Scritto da Alessandro De Vico
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La percezione che il servizio sanitario italiano sia peggiorato sembra essere abbastanza diffusa; incidono senz’altro i ritardi nell’accesso ai servizi diagnostici e le difficoltà che normalmente si incontrano per accedere alle cure. Il tema è abbastanza noto e ogni tanto, peraltro anche recentemente, riemerge con accese polemiche, in particolare quando si tratta di programmare lo stanziamento di risorse pubbliche economiche.
Tuttavia, la percezione che normalmente il cittadino ha sui servizi, di cui usufruisce, è guidata da una certa stabilità di osservazione, oltreché dalla esperienza strettamente soggettiva; di solito si avverte un meglio o un peggio, ma è difficile che si abbia la sensibilità, fors’anche la preparazione, di notare il mero cambiamento.
Ma il servizio sanitario è veramente peggiorato?
È difficile stabilire se il servizio sanitario italiano sia effettivamente peggiorato, servirebbero metriche attuali da applicare a contesti storici e geografici diversi che ormai non esistono più, anche l’epidemiologia è cambiata e così anche, notevolmente, l’approccio alle cure. L’uso degli antibiotici è diventato più selettivo e si prescrivono con maggior cautela, la conseguenza è che il paziente-cittadino potrebbe avere la sensazione di non ricevere una cura adeguata o tempestiva. L’utilizzo della strumentazione diagnostica è diventata una routine anziché un completamento e un ausilio alla diagnosi; quella tecnologicamente evoluta è poi accessibile solo ad alcuni, gli altri devono attendere o pagare. In alcuni casi il percorso per arrivare a una diagnosi certa, in particolare per determinate patologie, e non solo per le malattie cosiddette “rare”, è molto lungo.
Un altro aspetto interessante, di cui forse si parla poco, è che per motivi complessi è notevolmente aumentato il fattore diagnosi, a tal punto che il nesso consequenziale diagnosi-cura-risoluzione è di fatto messo in crisi in diversi casi. Una prova ne è il fatto che nell’ambito del più complesso fenomeno della digitalizzazione della medicina, è aumentata l’offerta delle visite a distanza, o più precisamente dei consulti medici a distanza. Il consulto è quasi esclusivamente basato sull’anamnesi del paziente e sul referto diagnostico. La visita medica a distanza si basa sulla narrazione del paziente e/o l’evidenza di un esame, elementi che vengono spesso analizzati con competenze manualistiche che, appunto, rischiano di de-professionalizzare la medicina. Ma, fortunatamente, non è sempre così, anche se la differenza spesso la fa l’approccio personale del singolo professionista.
Il servizio sanitario è cambiato, anch’esso è figlio dei tempi, ma altra cosa è dire che è peggiorato; le facoltà universitarie della salute sono sempre molto attrattive ma i giovani medici fanno fatica a trovare strutture adeguate nelle quali operare. Il settore della ricerca scientifica farmaceutica, invece, è ormai un fenomeno globale, l’Italia è un fanalino di coda. Le imprese farmaceutiche italiane, la maggior parte a capitale familiare, faticano nel collocarsi in contesti internazionali, il tutto ovviamente con qualche rarissima eccezione. Eppure, le malattie, quando si curano, si risolvono con i trattamenti farmacologici o con la chirurgia, non esistono “miracoli” se non quelli della ricerca scientifica.
Si tratta di aspetti molto attuali che non sempre sembrano ricevere un adeguato approccio migliorativo. Da un lato ci si focalizza sulle retribuzioni dei medici e infermieri, aspetto comunque non da tralasciare, dall’altra ci si dimentica che forse sono più importanti le strutture e le tecnologie. Dall’altro aumentano le pressioni politiche e regolatorie sui prezzi di farmaci, dimenticandosi che questo fenomeno ormai interessa solo le nuove terapie farmacologiche, e che i costi per la ricerca e la burocrazia associata ai percorsi di approvazione e commercializzazione dei farmaci sono ancora molto alti.
Se quindi, il servizio sanitario è cambiato, prima ancora di darne un giudizio di valore, dovremmo chiederci se è ancora in grado di soddisfare le necessità di chi ne usufruisce, ovvero di coloro per i quali esso è stato concepito. In linea teorica i due aspetti non sono uguali, esserne l’utilizzatore non equivale a esserne il destinatario.
Destinatario o utilizzatore?
Essere l’utilizzatore dei servizi significa essere parte di un processo, caratterizzato da automatismi e momenti decisionali, dettato da procedure, protocolli, allocazione di risorse che sono state concepite per far funzionare il servizio stesso secondo finalità predeterminate. L’utilizzatore è considerato nei processi nella misura in cui tali processi devono poter funzionare, può essere un soggetto decisionale del processo, ma non è fondamentale che ne abbia un beneficio diretto necessario, deve solo poterne usufruire e se ne ha un beneficio è solo la retribuzione di aver svolto una funzione nel processo.
Il destinatario dei servizi è colui per il quale i servizi sono pensati e concepiti, in capo a esso esplode il beneficio o il nocumento degli effetti esplicativi del processo stesso; il destinatario non svolge una funzione nel processo ma è la funzione stessa del processo, il fine ultimo di una serie di equazioni che si realizzano con un risultato. Stabilire e riconoscere che nel processo ci sia un destinatario comporta il riconoscimento di un livello spiccato di soggettività o pluri-soggettività nonché, sotto il profilo strettamente giuridico, il riconoscimento e l’attribuzione di diritti soggettivi esclusivi, fino a definirne la inviolabilità.
Il modello al quale ci ispiriamo
L’Articolo 32 della Costituzione, che «tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della società e garantisce cure gratuite agli indigenti» ha storicamente rappresentato un cambiamento radicale. Da un diritto collocato in una dimensione pubblicistica di controllo autoritario nell’interesse collettivo, inerente all’ordine e sicurezza e di pubblica incolumità (ad esempio, nel caso di epidemie e malattie contagiose) o nella prospettiva meramente assistenziale, si è passati a una dimensione unitaria nella quale confluiscono gli aspetti dell’individuale e del collettivo. Il tutto nella prospettiva di una forte connessione tra il tema della salute e i valori della libertà e della uguaglianza.
La conoscenza del diritto costituzionale ci dà la consapevolezza che quello del diritto alla salute è uno degli istituti maggiormente complessi e difficili, contiene in sé molteplici declinazioni e sfaccettature. Probabilmente, anche come insieme delle democrazie occidentali, quindi quelle che si auto-definiscono essere le maggiormente avanzate dal punto di vista economico sociale, abbiamo ancora molto da imparare nel trovare la migliore concretizzazione di questo diritto.
I sistemi sanitari che si ispirano al cosiddetto “modello Beveridge”[1], si fondano sul concetto che la salute non è soltanto una responsabilità individuale ma anche una responsabilità collettiva; per tale motivo il sistema sanitario nazionale, pubblico, incentrato su una assicurazione obbligatoria, può non escludere l’acquisto di assicurazioni private, che si configurino come volontarie e integrative. Tale modello prevede il finanziamento attraverso la fiscalità generale e un accesso alle prestazioni in base al bisogno, risultando irrilevante il costo delle prestazioni stesse. Il personale è assunto alle dipendenze del servizio sanitario, o in regime di convenzione, e non c’è alcun livello di concorrenza tra essi o tra le strutture sanitarie[2].
Questo modello presenta un sostanziale aspetto negativo e cioè la tendenza a un utilizzo improprio dei servizi sanitari offerti che, da un lato genera un eccesso di domanda, dall’altro il problema delle lunghe liste di attesa per accedere alle prestazioni sanitarie. Il fatto che il finanziamento di un tale modello di servizio sanitario avvenga attraverso la fiscalità generale comporta che il cittadino non abbia la effettiva e reale percezione dei costi, ciò anche al di là di situazioni nelle quali viene richiesto una modesta compartecipazione alla spesa (il cosiddetto ticket). Il sistema sanitario italiano, tuttavia, al contrario di quello del Regno Unito, che è un “modello Beveridge puro”, presenta una complessità caratterizzata dalla regionalizzazione; conseguenza del fatto che, per diritto costituzionale, le Regioni hanno competenza ammnistrativa anche in materia di tutela della salute.
In linea teorica, il modello decentrato presenta dei vantaggi: consente di venire incontro a specifiche esigenze territoriali e dà la possibilità agli enti territoriali di organizzare concretamente i servizi. Tuttavia, il, modello italiano non è solo caratterizzato da una delega gestionale organizzativa alle Regioni, ma anche da una attribuzione di responsabilità nella gestione degli aspetti economici e finanziari[3].
La regionalizzazione e il nuovo regionalismo
Successivamente alla riforma del Titolo V della Costituzione, avvenuta con Legge Costituzionale n. 3 del 2001, la Corte costituzionale si è espressa più volte sul tema dei cosiddetti livelli essenziali di assistenza (LEA)[4], ossia quelle prestazioni minime e garantite dallo Stato concernenti i diritti civili e i diritti sociali, da assicurare su tutto il territorio nazionale; in altri termini quei livelli di prestazioni minime che le Regioni non possono negare.
Con riguardo al tema della salute la Corte Costituzionale ha avuto modo di specificare che i LEA hanno lo scopo di garantire l’eguale godimento del diritto alla salute su tutto il territorio nazionale ed evitare che, in parti del territorio nazionale, gli utenti debbano, in ipotesi, assoggettarsi a un regime di assistenza sanitaria inferiore, per quantità e qualità, a quello ritenuto intangibile dallo Stato.
La legge n. 86 del 2024 dal titolo Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione ha ulteriormente disegnato il quadro generale di quella che potrebbe essere una profonda trasformazione delle funzioni sociali dello Stato italiano, con nuove forme e condizioni di autonomia regionale da definirsi attraverso protocolli di intesa tra lo Stato e le singole Regioni. La Legge in questione è stata già oggetto di vaglio da parte delle Corte costituzionale che con sentenza 14 novembre – 3 dicembre 2024, n. 192 ha ridefinito alcune affermazioni ritenute incostituzionali.
La Legge n. 86 del 2024 utilizza una nuova espressione, definita livelli essenziali delle prestazioni (LEP) senza tuttavia darne una definizione espressa e chiara, ma stabilisce che dovranno essere determinati per le specifiche funzioni concernenti le materie sulle quali le Regioni potranno stipulare intese con lo Stato, tra i quali anche la tutela della salute. Trattandosi di una legge che di fatto attribuisce delega allo Stato per la sottoscrizione di intese quindi, per dare esecuzione alla materia stessa della Legge, ossia i livelli essenziali delle prestazioni, sarebbe stato molto meglio che il legislatore avesse dato una definizione chiara e inequivoca di cosa siano effettivamente i LEP, anche per poterli chiaramente differenziare dai LEA, eventualmente.
Fortunatamente non siamo una condizione di assenza assoluta di definizione, poiché già la Legge di bilancio 2023 all’articolo 1, comma 791 definisce i LEP come soglia di spesa, costituzionalmente necessaria, che rappresenta nucleo invalicabile per erogare le prestazioni sociali di natura fondamentale. Al comma successivo precisa che una cabina di regia provvederà a determinarli nell’ambito degli stanziamenti di bilancio a legislazione vigente.
Sembrerebbe quindi ancora aperta la questione se i LEP saranno dei livelli minimi, ossia condizionati finanziariamente o, invece, essenziali e quindi in funzione dell’esigenza di soddisfare dei bisogni considerati essenziali in quanto connessi a diritti fondamentali.
La differenza tra i due concetti è sostanziale dal punto di vista giuridico, soprattutto alla luce delle posizioni espresse dalla Corte costituzionale, la quale ha affermato che «l’assoggettamento ai vincoli dei ripiani di rientro del disavanzo sanitario impedisce di incrementare la spesa sanitaria per motivi non inerenti alla garanzia delle prestazioni essenziali e per spese dunque non obbligatorie». Le prestazioni essenziali sono pertanto garantite a prescindere dal fatto che la Regione sia una situazione finanziariamente equilibrata. Peraltro, non appare ancora chiarissimo se i LEP verranno definiti dallo Stato con una certa autonomia, un aspetto che sembrerebbe più probabile alla luce del testo normativo e se, dall’altro lato, essi andranno a sostituire i LEA ovvero si aggiungeranno a essi, con la conseguenza di non irrilevanti questioni interpretative e di coordinamento dei due ambiti.
Il The Lancet: la digitalizzazione, la regionalizzazione, la ricerca
In un contesto così sommariamente delineato, la materia della salute e dell’assistenza sanitaria appare coinvolta anche in un processo di radicale trasformazione, dovuto prevalentemente a due aspetti: l’uno la digitalizzazione, l’altro la protezione dei dati personali e di salute che sono diventati una vera e propria ricchezza per la ricerca scientifica.
La digitalizzazione è un processo e uno strumento estremamente importante se si vuole portare efficienza nell’assistenza sanitaria: rendere disponibili informazioni e far interagire tra loro i vari elementi del sistema, paziente incluso, consentirebbe di ridurre i tempi di accesso, migliorerebbe la diagnosi e la cura, darebbe al sistema stesso la possibilità di analizzare performance e aree di miglioramento. Tuttavia, appare intuibile che tanto più si destruttura il sistema, tanto maggiore è la complessità della rete; all’aumentare dei centri di responsabilità, la digitalizzazione diventa più complessa, economicamente dispendiosa.
L’argomento è stato ripreso da un editoriale del The Lancet, nota rivista scientifica internazionale, del gennaio 2025, dal titolo The Italian health data system is broken[5]. Il titolo, volutamente, sembra indurre timore. L’articolo afferma che una delle maggiori debolezze del sistema sanitario italiano è la frammentazione della infrastruttura dei dati, per cui non esiste un sistema unificato e centralizzato per documentare e condividere cartelle cliniche elettroniche, dati ospedalieri e cartelle cliniche di medicina generale. La principale causa, afferma la autorevole rivista, è l’estesa autonomia regionale che crea frammentazione e inefficienza.
Ciò ha delle conseguenze anche sul sistema della ricerca scientifica, continua l’editoriale, in quanto senza una piattaforma centrale, i ricercatori devono rivolgersi ai comitati etici delle singole istituzioni, che possono negare le richieste senza una giustificazione scientifica sostanziale. Dal 2009, la percentuale di studi autorizzati rispetto al totale è scesa al 15%, segnando un calo significativo. Inoltre, la raccolta dei dati è spesso manuale e di scarsa qualità, rendendo quasi impossibili da condurre studi multicentrici e di alta qualità, ostacolando gravemente la generazione di risultati scientificamente utili. Chiaramente, la legge n. 86 del 2024 è considerata, nell’editoriale, come un fattore peggiorativo della situazione.
Qualche conclusione
È difficile stabilire se il regionalismo sia effettivamente un segnale di peggioramento della situazione o addirittura la causa di un sistema sanitario inefficiente; gli Stati Uniti d’America sono una federazione, la Germania ha anch’essa una forma regionale e la Spagna, che molti dicono ci assomigli (ma non troppo, alla fine) ha una forte regionalizzazione, in qualche caso storicamente molto radicata. E ogni regionalismo porta con sé caratteristiche e fenomeni sociali molto diversificati.
Parimenti, accostare l’inefficienza asserita di un sistema sanitario alla sua capacità di capitalizzare dati, utili anche alla ricerca scientifica, appare alquanto bizzarro. Certamente un sistema efficiente e tecnologicamente evoluto, non burocratico, aiuta anche la ricerca scientifica, ma occorre ritornate al punto di partenza: stiamo disegnando un processo per il destinatario o per l’utilizzatore del servizio?
Nella complessità della realtà odierna, la distinzione dei due aspetti può non essere valida in maniera così netta, il sistema stesso ha bisogno di una certa flessibilità, che tuttavia non perda di vista il fine ultimo che è quello della tutela della salute, attraverso l’assistenza sanitaria.
L’Europa, a differenza degli Stati Uniti d’America, possiede sistema sanitari che riflettono la finalità pubblica di questa tutela, e questo può non sempre rendere agevole l’interazione con l’altro insieme di stakeholder rappresentato dalla ricerca scientifica, che al contrario è prevalentemente finanziato con fondi privati.
Per questo l’Italia o, meglio, la legislazione italiana, può essere considerata all’avanguardia se pensiamo ad esempio alla presenza degli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCCS), la cui disciplina normativa è stata recentemente rivista con la Legge delega n. 129 del 3 agosto 2022 e il Decreto Legislativo n. 200 del 23 dicembre 2022. Si tratta di realtà in cui l’assistenza e la cura convivono con la ricerca scientifica, poiché alla fine i due aspetti possono alimentarsi vicendevolmente.
Il fatto è che, proprio in virtù della intrinseca funzione di ricerca scientifica, sarebbe stato opportuno pensare a una loro collocazione al di fuori del sistema di concorrenza Stato-Regioni; ciò avrebbe consentito tra loro una maggiore interazione e scambio di dati. Ogni IRCCS ha una propria specializzazione in un settore e insieme potrebbero alimentare una rete di ricerca, molto utile anche nelle relazioni con stakeholder privati. La loro collocazione geografica in diverse regioni li potrebbe far diventare centri di riferimento e interscambio tra il sistema regionale e quello centrale.
Ma, d’altra parte, il rischio di creare, inconsapevolmente, un ulteriore centro di potere amministrativo in una complessità già ai limiti dell’efficienza, non sarebbe stato trascurabile. Insomma, siamo – anche – un Paese di buoni principi e spiccate intelligenze, ci manca il pragmatismo per poter dimostrare che l’eccellenza non è solo teoria.
[1] William Beveridge, Social Insurance and Allied Services. Report by Sir William Beveridge, Published by his Majesty’s Stationery Office, Londra 1942.
[2] Davis Benassi, “Father of the Welfare State”? Beveridge and the Emergence of the Welfare State, «Sociologica», 3 / 2010, novembre-dicembre.
[3] Renato Balduzzi e Davide Servetti, La garanzia costituzionale del diritto alla salute e la sua attuazione nel Servizio sanitario nazionale, in Manuale di diritto sanitario, il Mulino, Bologna 2013.
[4] Sentenze della Corte Costituzionale n. 282/2002, n. 387/2007, n. 50/2008, 322/2009, n. 121/2014
[5] Editorial, The Italian health data system is broken, «The Lancet Regional Health – Europe», Volume 48, gennaio 2025.