Per tentativi ed errori: la democrazia nel panorama globale. Intervista a Leonardo Morlino
- 27 Novembre 2023

Per tentativi ed errori: la democrazia nel panorama globale. Intervista a Leonardo Morlino

Scritto da Tancredi Bendicenti

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Ormai da tempo prosegue il dibattito sulle difficoltà con cui si confrontano i sistemi democratici, tra crollo della partecipazione, polarizzazione estrema, scadimento della qualità dell’informazione, potenziale alterazione dell’equilibrio dei poteri, effetti politici delle disuguaglianze e della disgregazione sociale. Questi fenomeni sono al centro di questa intervista a Leonardo Morlino, Professore emerito di Scienza politica all’Università LUISS “Guido Carli” di Roma.


Montesquieu, nelle sue Considerazioni sulle cause della grandezza e decadenza dei romani scrisse: «La tirannia di un principe non porta uno Stato più vicino alla sua rovina di quanto l’indifferenza per il bene comune non vi porti una Repubblica». Secondo lei oggi, in quale modo e in quale misura il rapido decremento della propensione al voto, e dunque alla determinazione della politica nazionale, incide sulla qualità delle nostre democrazie? Quali sono le cause di queste dinamiche? Quali, se esistono, le possibili soluzioni?

Leonardo Morlino: Effettivamente esiste un problema di non partecipazione, che ha due fattori di fondo. Il primo comincia ad emergere negli anni Settanta, sviluppandosi poi soprattutto negli anni Ottanta e Novanta nelle grandi democrazie europee e anglosassoni: è coevo e connesso al fenomeno del miglioramento degli standard di vita, e consiste nel fatto che, con la caduta del Muro di Berlino nel 1989, è anche venuta a mancare la principale sfida al mondo democratico. Se non c’è una sfida alla democrazia, la partecipazione appare meno importante, meno utile. Il secondo fattore è il distacco dalle istituzioni, l’alienazione da esse, lo scollamento del rapporto di fiducia tra Stato e cittadini. Questi due elementi coesistono in maniera forte nel caso italiano, ma in realtà sono presenti anche in altri Paesi. Questo è il primo punto da capire. Però, ce n’è un altro, che la retorica della non partecipazione oggi non coglie: si tratta della polarizzazione. Proprio perché i cittadini non partecipano autonomamente, i leader politici reagiscono radicalizzando il contrasto, per spingerli a partecipare. Se un attimo fa ho detto che il primo fattore era l’assenza di sfide, si può dire che la soluzione adottata dalle forze politiche, in molti casi, sia stata l’introduzione artificiale di sfide nuove, come è avvenuto negli Stati Uniti, ma anche in Italia o in altre democrazie europee. Si introduce la polarizzazione per spingere i cittadini a partecipare. Si tratta però di una soluzione non positiva per la democrazia, perché porta ad un grave inasprimento del conflitto tra i partiti e all’interno stesso della società. Determina una più intensa e spesso insormontabile difficoltà nel trovare maggioranze: significa che, per esempio, in quelle decisioni che necessiterebbero di un più ampio consenso, che qualsiasi democrazia è chiamata talora a prendere – si pensi, ad esempio, al sostegno all’Ucraina – queste abbiano il sostegno di maggioranze di governo più ridotte, e con molti distinguo. Potremmo dire che Montesquieu con la sua convinzione sull’impatto negativo dell’indifferenza per il bene comune, purtroppo, si troverebbe oggi di fronte a una situazione molto più complicata, e più difficile da affrontare. Anche perché, nel frattempo, la partecipazione ha cambiato forma. Si è passati dalla centralità del fenomeno della rappresentanza all’uso sempre più invasivo della tecnologia, che è entrata in maniera massiccia nella dimensione della politica. E questo rende molto più facile la manipolazione dell’opinione pubblica.

 

A suo avviso, c’è una correlazione tra accesso all’informazione e partecipazione politica?

Leonardo Morlino: Il filosofo e matematico medievale Niccolò Cusano parlava di coincidentia oppositorum: posizioni opposte, estreme, possono, alla fine, coincidere, e spingere nella medesima direzione. È vero che oggi a nostra disposizione vi è un’ampia possibilità di accesso all’informazione (giornali, televisione, social network, ecc.). Esiste, perciò, una grande possibilità di informarsi e conseguentemente di partecipare. Ma dal punto di vista del messaggio e della trasmissione del messaggio, proprio questo eccesso di informazione e di possibilità di informazione spesso porta i cittadini ad allontanarsene, a non informarsi oppure a diventare confusi proprio perché l’informazione è talmente ricca e presenta punti di vista così diversi che può generare smarrimento. Per evitare però, di dare una raffigurazione esclusivamente negativa di questi fenomeni va ricordato che in realtà, la possibilità di riavvicinare l’opinione pubblica, filtrando le informazioni, discernendo quelle veritiere da quelle false, le ben note fake news, esiste. E spetterebbe proprio ai media: sono molti i servizi giornalistici televisivi che sono attenti a questo spazio. E poi non va dimenticato – lo dobbiamo dire con chiarezza – il ruolo di controllo politico delle corti costituzionali o delle corti supreme in tutte le democrazie che agiscono in questo ambito. Trump, Órban, Morawiecki: si sono tutti resi conto che la questione principale è controllare i controllori. E, quindi, da una parte, controllare alcuni media più autoritativi, più ascoltati, più centrali e, dall’altra, le corti supreme costituzionali. Il ruolo di queste ultime rappresenta l’ostacolo principale che la democrazia può contrapporre all’autoritarismo e che deriva dalla componente liberale del nostro regime politico, preposta a limitare i poteri dei governanti. Torniamo a Montesquieu e al suo ragionamento: uno dei temi principali e più fortunati del suo pensiero è quello della ripartizione dei poteri. Un principio rispetto al quale la situazione attuale presenta un mutamento sostanziale. Oggi non c’è più una tripartizione, esiste nel migliore dei casi una bipartizione. Da una parte, sta il governo e, dall’altra, i soggetti che lo controllano, ovvero l’opposizione parlamentare, la corte costituzionale, i media. Infatti, in una democrazia parlamentare, vi è una stretta collaborazione tra governo e maggioranza in parlamento, ovvero tra potere esecutivo e potere legislativo. Ma il punto centrale, che è emerso sia nelle nostre democrazie che in quelle latinoamericane, è che questo comporta occasioni di attrito e di conflitto, specie tra i governi e le corti costituzionali. Ad esempio, un conflitto del genere è emerso platealmente in Brasile con la presidenza Bolsonaro. Qualche anno fa, ho svolto una ricerca in America Latina sulle reazioni al Covid-19 e sulle trasformazioni che sono avvenute dopo la pandemia. Questo conflitto tra esecutivo e giudiziario è emerso in modo evidente, proprio sulle modalità di gestione della pandemia e delle sue conseguenze.

 

Viviamo in un mondo in cui i cittadini, tendenzialmente, percepiscono un’eccessiva complessità dei problemi e delle questioni che costituiscono la quotidianità politica. Da una parte, il mestiere, l’arte, del governare diventa sempre più complesso e sempre più un gioco di equilibrio, dall’altra invece, spesso, la comunicazione politica tende nettamente alla semplificazione e questo è chiaramente anche determinato dai nuovi media. Insomma, vince le elezioni chi riesce a semplificare di più? Vince il messaggio che riesce ad arrivare nel modo più semplice agli eventuali elettori, oppure questa è una tendenza temporanea? 

Leonardo Morlino: La questione principale è che una comunicazione radicalmente semplificata è anche inevitabilmente più radicale. Qualche anno fa, ho condotto una ricerca, incentrata sull’Italia, sia sulla stampa e la televisione che sui diversi social network, attraverso la quale ho identificato quattro principali forme di manipolazione delle opinioni. La prima l’ho già citata ed è la polarizzazione. Le forze politiche, in questo caso, si pongono come se vi fosse un bivio tra due posizioni tra loro contrastanti e inconciliabili: il cittadino elettore deve scegliere l’una o l’altra. Si divide il mondo in buoni e cattivi, in giusto e sbagliato, ragione e torto. Lo abbiamo visto sia con l’anticomunismo, pur con il comunismo ormai scomparso, nella propaganda che faceva Berlusconi, sia, più recentemente, in una campagna elettorale nel 2022 come quella di Letta per il Partito Democratico (si ricordino i manifesti elettorali che intimavano “Scegli”). La seconda è quella che io ho chiamato saturazione: strettamente collegata alla prima, consiste nella ripetizione incessante di un messaggio, volta a creare l’impressione che non vi siano alternative a quanto da esso affermato. Un buon esempio dell’uso di questa forma di manipolazione è il sistema di gestione dei social network implementato dalla Lega durante la campagna elettorale per le elezioni europee del 2019. La terza forma di manipolazione, anch’essa molto usata, l’ho definita assecondamento o anche rinforzo. Ha una funzione specifica diversa dalle altre: il suo obiettivo primario, in un momento storico in cui l’astensionismo dilaga, è quello di confermare le convinzioni dei propri elettori, portandoli così a votare. Infine, ve n’è una quarta, meno usata: la visione oppositiva. Si propone, cioè, una particolare riforma, volta, almeno apparentemente, alla risoluzione di un problema specialmente sentito da una determinata fascia della popolazione, opponendola per contrasto a quanto le altre forze politiche hanno fatto e soprattutto omesso di fare a riguardo, e, in generale, assumendo una posizione di critica radicale nei confronti delle istituzioni. È il caso, per esempio, della campagna elettorale del Movimento 5 Stelle nel 2018, fortemente incentrata sul Reddito di cittadinanza. Purtroppo, questo è l’ambito comunicativo in cui ci troviamo e, paradossalmente, solo una persona “colta”, con la conoscenza del tema oggetto della manipolazione si può muovere con piena consapevolezza. Ma, dal punto di vista di una visione democratica, non può essere la cultura il discrimine per la partecipazione attiva alla vita pubblica. Significherebbe trasformare la democrazia in qualcosa di aristocratico e minoritario. Vorrebbe dire, cioè, snaturarla radicalmente, privarla delle sue basi e ridurla ad una competizione tra élite professionali, esclusivamente contrastate da altre élite che hanno i propri diversi interessi, soprattutto economici, o sistemi di valori. Una mutazione del genere, nel DNA della democrazia, non può essere accettata. Ma questo è il contesto in cui ci muoviamo in un mondo particolarmente fragile, caratterizzato da una strutturale e generalizzata volatilità degli atteggiamenti e dei comportamenti politici. 

 

Non di rado, in Occidente, il dibattito politico si sofferma insistentemente sulla questione dei sistemi elettorali. La riforma del sistema elettorale può effettivamente costituire un elemento di rivitalizzazione della vita democratica di un Paese? Oppure la richiesta di cambiamento nasce da questioni sostanziali, originate in trasformazioni della società più ampie e complesse, e si sta confondendo la causa con l’effetto? 

Leonardo Morlino: Vi è un punto centrale, il più importante, che in realtà è stato trascurato radicalmente da questo dibattito: si fanno le riforme elettorali per governare. Ma si governa per realizzare quali politiche? Questo è un punto assai rilevante. Come ha dimostrato una certa letteratura – di cui fanno parte anche due mie ricerche recenti, la prima, Equality, Freedom, and Democracy, pubblicata da Oxford University Press nel 2020, e la seconda, Disuguaglianza e democrazia, pubblicata nel 2022 da Mondadori Education – i sistemi elettorali maggioritari rendono virtualmente impossibile decidere e, conseguentemente realizzare politiche di riduzione delle disuguaglianze. Perciò, si possono sostenere soluzioni maggioritarie solo se la riduzione delle disuguaglianze non è un obiettivo primario e si vuole raggiungere solo una maggiore efficacia decisionali e, in alcuni casi una maggiore stabilità governativa. È così perché per la loro stessa logica, collegata a circoscrizioni uninominali, la competizione elettorale che ne deriva privilegia e premia il votante moderato che può dare la vittoria al candidato. Vi è, però, un’eccezione di particolare rilevanza a questa regola generale ed è il caso in cui la situazione politica del Paese risulta essere talmente radicalizzata che il votante moderato non esiste, o non si reca alle urne. In questo caso, necessariamente prevale la posizione radicale. Ciò spiega, per esempio, la vittoria di Trump contro Clinton nel 2016 in uno dei rarissimi casi di rovesciamento della logica maggioritaria. Infatti, i votanti democratici che dovevano sostenere Hillary Clinton alla fine non l’hanno fatto rimanendo a casa e determinandone la sconfitta. Quindi, il punto centrale è quale sistema elettorale per quali politiche. Se non ci poniamo questa domanda, restiamo impantanati in paradigmi ormai superati. È lampante, a tal proposito, il caso del New Labour nel Regno Unito: per vincere nel sistema first-past-the-post (un sistema elettorale a maggioranza relativa in collegi uninominali a turno unico) Blair trasformò radicalmente il programma laburista, rendendolo più moderato. Il risultato paradossale fu che, in quel decennio di governo laburista, le disuguaglianze in Inghilterra crebbero.

 

Nell’attuale sistema economico e sociale spesso non vi è una corrispondenza diretta tra appartenenza sociale e preferenza politica. Le categorie di individui che si trovano in posizione svantaggiata sperimentano processi di atomizzazione sociale e disgregazione Le forze della sinistra politica, che tradizionalmente rappresentavano queste fasce della società, hanno conosciuto una speculare disgregazione. In questo campo anche le esperienze più recenti e quelle in corso non sembrano presentare proposte capaci di configurare un’alternativa e un cambio di direzione rispetto a questa tendenza. Quali sono, a suo avviso, le prospettive per questi soggetti politici? 

Leonardo Morlino: Eravamo abituati, anni fa, a pensare che una persona votasse rispondendo coerentemente ai propri interessi. Oggi sappiamo che non è sempre così. Se analizziamo il voto per Fratelli d’Italia, specialmente nelle elezioni del 2022, osserviamo che una parte importante di esso è provenuta da gruppi sociali con un livello basso di reddito e che, rispetto agli stessi partiti di sinistra, il partito di Giorgia Meloni è andato proporzionalmente meglio proprio tra le fasce di popolazione meno abbienti. Del resto, bisogna tenere presente che questo discorso dell’incoerenza era già ben chiaro nell’Ottocento. Per esempio, vi è un famoso scritto in cui Marx spiega che la struttura non sempre determina la sovrastruttura, ma vi sono delle situazioni in cui avviene il contrario. Ciò significa che, spesso, il comportamento di voto è spiegato da elementi identitari o anche solo dal voler esprimere una protesta e una domanda di cambiamento, e l’interesse economico è sostanzialmente messo da parte. Da questo punto di vista, la sinistra è effettivamente sfavorita perché, da una parte, non possiede più quel senso comunitario/identitario che la ha caratterizzata nel secolo scorso, anzi è molto frammentata, al contrario della destra che ben riesce ancora a richiamarsi al concetto di nazione, con le sue implicazioni e ai valori tradizionali ad essa connessi. Ciò che la sinistra può offrire, invece, è una nuova e più forte concezione di protezione e sicurezza, attraverso un sistema di welfare in cui sia incluso anche il tema del cambiamento climatico, malgrado debba svolgere questo compito in una situazione economicamente sfavorevole. Un ulteriore problema è che, come ci dimostrano i dati dell’Eurobarometro pubblicato lo scorso giugno 2023, solo il 21% degli europei e il 14% degli italiani ritiene che l’ambiente sia un tema importante nella situazione attuale. Il percorso che la sinistra ha davanti a sé non sarà facile, ma dubito esista una direzione diversa da quello che ho appena descritto. È condannata a sostenere queste due chiavi, a portare avanti questi due temi, di cui almeno uno è poco popolare. Non ci è ancora dato sapere se poi avrà successo, anche solo parzialmente. Ciò che è certo, però, è che, come dicevamo prima, una sinistra che abbia come obiettivo principale la diminuzione delle disuguaglianze, potrà prosperare solo in un sistema elettorale proporzionale.

 

Per ora abbiamo parlato solo di Occidente: e la Cina? Esiste una prospettiva democratica? O “grande è la calma sotto il cielo”, all’ombra del monolitismo di un Partito Comunista Cinese che molto ha imparato dal capitalismo?

Leonardo Morlino: Tutte le risposte che ho dato finora erano fondate sui miei studi, sulle ricerche empiriche che ho condotto in questi anni. La risposta che darò a questa domanda è, invece, basata soprattutto su fonti secondarie e sulla mia esperienza di insegnamento a Shanghai, risalente a quasi dieci anni fa. Già allora il quadro sembrava chiaro: la classe dirigente cinese, come è inevitabile che fosse, si era resa conto del fatto che una così ampia crescita economica avrebbe determinato un pluralismo diffuso, pluralismo che eventualmente sarebbe potuto divenire incontrollabile causando, a sua volta, la fine del sistema comunista. Nel 2013 quando insegnavo a Shanghai, infatti, pareva di intravedere i segni di un lento e assai prudente fenomeno di liberalizzazione, di una potenziale transizione da regime strettamente autoritario a regime ibrido. Ma la reazione successiva e relativamente rapida è stata il riconsolidamento istituzionale del Partito, di cui è stato protagonista Xi Jinping. Nel giro di qualche anno, questa apertura si è completamente sgretolata. Si è tornati ad un rafforzamento dell’autoritarismo, con il Partito come istituzione portante e centralizzata. Ciò considerato, il caso cinese è chiuso, e la situazione attuale sembrerebbe essere irreversibile, almeno per i prossimi anni, o decenni. Ma vorrei aggiungere una cosa: questo regime ha sempre e tradizionalmente sostenuto il multilateralismo, ha sempre sostenuto una politica estera di coesistenza. Al tempo stesso è intervenuto massicciamente nell’ambito delle relazioni internazionali, combinando interessi di politica estera a interessi economici, con grossi investimenti in vari Paesi latinoamericani, africani e, in realtà, anche europei. Ciò che è cambiato, rispetto a qualche anno fa, oltre al recente riconsolidamento del regime autoritario, è questa nuova espansione, questo rafforzamento della presenza estera, e anche la posizione molto pericolosa assunta nei riguardi di Taiwan. Si è passati da una situazione di coesistenza di fatto ad una netta rivendicazione territoriale, nei confronti di Taipei, e politica, nei confronti di Washington. Quel multilateralismo così ripetutamente dichiarato ormai rimane solo nei documenti ufficiali, e sempre meno.

 

L’Unione Europea è forse, nella storia dell’uomo, il più grande esperimento di costruzione di un ordinamento sovranazionale che possieda però molte delle competenze proprie di uno Stato. Secondo lei per unire, prima ancora dei governi, i popoli del nostro continente, è sufficiente appellarsi ad una sorta di sentimento internazionalistico, fondato sulla fratellanza, oppure è necessario, anzi più che altro possibile, pensare, in qualche modo, ad un’identità comune europea, che approssimi il concetto di nazione, cioè ad un’idea di Europa che non sia semplicemente un’unione di governi, ma che trovi le sue radici in un insieme di comuni denominatori che fungano da elemento di unità culturale?

Leonardo Morlino: Nei prossimi anni i governi dei ventisette Paesi membri non rinunceranno mai completamente alle proprie prerogative. Questo è il punto da cui dobbiamo partire. Tenendo bene a mente questo, dobbiamo sapere altrettanto bene che un rafforzamento dell’integrazione europea è assolutamente necessario. Perciò, non ci resta che andare avanti per tentativi ed errori, come stiamo facendo. Negli ultimi decenni vi sono stati diversi sviluppi positivi. Recentemente, per esempio, la pandemia ha avuto un effetto positivo nello spingere le istituzioni comunitarie a stanziare i fondi del PNRR, il che è un passo enorme, un avanzamento fondamentale e positivo nel percorso dell’integrazione. Ma se, in fin dei conti, quella del PNRR sarà una storia di successi e avvicinamento, o una di fallimento, non ci è ancora dato saperlo, malgrado alcune voci già pessimiste. Anche in questo caso, la variabile dei governi nazionali, che per loro natura tendono a perpetuarsi e a conservare il proprio potere, non può essere assolutamente trascurata. Rispetto al tema del cambiamento climatico, si tratta del classico esempio di una sfida che gli Stati non possono affrontare singolarmente. Anzi, per alcune politiche, non è sufficiente nemmeno un accordo all’interno dell’Unione Europea. Vi è, poi, la questione della politica estera, dello sviluppo economico, oltre al potere contrattuale internazionale dell’Unione Europea in un mondo dove di fronte alle tensioni tra Stati Uniti, Russia e Cina, l’Europa sembra sempre più piccola e assediata, e i suoi Paesi al di fuori dell’Unione contano meno di zero. Questi sono fatti ovvi, e altrettanto drammatici: dobbiamo procedere a mano a mano, appunto per tentativi ed errori, andare avanti, magari con ottimismo, forse anche con speranza, verso la maggiore integrazione, ma senza ignorare i problemi che la realtà ci pone.

Scritto da
Tancredi Bendicenti

Studente di Giurisprudenza all’Università LUISS “Guido Carli” e studente di Economia e finanza alla “Sapienza” Università di Roma. Ha vinto il concorso di ammissione come allievo ordinario di Scienze giuridiche alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.

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