. Il notevole aumento, a partire dalla fine del XIX secolo, del numero di dipendenti pubblici dovuto alle necessità cui si faceva cenno poc’anzi, contribuì anche a una progressiva diminuzione qualitativa del personale dipendente dello Stato. Chi aveva le competenze, in poche parole, trovava adeguato rifugio e, soprattutto, adeguata remunerazione nel privato.
L’Autore rappresenta come, ereditata l’antiquata struttura del Regno di Sardegna, la prima vera riforma dell’apparato amministrativo si ebbe solo con Crispi nel 1888 (si veda a tal proposito il Cap. III del volume). Si trattò di un’azione multilivello, ragionata e non improvvisata. Per un verso si statuì che “il numero e le attribuzioni dei ministeri sono determinati con decreti reali”, rendendo così operativo il principio che il Governo è padre padrone sia della sua struttura (determinando il numero dei ministeri) sia del contenuto della sua politica (disciplinando volta per volta attribuzioni, materie, competenze). Per altro verso, appare rilevante l’istituzione della figura del sottosegretario, con il precipuo compito di rappresentare il Ministro in uno dei rami del Parlamento (Camera e Senato) allorquando egli fosse impegnato nell’altro ramo. L’importanza dell’istituzione di tale figura risiede nel fatto che in precedenza, da Cavour in poi esisteva una figura diversa, quella del segretario generale, a volte un parlamentare o più spesso un burocrate di fiducia del Ministro, il quale aveva esclusivamente la funzione di rappresentare il trait d’union tra il vertice politico (cioè il Ministro stesso) e la struttura organizzativa. L’istituzione del sottosegretario comportò la nascita e lo sviluppo di una nuova figura dove il carattere inizialmente ibrido politico – amministrativo progressivamente sfumò in favore del ruolo politico e che vide via via estendersi e ampliarsi compiti e funzioni.
L’Autore passa poi ad affrontare acutamente le ambiguità del fascismo (per un maggiore approfondimento sul tema si rinvia a una pubblicazione dello stesso Autore: Guido Melis, La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fascista, Il Mulino, 2018.) il quale amava proclamarsi ed essere definito come totalitario, salvo poi fare largo uso di personale e strumenti legislativi del periodo precedente. La Parte II del volume, infatti, è significativamente intitolata Quanto è stato fascista lo Stato fascista?.
A fronte del proclamato e declamato statalismo, durante buona parte del Ventennio lo Stato, al contrario, venne aggirato attraverso una serie di espedienti, primi tra tutti gli strumenti del corporativismo e la creazione degli enti pubblici, anche attraverso una senza dubbio sagace capacità di sfruttamento del dualismo tra Stato e partito fascista.
Dalla peculiare prospettiva di indagine che Melis utilizza, è possibile notare come il rapporto tra fascismo e amministrazione fu sin da subito impostato su duplice piano. In primis, con le burocrazie ministeriali Mussolini tenne un atteggiamento improntato alla reciproca non aggressione. Per un verso, infatti, l’apparato amministrativo venne confermato nelle sue funzioni senza imporne la fascistizzazione, se non meramente formale mediante l’adesione al PNF. Al contempo e per altro verso, però, la complessa e già esistente macchina amministrativa dello Stato si mise completamente al servizio delle politiche fasciste. Tale accordo resse per tutto il Ventennio, anche in ragione dei numerosi benefici che furono concessi ai vertici e agli impiegati amministrativi (soprattutto mediante le note politiche edilizie in loro favore).
In secundis, nel ventennio andò progressivamente modellandosi una seconda burocrazia, i cui primi nuclei si erano formati episodicamente nel precedente Stato liberale, e che divenne protagonista di primo piano dello Stato fascista. Tra le due guerre mondiali sorsero, infatti, una miriade di nuovi Istituti aventi compiti paralleli e complementari a quelli dello Stato centrale e il cui personale risultava assunto a contratto a tempo e non inquadrato nelle schiere della burocrazia statale.
Melis segnala come anche questa seconda burocrazia si incardinò su personalità che avevano già fatto ingresso nel mondo dell’amministrazione. Senza dubbio centrale fu la figura di Alberto Beneduce, ex amico e collaboratore di Francesco Saverio Nitti, che ideò molti degli istituti che guidarono la politica economica e industriale italiana del Ventennio (Ina, Imi, Crediop, Icipu, e, soprattutto, l’Iri). Pertanto, se è possibile individuare una fortunata élite amministrativa nella ristretta oligarchia che costruì e organizzò lo Stato dopo il 1861 (pur con tutti i suindicati limiti) e nel gruppo dirigente giolittiano che ha affiancato la prima industrializzazione dell’inizio del Novecento, altrettanto non può dirsi del fascismo. Il fascismo ha, spesso abilmente, diretto e mosso élites professionali già esistenti.
Particolarmente degna di interesse è l’analisi svolta dall’Autore sull’attività del Consiglio di Stato nel corso dello sviluppo amministrativo del Paese e, in modo particolare, durante il periodo fascista. Pur non arrivando mai, per ovvie ragioni, a uno scontro frontale con il potere centrale, i Giudici Amministrativi rivestirono un fondamentale ruolo di mediazione, che consentì in un certo qual modo di arginare le attività governative in molti settori strategici e di evitare una totale fascistizzazione dell’amministrazione. Melis evidenzia, in modo particolare, con quale abilità il supremo Consesso amministrativo, tanto nella sua funzione consultiva quanto nella in quella giurisdizionale, abbia tutelato la continuità statale, inserendo e interpretando le novità della legislazione fascista nel precedente corpus normativo formatosi nell’Italia liberale.
Particolarmente interessanti, infine, sono le pagine che l’Autore dedica alla transizione del secondo dopoguerra. Per un verso, occorre segnalare come la stessa Costituzione regolamenti l’attività della pubblica Amministrazione in soli due articoli, 97 e 98. Per altro verso e parimenti, Melis evidenzia come si trattò di una mera transizione di fatto, in cui non si assistette in alcun modo a una svolta nell’impostazione e nella struttura dell’apparato amministrativo. Tanto che lo stesso procedimento amministrativo ha conosciuto una compiuta e organica normativa esclusivamente nel 1990, con l’entrata in vigore della nota legge n. 241/1990. Prima di allora, una miriade di procedimenti diversi caratterizzava il rapporto tra privato e amministrazione pubblica.
Un primo momento degno di interesse dell’Italia repubblicana si ebbe con i primi governi di centro sinistra e l’ingresso del PSI nel Governo, in cui risultò molto importante il ruolo del ministro socialista Antonio Giolitti che guidava il dicastero del Bilancio e che, anche a causa dell’immobilismo riscontrato sulle politiche di riforma dello Stato, rassegnò le sue dimissioni. Non a caso, neanche la ventata di novità di riforma cui si assistette a partire dal 1968-69 (Statuto dei lavoratori, diritto di famiglia, leggi sul divorzio e sull’aborto) e l’istituzione delle Regioni a Statuto ordinario del 1970 riuscì a portare a una significativa rivoluzione della struttura dello Stato e dell’Amministrazione.
L’Autore sottolinea, infine, come nei decenni successivi si contino numerosissimi progetti di riforma (Giannini, Cassese, Bassanini) i quali, però, anche laddove realizzati come nell’ultimo caso e come avvenuto con la privatizzazione del pubblico impiego, non sono riusciti a curare le antiche ed endemiche debolezze dello Stato, il quale continua a presentare gli stessi limiti dei suoi primordi, pur se plurime volte riformato e all’apparenza molto diverso da quello pensato e costruito dai nostri Padri fondatori.
Il volume in commento è stato dato alle stampe quasi venti anni dopo il suo fratello maggiore, quella fondamentale Storia del l’amministrazione italiana (1861 – 1993) pubblicato nel 1996. Nel corso di questi anni Guido Melis ha dato un contributo fondamentale e, purtroppo, ancora piuttosto isolato alla ricerca storiografica nel campo delle istituzioni.
Fare lo Stato per fare gli Italiani rappresenta una summa fondamentale di tali pubblicazioni e del suo predecessore costituisce continuazione ideale e aggiornamento approfondito. Attraverso diversi angoli prospettici, il più interessante dei quali risulta essere senz’altro quello delle biografie dei protagonisti di alcune importanti fasi della storia del Paese, l’Autore fornisce uno strumento che risulta prezioso non solo per gli addetti ai lavori, ma anche e soprattutto per chi abbia voglia e interesse di comprendere appieno i processi storici che hanno riguardato l’Italia nel suo passato più o meno recente.
Rimane, apertissimo, il tema centrale del libro: le antiche debolezze dello Stato e la totale inadeguatezza degli accorgimenti con cui volta per volta si è cercato di curare tali malattie. Lungi dal voler essere soltanto un saggio ricognitivo, pertanto, il testo di Melis rappresenta, pertanto, anche un grande monito al Legislatore, attuale e futuro. Lo Stato, prima o poi, va fatto davvero, pena la disgregazione degli italiani e dell’identità nazionale.
Crediti immagine: Palazzo di Giustizia di Roma – sede della Corte suprema di cassazione, Mstyslav Chernov, attraverso wikimedia.com