Trump’s Strategy: il caotico disegno del presidente
- 23 Febbraio 2017

Trump’s Strategy: il caotico disegno del presidente

Scritto da Tiziano Usan

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The right way to “America First”?

Nonostante la presenza di una visione del mondo e l’enunciazione di una serie di politiche atte a contrastare le minacce percepite, sembra che la Grande Strategia di Trump, qualora venisse effettivamente attuata, dovrebbe scontrarsi con una lunga serie di contraddizioni e dilemmi che renderebbero altamente problematico, per non dire impossibile, il raggiungimento degli obiettivi dichiarati.

Una prima importante contraddizione riguarda l’obiettivo di un riallineamento strategico con la Russia da una parte e il desiderio di annientare lo Stato Islamico dall’altra. Infatti appoggiare la Russia (e quindi Assad) senza condizioni, rendendosi complici di bombardamenti indiscriminati senza offrire una soluzione politica in Siria avrebbe come effetto quello di alimentare una guerra civile che, lungi dallo sradicare la minaccia jihadista contribuirebbe a generare nuovi flussi di rifugiati e a fare da volano per le campagne di radicalizzazione dello Stato Islamico.

Inoltre, data l’intesa strategica tra Mosca e Tehran nel teatro siriano, schierarsi con la Russia e Assad significherebbe allinearsi tacitamente all’Iran e alle milizie sciite (come Hezbollah) sotto il suo controllo, favorendo la loro influenza nella regione. Ciò è chiaramente in contrasto con l’intenzione più volte espressa dell’amministrazione di ripristinare la linea dura nei confronti di Tehran e del suo programma nucleare. Dunque, per essere coerente nei confronti della propria retorica anti iraniana, Trump dovrebbe convincere i Russi a rinnegare un utile alleato, il quale risponderebbe a qualsiasi tentativo di estromissione dalla Siria utilizzando le proprie milizie per sabotare la campagna anti ISIS di Mosca e Washington.

Un’altra profonda contraddizione risiede nelle conseguenze avverse che le estreme misure di sicurezza adottate da Trump rischiano di generare sul professato obiettivo di lotta al terrorismo di matrice jihadista. Considerare l’Islam come una minaccia senza operare distinzioni, impedire l’ingresso ai cittadini di paesi a maggioranza musulmana o annunciare l’istituzione di registri specifici rischia infatti di alienare al governo il supporto dei cittadini americani musulmani nella lotta al terrorismo. All’estero, queste stesse misure (così come l’annuncio del trasferimento dell’ambasciata americana in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme) aumenterebbero l’antipatia dei paesi musulmani nei confronti degli Stati Uniti rendendo improbabile una loro partecipazione nella coalizione anti ISIS.

Anche la posizione di Trump riguardo la Russia e gli alleati europei rischia di portare gli Stati Uniti a esiti autolesionisti. Corteggiare Putin minacciando di ritirare le sanzioni imposte per l’invasione dell’Ucraina, mentre si taccia la NATO di obsolescenza e si gioisce di fronte alla Brexit e all’avanzata dei populismi in Europa sembra infatti il modo migliore per distruggere la fiducia degli alleati e rimuovere un fondamentale blocco strategico che ha tenuto in scacco la Russia per più di sessant’anni. Trump, e molti dei suoi più stretti collaboratori non sembrano comprendere che destabilizzare l’Europa indebolirà la posizione contrattuale degli Stati Uniti nei confronti della Russia. Inoltre la NATO è sempre stata il braccio operativo delle Nazioni Unite nonché il mezzo tramite il quale gli Stati Uniti hanno agito per affrontare quasi tutti i problemi internazionali, dunque indebolirla significherebbe, tra le altre cose, perdere la possibilità di dividere l’onere di un intervento tra gli alleati, onere che Trump adduce a causa della necessità degli Stati Uniti di ritirarsi dagli impegni internazionali.

La relazione con la Cina rappresenta forse il punto in cui le contraddizioni della strategia di Trump emergono con più chiarezza. Qui l’obiettivo dell’amministrazione di adottare la linea dura con Pechino nelle questioni economiche e geopolitiche è difficilmente coniugabile con la necessità di fare i conti con la minaccia nucleare della Corea del Nord. Infatti le sanzioni ONU contro il regime di Pyongyang dipendono dall’acquiescenza cinese, che Pechino notoriamente lega allo stato dei rapporti sino-americani. Nonostante ciò il tycoon ha ripetutamente minacciato la Cina con la prospettiva di una guerra commerciale e ha persino rimesso in discussione un caposaldo dei rapporti bilaterali come il “One-China principle” (che regola i rapporti tra Cina, Taiwan e Stati Uniti dal 1992) anche se recentemente ha affermato di voler continuare ad aderire a tale principio. Minacciando gli interessi fondamentali della Cina, Trump rischia di precludere ogni prospettiva di cooperazione sul nucleare nord coreano o su qualsiasi altra istanza internazionale.

Quando, con il dichiarato intento di proteggere il mercato del lavoro americano, Trump ha ritirato gli Stati Uniti dal TPP, ha in realtà consegnato su un piatto d’argento alla Cina l’egemonia commerciale su una zona che comprende più del 40% del PIL globale. Sette dei dodici contraenti del TPP sono infatti divenuti membri della Regional Comprehensive Economic Partnership, un accordo di libero scambio a guida cinese che sicuramente incrementerà l’influenza cinese nella regione. È inoltre innegabile che il TPP rappresentasse una cartina di tornasole dell’impegno americano nel Pacifico ed è certo che il suo abbandono abbia inflitto un duro colpo alla credibilità degli Stati Uniti nell’Asia–Pacifico. In questo clima di sfiducia gli alleati regionali potrebbero cominciare a chiedersi quali garanzie ci siano che gli Stati Uniti manterranno i loro impegni di sicurezza qualora un’effettiva minaccia dovesse presentarsi e nel peggiore dei casi potrebbero essere costretti a riconsiderare il proprio allineamento strategico.

Infine la prospettiva di creare una crisi diplomatica con il Messico sulla questione del famigerato muro renderebbe il controllo dell’immigrazione ancora più difficile, in quanto significherebbe la fine di ogni accordo bilaterale sulla sicurezza delle frontiere. Inoltre la paventata ridiscussione (o ritiro) del NAFTA potrebbe generare una crisi economica in Messico in grado di incrementare ulteriormente i flussi migratori.

In conclusione si può affermare che, durante la campagna elettorale, Trump abbia articolato una serie di proposte strategiche di base che, riunite insieme, possono delineare una Grande Strategia. Tuttavia il numero, la profondità e la centralità delle contraddizioni e delle incongruenze presenti in tali proposte si risolverebbe con ogni probabilità in un coacervo di decisioni contraddittorie passibili di generare esiti fallimentare e addirittura dannosi per gli interessi americani. La grande superficialità della nuova amministrazione nell’approccio alla politica estera è riconducibile al disordinato e scostante processo di elaborazione di tale approccio. Durante la corsa alla Casa Bianca, Trump ha infatti mancato di circondarsi di collaboratori provvisti di un’esperienza credibile in politica estera in grado di bilanciare la sua propensione a lanciare proposte sensazionali senza fare i conti con la necessità di tradurle poi in politiche concrete.

Nel prossimo futuro l’amministrazione Trump dovrà confrontarsi con il difficile compito di riconciliare le varie promesse della campagna elettorale con gli interessi degli Stati Uniti e la realtà internazionale. Mentre il mondo osserva col fiato sospeso gli sviluppi di questa raffazzonata “strategia”, non ci resta che sperare che di fronte agli imperativi dell’interesse nazionale americano gli elementi più moderati e pragmatici dell’amministrazione riescano a mettere ordine nella politica estera statunitense, allontanandola dagli eccessi del presidente Trump.

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Scritto da
Tiziano Usan

Classe '92. Laureato triennale in Relazioni internazionali e Diplomatiche, e laureando magistrale in studi strategici presso l'Università di Bologna. Si interessa principalmente di strategia e geopolitica, con un focus sul continente Asiatico e sulla Cina in particolare.

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