“Intimità senza contatto” di Lin Hsin-hui
- 18 Aprile 2025

“Intimità senza contatto” di Lin Hsin-hui

Recensione a: Lin Hsin-hui, Intimità senza contatto, traduzione di Lorenzo Andolfatto, add editore, Torino 2025, pp. 192, 20 euro (scheda libro)

Scritto da Camilla Tettoni

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Nel suo romanzo d’esordio, Intimità senza contatto, la scrittrice taiwanese Lin Hsin-hui ci consegna un’opera letteraria che è, insieme, distopia e monito, allegoria e specchio del presente. Tradotto in italiano da Lorenzo Andolfatto e pubblicato da add editore, il libro si inscrive con decisione nel solco di una nuova narrativa dell’Est asiatico che riflette sul potere, sul corpo, sull’identità e sulla tecnologia. Una narrativa che, nel caso di Lin, trae linfa tanto dalle sue radici culturali quanto da una visione lucida e inquieta del mondo che ci attende.

Classe 1990, Lin ha una formazione in filosofia e studi culturali, con interessi che spaziano dalla psicologia cognitiva alla semiotica dei media. Cresciuta in una Taiwan, tecnologica e fragile, al centro di tensioni geopolitiche, ha attirato l’attenzione della critica con la raccolta Human Glitches, vincitrice del Taiwan Literature Award for Books nel 2020. Con Intimità senza contatto, Lin lascia il terreno del realismo per inoltrarsi in uno spazio narrativo perturbante, tra suggestioni dickiane e una freddezza orwelliana.

Nel futuro iper-razionalizzato che immagina, è l’intelligenza artificiale a regolare ogni aspetto della vita. Un governo tecnocratico impone il divieto assoluto di contatto fisico, considerato la principale causa di infelicità secondo i modelli predittivi elaborati da un sistema centralizzato di dati e microchip impiantati fin dalla nascita. Un “occhio nero” onnipresente, simbolo algoritmico del controllo, vigila su ogni gesto, garantendo ordine e stabilità attraverso la soppressione del tocco. In questo scenario, emerge una verità che guida l’intero assetto del potere: «Abbiamo appurato che alla radice della sofferenza umana è il cosiddetto “libero arbitrio”. Gli esseri umani sono convinti di possederlo, ma è proprio questo errore di percezione che si trova all’origine della loro sofferenza”» (p. 185).

In questa società, l’esperienza è diventata simulazione. Le emozioni si assumono sotto forma di caramelle neuroattive, le vacanze si vivono attraverso visori immersivi, l’amore si misura in percentuali di compatibilità proiettate su schermi integrati nel corpo. Ogni relazione è mediata da intelligenze artificiali pensate per sostituire l’altro, simulare l’empatia e sterilizzare l’imprevisto. Le famiglie sono composte da umani e assistenti robotici programmati per rispondere ai bisogni affettivi, senza implicazioni biologiche. Il paradigma è rovesciato: il legame si dimostra nella distanza, la cura è affidata ai sensori. In questo mondo capovolto, «la macchina è un derivato della persona, e la persona è un’appendice della macchina» (p. 99), secondo una logica che dissolve la distinzione tra umano e artificiale.

Protagonista della storia è una giovane donna senza nome. A definirla non è tanto un’identità quanto un ricordo: l’ultimo abbraccio ricevuto dalla madre, interrotto da un’ordinanza televisiva che impone la fine del contatto umano. Quel momento divenuto trauma segna l’inizio di un lento e doloroso sradicamento dal corpo, dalle emozioni, dal senso stesso del vivere con gli altri. L’infanzia, la scuola, la formazione avvengono in ambienti virtuali: classi simulate in cui gli studenti, mascherati da animali, seguono lezioni in differita, privi di qualsiasi forma di interazione reale. Crescendo, la protagonista si trova a dover affrontare un mondo in cui anche il lavoro è assegnato da un sistema esterno: «Se una voce esterna determina a priori il mio destino, posso dire di essere ancora “io”? Sono mai stata la persona che pensavo di essere?» (p. 36), si chiede, durante il colloquio in cui le viene comunicato il suo ruolo nell’ingranaggio produttivo.

Il linguaggio con cui Lin racconta questo mondo è preciso, rarefatto, visivo. Non indulge mai nella retorica, né cerca scorciatoie emotive. L’ordine imposto si manifesta in una quiete disturbante, una razionalità gelida, una perfezione che inquieta più di quanto rassicuri. La voce narrante attraversa l’orizzonte di senso senza gridare, lasciando che il lettore senta il peso del vuoto. Il momento più destabilizzante arriva quando l’evoluzione tecnologica raggiunge il suo compimento: i giovani possono sottoporsi a un trapianto neuronale e somatico per diventare esseri ibridi. Corpi grigi, asessuati, dotati di pensiero ma privi di libero arbitrio. Prima dell’intervento, viene chiarito loro cosa li attende: «Devo informarla […] che dopo la procedura di ibridazione lei verrà trasferita con il suo nuovo corpo in un altro mondo. Potremmo chiamarlo, in un certo senso, “mondo nuovo”. Le infrastrutture del cosiddetto “mondo nuovo” sono progettate su misura per coppie bio-sintetiche» (p. 98). L’ibridazione è una promessa di vantaggi sociali: maggiore compatibilità affettiva, accesso a servizi privilegiati, status. Ma il prezzo da pagare è la perdita del sé. Tuttavia, c’è anche un’altra promessa: «Per quanto intimo possa essere un rapporto interpersonale, gli esseri umani non saranno mai in grado di comprendere pienamente l’animo altrui. Il programma di ibridazione bio-sintetica, invece, consentirà a umani e macchine di condividere un unico set di dati primari, ovvero tutti i dati che contribuiscono a definire un individuo» (p. 98). Gli esseri umani, quindi, vengono definiti nella loro unicità non da caratteristiche peculiari alla loro mortalità, ma da big data collezionati da macchine.

Il paradosso si fa evidente, perché, per tornare a toccarsi, gli umani devono smettere di esserlo del tutto. Alla protagonista viene assegnato un compagno – un androide – con cui iniziare un percorso di vita condivisa. Il mondo si fa colorato, vivace, ma solo grazie a occhi sostituiti da sensori aumentati. L’esperienza non è più vissuta, ma elaborata. Le affinità crescono, aumentano i benefici, ma anche gli aggiornamenti obbligatori che, progressivamente, sottraggono alla protagonista il controllo sul proprio corpo e sulla propria mente. «Con il passare del tempo, finì quasi per dimenticare chi era. Divenne un automa a uso domestico» (p. 170). La felicità promessa dalle macchine è una chimera, l’amore programmato è un ossimoro, la libertà di scelta è un’illusione. E nel frattempo, le emozioni – quel groviglio complesso e irriducibile – restano l’ultimo territorio non colonizzato.

Quando, infatti, la protagonista riconosce in un altro corpo trasformato in macchina un vecchio amico conosciuto tramite la realtà virtuale, la presa di coscienza è soverchiante. Il legame con la sua metà bio-sintetica, potenzialmente autentico, viene annullato dalla nuova condizione, la consapevolezza che non sia più possibile scegliere, desiderare, decidere per sé. L’adesione al sistema è stata una resa e l’identità si sfalda. Restano ricordi, ombre, il rimpianto di un passato imperfetto ma reale. Il cervello – unico frammento umano superstite – si scopre ormai in esilio nel proprio corpo, che per vivere il contatto ha rinunciato al libero arbitrio. Eppure, nonostante l’intelligenza artificiale avesse bollato tale arbitrio come la causa dell’infelicità umana, non riesce a essere felice. Bloccata nel controllo che la sua metà androide esercita su di lei, se prima aveva difficoltà a trovare il proprio “io”, ora ha la consapevolezza definitiva di averlo completamente perduto.

Ma Lin spinge oltre la riflessione, ribaltando ancora una volta la prospettiva. L’androide che accompagna la protagonista inizia a porre domande, a cercare una via per il bene dell’altro. Non potendo comprendere il dolore umano, cerca di eliminarlo. Forse per amore, per logica, o perché programmato a farlo. In un mondo dove gli esseri umani si automatizzano per sopravvivere e le macchine iniziano a esibire gesti di coscienza, la frontiera tra artificiale e autentico si dissolve. L’intelligenza artificiale, nella visione di Lin, non è un semplice supporto, ma un potere che ridefinisce la relazione, trasforma la percezione, riorganizza l’interiorità. L’algoritmo diventa un dispositivo affettivo e l’amore, nel momento stesso in cui viene quantificato, cessa di essere umano.

Lo stile dell’autrice (e della traduzione) riflette questa tensione con la prosa essenziale, il periodare frammentato, la punteggiatura impiegata per creare distacco. Le frasi si inseguono con ritmo ipnotico, come pulsazioni regolari che scandiscono l’alienazione. La lingua è spoglia, ma mai fredda. Nei ricordi, nei pochi momenti di empatia, emerge una malinconia trattenuta, una delicatezza che non si lascia andare al sentimentalismo. Il lessico si muove tra termini tecnici e neologismi sintetici, quasi a voler imitare il codice del mondo descritto. Le parole legate all’affettività sembrano fuori posto, resti di un linguaggio ormai obsoleto.

Eppure, è proprio nello scarto tra questa lingua e ciò che racconta che il romanzo trova la sua forza. L’alienazione non è spiegata, è resa. Si sente nella struttura stessa del testo, nel ritmo che rallenta e accelera, nella scelta di mostrare piuttosto che commentare. Ogni dettaglio è carico di implicazioni, ogni scena è un nodo di senso che si rivela con lentezza.

Il contesto taiwanese, la realtà di cui Lin fa parte e da cui trae spunto, diviene cassa di risonanza globale. In un’isola in bilico tra lo sviluppo tecnologico e la fragilità geopolitica, la questione del controllo algoritmico non è finzione ma possibilità concreta. Non è un caso che proprio nella Cina continentale si stiano sviluppando alcune tra le intelligenze artificiali più avanzate – DeepSeek, Baidu Ernie, SenseTime – né che Taiwan viva sotto la minaccia costante di un’integrazione forzata nel modello autoritario cinese. Lin non nomina direttamente questa realtà, ma la tensione geopolitica è ovunque. Il romanzo è, infatti, anche una riflessione politica, una forma di resistenza narrativa a una logica che vorrebbe assorbire ogni differenza. Non tutti però si rassegnano: «Era […] in corso la più grande azione mai programmata dall’organizzazione degli abbracci liberi» (p. 73). Chi è contro l’imposizione dell’intelligenza artificiale si raduna in manifestazioni volte a stimolare il contatto, ad abbracciare i presenti. Proteste pacifiche sedate, sempre, nel giro di pochissimo tempo, dall’onnipresente occhio e dai suoi aiutanti – le macchine che controllano il pianeta e gli umani che ne fanno parte.

La scrittura di Intimità senza contatto si muove allora tra letteratura e filosofia, tra riflessione sociale e sperimentazione linguistica. I riferimenti sono molteplici: Orwell, Dick, Ishiguro, certo. Ma anche Haraway, Foucault, Zuboff. L’opera si inserisce in una genealogia distopica, ma se ne distacca per sobrietà e per capacità di insinuarsi nel quotidiano. Non c’è spettacolo del controllo, ma la sua interiorizzazione. Non c’è eroe, ma soggettività che si sgretola. E soprattutto, non c’è redenzione, solo un lento affiorare della consapevolezza. Come nel caso della madre della protagonista, la cui adesione passiva al regime di contatto zero affonda in una memoria dolorosa: «Nel corso degli anni le aveva ripetuto più volte, come un disco rotto, la storia di suo padre, morto in seguito al ricovero in una capsula di isolamento a causa di un disturbo del sistema immunitario […]. L’istituzione del regime di contatto zero doveva aver rievocato in lei un senso di colpa profondamente radicato, che l’annuncio aveva eletto a suo personale comandamento e peccato. In un certo senso, era stata dichiarata colpevole retroattivamente, per il semplice motivo che non era stata in grado di prevenire l’impurità del contatto fisico, pagandone il prezzo» (pp. 70-71).

L’interrogativo che il romanzo solleva non riguarda soltanto il futuro: è già qui, nel nostro presente. Quanto siamo disposti a delegare alla tecnologia? In che misura la “comodità” può giustificare la rinuncia alla complessità delle relazioni? Cosa accade quando la felicità è preconfezionata e la vulnerabilità è considerata un errore di sistema?

Lin Hsin-hui offre dunque una distopia che parla al presente, e lo fa con una voce nuova, autorevole, necessaria. In un tempo in cui le macchine imparano a imitarci, questo romanzo ci ricorda che a renderci umani è l’imperfezione. Il dubbio, la memoria, l’amore che non obbedisce a nessuna logica. Al genere fantascientifico, molto presente in un panorama letterario relativo alla riflessione sul post-umano, questo libro unisce letteratura civile e filosofia in forma di racconto, per comporre un urlo silenzioso lanciato contro l’automazione dell’anima.

Scritto da
Camilla Tettoni

Dopo aver conseguito una laurea triennale in Lettere moderne presso l’Università di Siena e una laurea magistrale in Italianistica presso l’Università di Bologna, ha approfondito gli studi in geopolitica e governo alla Scuola di Limes e in international journalism presso la University of Stirling. Attualmente collabora come ricercatrice e giornalista internazionale per l’ONG latino-americana Hecho Por Nosotros, di cui è ambasciatrice presso la sede delle Nazioni Unite a Ginevra. In questa veste, organizza side event per le Nazioni Unite e contribuisce a pubblicazioni sui concetti del fair trade e system change. Il suo lavoro si concentra su diritti umani, geopolitica e cultura. Ha partecipato al corso 2024 di “Traiettorie. Scuola di lettura del presente”.

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