Scritto da Nicola Dimitri
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Elon Musk negli ultimi anni ha assunto un’influenza senza precedenti, passando da innovatore tecnologico a influente attore politico. La sua visione, legata ai concetti di lungotermismo e soluzionismo tecnologico, sta avendo infatti notevoli ricadute politiche su scala globale. In questa intervista a Fabio Chiusi – ricercatore associato presso l’organizzazione no profit AlgorithmWatch e autore di L’uomo che vuole risolvere il futuro. Critica ideologica di Elon Musk (Bollati Boringhieri 2023) – che si occupa delle conseguenze sociali e degli aspetti ideologico-politici delle tecnologie, affrontiamo le implicazioni della visione di Musk e il crescente potere degli algoritmi e dell’automazione nella società contemporanea, evidenziando i rischi per la democrazia quando il controllo tecnologico si concentra nelle mani di pochi individui non soggetti al consenso democratico.
Il suo ultimo libro, L’uomo che vuole risolvere il futuro, è dedicato prettamente alla figura di Elon Musk. Come è arrivato a interessarsene e chi è esattamente Musk? Quali sono le tappe cruciali che ne hanno segnato il percorso e l’etica o l’ideologia, se esiste, che ispira e guida le sue scelte?
Fabio Chiusi: Ho iniziato a seguire Elon Musk da qualche anno, quando il suo nome non era ancora sinonimo di innovazione e rivoluzione tecnologica ma già trasmetteva una visione fuori dal comune. Ciò che mi colpì fin da subito non fu soltanto ciò che, come imprenditore, faceva, ma soprattutto ciò che diceva. Sin dagli esordi, infatti, il concetto di futuro è stato il suo leitmotiv, espresso con un’intensità tale da renderlo un punto di riferimento non solo nei libri di marketing e business, ma anche nei media, dalle serie TV ai programmi di approfondimento. Di conseguenza, intorno alla sua figura si è lentamente formato un vero e proprio culto, inizialmente privo di connotazioni politiche esplicite, ma comunque permeato da convinzioni etiche e, in alcuni casi, ideologiche. È in questo modo che ho cominciato ad avvicinarmi a lui, studiandone il personaggio, cercando di comprendere il suo pensiero e il percorso che lo ha portato a diventare ciò che è oggi. Ma non è tutto. C’è un’altra cosa che mi ha colpito e che, per certi versi, ha incentivato ulteriormente il mio interesse nei suoi confronti: le sue idee attingono, più di quanto possa sembrare, a diversi classici letterari e, in particolare, alla saga della Fondazione di Isaac Asimov. Si tratta di un’opera a cui sono molto legato, e scoprire che questo libro ha profondamente influenzato la sua visione del mondo e del progresso umano ha certamente rafforzato la mia curiosità. Se volessimo provare a tratteggiare a grandi linee il percorso che ha segnato Musk, è proprio da questo libro che dobbiamo partire, in quanto ha contribuito ad avviare e incanalare la sua visione del mondo e la sua evoluzione personale e imprenditoriale. Un percorso che non è affatto disordinato, ma segue piuttosto uno schema preciso, che potremmo definite di “maturazione ideologica”. Musk, da protagonista e innovatore della rivoluzione digitale – con un approccio disruptive che ha trasformato i pagamenti online con PayPal e l’industria automobilistica con Tesla – è diventato oggi qualcosa di molto più complesso: il vero e proprio promotore di un’idea di futuro in cui la tecnologia gioca un ruolo centrale nel plasmare il destino dell’umanità. Le tappe fondamentali del suo percorso lo hanno portato a sviluppare progetti come Neuralink, Starlink e SpaceX, che non si limitano a innovare settori industriali specifici della tecnologica di frontiera, ma vanno ben oltre, sollevando questioni cruciali sulla natura dell’intelligenza umana, della coscienza e sulla stessa possibilità di sopravvivenza a lungo termine della nostra specie. Se dovessimo sintetizzare il principio alla base del suo operato, potremmo dire che Musk si percepisce come un individuo eccezionale, dotato di mezzi straordinari, e per questo investito della responsabilità di utilizzarli per il bene dell’umanità. Ma cosa significa davvero “bene dell’umanità”? Si tratta di un concetto talmente ampio e refrattario a definizioni univoche che il solo fatto che un singolo individuo si incarichi (o auto-incarichi) di determinarne il significato desta inevitabilmente preoccupazione. E quando questo individuo possiede il potere e le risorse di Musk, il rischio di una deriva tecnocratica diventa tangibile. Come sappiamo dalle ultime vicende, il percorso di Musk è in continua evoluzione: oggi non si limita più a vestire i panni dell’innovatore, dell’uomo esclusivamente dedito allo sviluppo tecnologico nei settori più disparati. Il suo recente ingresso nella sfera politica segna un passaggio decisivo, rafforzando la sua visione del mondo attraverso il prisma del potere. Un mondo in cui la politica tradizionale cede il passo a soluzioni guidate dalla tecnica e dall’innovazione. L’acquisizione di Twitter (ora X) – altra tappa fondamentale della sua crescita – ha rappresentato senza dubbio un punto di svolta significativo in questa direzione, proiettandolo direttamente nelle battaglie politico-culturali, in particolare in quelle della destra. Attraverso questa operazione, Musk ha consolidato una visione del futuro in cui l’indipendenza dei media, la separazione dei poteri e i limiti istituzionali vengono messi in secondo piano rispetto alla libertà d’impresa e all’innovazione senza freni – a meno che non si tratti di “ingabbiare” un qualche improbabile Terminator prossimo venturo, naturalmente. Guardando il mondo con gli occhi di Musk, potremmo dire che l’idea (l’etica o l’ideologia) che emerge è quella di un futuro in cui la politica coincide con la libertà d’impresa e il potere di innovazione, asseritamente a beneficio dell’umanità. Ma i costi sociali, a partire da quelli che ricadranno sugli ultimi e sugli svantaggiati, di questa impostazione? Non sembrano occupare un posto prioritario nella sua scala di valori.
Come mette in evidenza nel suo libro, il nome e la figura di Musk sono strettamente legati ai concetti di lungotermismo e soluzionismo tecnologico. Questi approcci, seppur con sfumature diverse, condividono la convinzione che la tecnologia rappresenti lo strumento privilegiato per risolvere ogni problema sociale, politico o economico, garantendo la sopravvivenza dell’umanità sia nel presente che su un arco temporale lunghissimo. Quali sono i principi alla base di questa visione del mondo e quanto risultano determinanti per comprendere più a fondo le strategie di Musk?
Fabio Chiusi: Credo che la filosofia che guida Musk vada ben oltre il semplice utilitarismo e si avvicini proprio al lungotermismo, una visione che pone la sopravvivenza e l’espansione dell’umanità come obiettivo prioritario da perseguire nel lungo periodo, anche a scapito delle preoccupazioni sociali e civili immediate e della stabilità delle strutture politiche tradizionali. In questa prospettiva, il bene superiore dell’umanità giustifica la ridefinizione dei paradigmi sociopolitici consolidati, trasformando radicalmente il modo in cui affrontiamo il presente. Il cosiddetto lungotermismo si intreccia inevitabilmente con il soluzionismo tecnologico, ovvero la convinzione che ogni sfida – dal cambiamento climatico alla gestione sostenibile delle risorse, fino alla sopravvivenza della nostra specie – possa essere affrontata e risolta attraverso l’innovazione tecnologica. Secondo queste logiche, la tecnologia non è soltanto un mezzo, ma anche una destinazione: è sia lo strumento per costruire il futuro, sia il luogo in cui quel futuro si realizza. Di conseguenza, i vincoli normativi, politici e sociali tradizionali diventano più un ostacolo da superare che elementi essenziali di regolazione. Non a caso, in questa prospettiva torna il pensiero di Isaac Asimov e la sua Legge Zero, secondo cui il bene futuro dell’umanità deve essere massimizzato a ogni costo, anche sacrificando aspetti individuali o istituzionali. Musk incarna questa filosofia con una determinazione incrollabile, e il futuro che immagina – nel bene e nel male – sta già prendendo forma davanti ai nostri occhi. Se osserviamo più da vicino il paradigma del lungotermismo, scopriamo che esso si basa sull’idea che chi vive nel presente abbia il dovere – a qualsiasi costo – di lavorare per il bene dell’umanità futura, intesa in un’ottica temporale vastissima, che può estendersi per migliaia, se non milioni di anni. Questa prospettiva può sembrare parascientifica, ma in realtà sta già trovando applicazione concreta, perché oggi abbiamo razzi in grado di decollare e atterrare autonomamente, progetti sempre più avanzati per colonizzare Marte e progressi rapidissimi nella robotica e nell’intelligenza artificiale. In questo contesto, il soluzionismo tecnologico e la prospettiva lungotermista si manifestano chiaramente nel pensiero di Musk: la politica è ridotta a un contrattempo, a un ostacolo da aggirare, piuttosto che a un necessario strumento di mediazione tra interessi diversi. Con l’ingresso di Musk nelle stanze del potere, il lungotermismo e il soluzionismo tecnologico assumono perciò connotazioni politiche (e tecnocratiche) precise, incidendo direttamente sulla vita di tutti noi, in quanto si rivelano spesso in contrapposizione con il modello democratico tradizionale. Del resto, la retorica di Musk non è poi così difficile da leggere se guardiamo alla realtà di oggi: se per lui la priorità è garantire il benessere di miliardi di esseri umani futuri, allora il presente diventa sacrificabile. I diritti umani, la giustizia sociale e la democrazia stessa possono passare in secondo piano sull’altare di un più ampio progetto di salvezza a lungo termine dell’umanità.
Nel tempo, attorno alla figura di Musk, si è sviluppato una sorta di culto, una religione semi-laica che lo eleva a salvatore dell’umanità, leader visionario capace di affrontare e risolvere le minacce apocalittiche che incombono sul nostro futuro. Di recente, lo abbiamo visto persino assumere il ruolo di paladino contro la corruzione. Ma quali sono, esattamente, le “apocalissi” da cui Musk dichiara di voler salvare il mondo? E quali sono i rischi insiti in tale narrazione, che in fin dei conti finisce per legittimare in modo demagogico la concentrazione di potere nelle mani di un solo individuo?
Fabio Chiusi: Le minacce che Musk ritiene di dover debellare sono delineate con estrema chiarezza: si chiamano politiche di inclusione, democrazia liberale e valori che potremmo definire progressisti. Tutto ciò ai suoi occhi appare come perbenismo e futile buonismo, e non è soltanto un vincolo ideologico, ma un ostacolo economico all’espansione della civiltà su scala più ampia. Nella sua prospettiva, garantire la sopravvivenza e lo sviluppo del mondo non è più compatibile con i principi fondanti delle società democratiche moderne. In questo senso, nella sua visione, il vero nemico da sconfiggere, la vera apocalisse da evitare, non è altro che la democrazia stessa, con il suo sistema di pesi e contrappesi, le sue regole e i suoi compromessi. Da qui il suo continuo scontro con leader democraticamente eletti, anche europei, ritenuti incapaci di comprendere – o peggio, capaci di ostacolare – la sua visione del progresso. Non è un caso che abbia riservato attacchi feroci a numerosi esponenti politici e istituzionali, trattandoli con sufficienza, accusandoli di corruzione o di diffondere menzogne. Nel suo progetto di “salvare l’umanità” ogni mezzo diventa legittimo, dalla diffusione di fake news al sostegno alla propaganda dell’estrema destra. Ogni strumento è valido, purché rientri nell’ambizioso disegno muskiano di garantire la sopravvivenza della civiltà – un disegno che, per essere realizzato, sembra richiedere un potere il più possibile accentrato e sganciato da vincoli democratici. Appunto, ma a che prezzo e con quali pericoli? Il pericolo di affidare a un’unica persona il potere di decidere il destino dell’umanità risiede proprio nella concentrazione senza precedenti di influenza economica, politica e tecnologica. Già attore chiave nel panorama internazionale grazie ai suoi contratti con governi di tutto il mondo e al controllo di infrastrutture strategiche come Starlink, a seguito della sua vicinanza all’amministrazione Trump, Musk ha visto in questi ultimi mesi rafforzare il suo potere in modo inedito e senza precedenti.
Seguendo il filo di questa intervista, possiamo dire che finora abbiamo tracciato il percorso di Musk: da innovatore con inclinazioni tecnocratiche a vero e proprio attore politico-istituzionale, seppur con modalità spesso non ortodosse. Ebbene, alla luce dei rischi appena delineati riguardo al suo crescente potere sui processi democratici, vale la pena spostare l’attenzione su un aspetto strettamente connesso: il suo ingresso nella sfera politica rafforzerà il “mito Musk” o, come spesso accade quando ci si avvicina troppo ai meccanismi del potere, finirà per logorarne il consenso? Inoltre, specie se guardiamo al modo in cui Musk è entrato nell’arena politica, viene da chiedersi: ha ancora senso parlare di consenso, oggi, nel suo significato democratico?
Fabio Chiusi: Come sappiamo, il consenso è un elemento centrale nelle democrazie liberali, perché rappresenta il meccanismo attraverso cui un governo si insedia e, se necessario, viene rimosso. È un patto costante con la popolazione, un principio cardine della legittimazione politica. Tuttavia, Musk è arrivato nelle stanze del potere – alla Casa Bianca, nei circoli più influenti della politica globale – senza mai essere stato eletto, senza mai essersi candidato. Ha bypassato il consenso, e questo cambia radicalmente la sua posizione rispetto ai tradizionali attori politici. Seguendo questa logica, il suo ingresso nella politica non segue i canoni abituali. A lui il consenso non serve, così come il consenso non serve a un imprenditore per guidare un’azienda. Musk è un potere di fatto che fa politica, senza sottostare alle regole della politica stessa. Non è un caso se ignora i protocolli diplomatici, se non esita a insultare apertamente chi non la pensa come lui o a corteggiare spregiudicatamente chi può essergli utile. Non si comporta come un politico perché non è un politico nel senso tradizionale del termine: è un attore ibrido, un uomo d’affari che ha esteso la sua influenza fino ai più alti livelli del potere istituzionale. Questa è la vera questione: Musk è riuscito a raggiungere una posizione in cui può permettersi di non curarsi del consenso, perché non ha bisogno di conquistarlo per mantenere il proprio potere. Anzi, paradossalmente, proprio la sua posizione di “outsider” lo rafforza. Sedendo nella stanza dei bottoni, si trova contemporaneamente da entrambe le parti del tavolo. Da una parte, è un privato cittadino con enormi interessi economici, fornitore di infrastrutture strategiche per governi e istituzioni; dall’altra, è lui stesso a capo, de facto, di molte istituzioni, con il ruolo di decisore ombra di politiche cruciali. La sua influenza non si limita perciò alla tecnologia: in via concreta, Musk sovrintende alcune infrastrutture digitali e di comunicazione critiche, reti satellitari, infrastrutture di sicurezza nazionale, i viaggi spaziali e le comunicazioni interplanetarie e ha un ruolo determinante anche nell’orientare l’indirizzo politico e l’agenda geopolitica degli Stati Uniti. È difficile immaginare un livello di concentrazione di potere più alto. In questo contesto, il “mito Musk” non è destinato a sfaldarsi come quello di un politico tradizionale, perché il suo potere non si basa sulla fiducia degli elettori, ma sulla capacità di dominare settori chiave del futuro dell’umanità. È una figura che sfugge alle dinamiche classiche della politica e che sta ridefinendo, forse in modo irreversibile, i rapporti tra tecnologia, istituzioni e democrazia.
Veniamo ad alcune delle – apparenti – contraddizioni della figura di Musk. Sul fronte ambientale si presenta come pioniere della sostenibilità con Tesla, eppure supporta politiche che sembrano andare nella direzione opposta, come l’uscita dagli accordi ambientali internazionali degli Stati Uniti. Come si combinano l’attitudine a cambiare il mondo attraverso la tecnologia e l’impostazione conservatrice e reazionaria che egli sembra sostenere, affiancando, di fatto, battaglie populiste di estrema destra?
Fabio Chiusi: Questa domanda permette di smascherare un altro grande equivoco legato alla figura di Musk. Elon Musk ha dimostrato che innovazione, progresso e libertà non vanno necessariamente nella stessa direzione. Se si osserva la storia – e io stesso lo sto facendo per il prossimo libro a cui sto lavorando – si nota come, molto più spesso di quanto si creda, le tecnologie accompagnano e facilitano progetti di matrice repressiva. Prima di diventare strumenti di uso di massa, sono state impiegate per il controllo e il dominio, spesso in contesti autoritari o militari. I regimi politici più repressivi, ancor più di quelli progressisti, hanno sempre investito nella tecnologia, consapevoli del fatto che potesse servire ai loro scopi, cioè migliorare le strategie di guerra, controllare la popolazione, rendere più efficienti i sistemi di sorveglianza e, nei casi più estremi, facilitare la repressione e le deportazioni di massa. Non è un caso che i nazisti avessero un rapporto strettissimo con l’innovazione tecnologica e la sperimentazione scientifica: la tecnologia non è mai stata vista come un ostacolo dai regimi autoritari, né è mai stata guardata con scetticismo. Al contrario, la sua promessa di efficienza e controllo assoluto l’ha sempre resa uno strumento ideale per chi vuole esercitare il potere senza limiti. Questa logica non riguarda solo la storia, ma si riflette anche nel presente. Anche governi democratici, ma non sempre liberali, utilizzano la tecnologia come strumento di controllo, spesso mascherandolo con l’esigenza di sicurezza o protezione. Per anni, ad esempio, si è creduto che i social network avrebbero favorito l’espansione della democrazia: si diceva che Facebook avrebbe aiutato i militanti delle Primavere Arabe a consolidare i loro movimenti e che internet avrebbe reso la Cina più libera. Ma dagli anni Duemila in poi abbiamo iniziato a capire che le esternalità negative della tecnologia – in termini di dominio, sorveglianza e concentrazione del potere nelle mani di pochi – si sono rivelate, in molti casi, ben maggiori dei vantaggi. La tecnologia, infatti, non serve solo a facilitare la comunicazione, la salute o lo sviluppo economico, ma ha da sempre anche una funzione di controllo e repressione. Pensiamo, ad esempio, al modo in cui oggi viene utilizzata nei confronti dei migranti. I confini dell’Unione Europea e degli Stati Uniti sono diventati dei veri e propri laboratori tecnologici (technological testing ground, dice la collega Petra Molnar), dove vengono sperimentati strumenti di sorveglianza che poi, gradualmente, vengono normalizzati e integrati nella vita quotidiana della popolazione. Droni, sistemi di riconoscimento facciale, reti di telecamere intelligenti, monitoraggio satellitare tramite programmi come Copernicus: tutte queste tecnologie non hanno ridotto il numero di morti in mare, né gli attentati terroristici, né la criminalità nelle nostre città, né migliorato l’ambiente. Eppure, la loro presenza è in continua espansione. Tornando a Musk, questo ci aiuta a capire il paradosso della sua figura: da un lato, si presenta come il pioniere della sostenibilità con Tesla, il visionario che vuole “risolvere il futuro” attraverso l’innovazione. Dall’altro, sostiene politiche che sembrano andare nella direzione opposta, come l’uscita degli Stati Uniti dagli accordi sul clima o il sostegno a movimenti populisti e reazionari. Questa apparente contraddizione diventa più chiara se si comprende il suo rapporto con la tecnologia: per lui, del progresso, è importante chi lo controlla. E, nel suo schema di pensiero, il controllo non può essere lasciato alla politica tradizionale, ai governi o alle istituzioni democratiche, bensì a imprenditori visionari capaci di decidere, senza vincoli, quale sia la strada giusta per l’umanità. In questo senso, Musk non è un semplice innovatore, ma un simbolo di una nuova élite tecnocratica che vede la tecnologia non come un mezzo necessario per raggiungere il progresso collettivo, ma come uno strumento per ridefinire, a propria immagine e somiglianza, il destino della società. Ed è qui che si apre una riflessione cruciale: fino a che punto siamo disposti a delegare il nostro futuro a un’élite che si considera al di sopra della democrazia? Quando il potere tecnologico è concentrato nelle mani di pochi e la nostra esistenza viene progressivamente traslata nel dominio del dato, dell’algoritmo e dell’infrastruttura digitale, la vera questione diventa: cosa accade quando la tecnologia, improvvisamente, si rivolta contro di noi? A mio avviso, è questa la sfida globale a cui stiamo andando incontro.
In un’epoca in cui l’influenza dei soggetti che giocano un ruolo chiave in ambito tecnologico è ormai tale da superare i confini tradizionali del potere politico e in cui il proprietario di una sola piattaforma può orientare l’agenda pubblica, si comprende che attorno agli algoritmi si gioca la partita della tenuta della democrazia. Quali sono le maggiori criticità rispetto all’uso sempre più capillare degli algoritmi da parte di governi e aziende? E in che modo l’automazione sta influenzando la società, dalla sorveglianza di massa alle decisioni algoritmiche nei servizi pubblici? In questo contesto, qual è l’obiettivo di AlgorithmWatch, ONG con cui lei collabora?
Fabio Chiusi: Noi di AlgorithmWatch ci occupiamo fondamentalmente di tutelare i diritti umani nell’ambito delle applicazioni sociali degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale. Analizziamo il loro impatto nei settori più critici, come il welfare, la pubblica amministrazione e la gestione delle migrazioni, campi, questi, in cui l’automazione sta ridefinendo le dinamiche decisionali, spesso in modi poco trasparenti e altamente problematici. Personalmente, in passato mi sono occupato anche di sanità pubblica, studiando il ruolo dell’automazione e delle intelligenze artificiali nella gestione della pandemia. Uno dei primi progetti a cui ho lavorato è stata un’ampia ricerca comparativa su una quindicina di Paesi, volta a comprendere come i governi stavano implementando sistemi automatizzati nell’amministrazione pubblica e nei servizi essenziali. Attualmente, sto approfondendo il modo in cui l’Unione Europea concepisce e utilizza l’automazione e l’intelligenza artificiale nella gestione della mobilità umana. Parliamo di un tema che tocca aspetti cruciali, dalla regolamentazione dei viaggi turistici alla gestione delle richieste d’asilo, fino al controllo dei flussi migratori. Queste tecnologie, anche attraverso gli algoritmi, stanno trasformando radicalmente il modo in cui le persone vengono classificate, tracciate e, in alcuni casi, discriminate. Un aspetto centrale di questa trasformazione è lo sviluppo di infrastrutture digitali capaci di gestire in modo capillare i passaggi alle frontiere, con la registrazione automatizzata di ingressi e uscite, e il riconoscimento biometrico. Oggi possiamo dire che l’Unione Europea, che per anni ha cercato di preservare la libertà di movimento all’interno dell’area Schengen, ha contemporaneamente rafforzato le sue barriere esterne, creando quella che è stata definita “Fortezza Europa”. Oggi, questa fortezza si sta evolvendo in una “fortezza automatizzata”, in cui le decisioni cruciali non vengono più prese da esseri umani, ma da sistemi algoritmici. Questi strumenti non si limitano a verificare documenti, ma arrivano a profilare sulla base di criteri algoritmici: stabiliscono chi può attraversare un confine e chi no, analizzano il dialetto parlato per verificarne la compatibilità con l’origine dichiarata, valutano i comportamenti attraverso tecniche di prescreening. In altre parole, siamo di fronte a vere e proprie macchine di profilazione di massa, progettate per distinguere tra chi ha diritto di entrare e chi no, secondo logiche che sono tutt’altro che neutrali. Automatizzare processi così delicati significa delegare a sistemi opachi e spesso fallibili il potere di decidere il destino di milioni di persone. Ma questa deriva non riguarda solo i confini europei. Al contrario. Probabilmente l’Europa è ancora un luogo in cui alcune di queste tecnologie possono essere rese compatibili con la protezione dei diritti. Tuttavia, fuori dall’Europa, questo genere di automazioni si inserisce in un più ampio processo di riassestamento geopolitico, che segna la fine dell’epoca della globalizzazione e il ritorno dei muri, siano essi fisici, virtuali o ideologici. Guardiamo ai leader del nostro tempo, da Musk a Trump, da Putin agli oligarchi della Silicon Valley: tutti stanno contribuendo alla creazione di un mondo in cui la tecnologia non è più sinonimo di apertura e connessione, ma di separazione e controllo. Non siamo più nell’epoca delle porte aperte e dei muri che cadono, ma in quella in cui le barriere si rialzano, sostenute da un’infrastruttura algoritmica che decide chi può passare e chi deve restare fuori.
Il dibattito sull’intelligenza artificiale oscilla tra entusiasmo e allarmismo, mentre gli algoritmi che influenzano profondamente le nostre vite restano spesso opachi, inaccessibili e controllati da pochi. In questo contesto, quali strategie potrebbero garantire una reale trasparenza e accessibilità nell’uso dell’intelligenza artificiale e degli strumenti digitali a beneficio della democrazia? E poi: la trasparenza è ancora un valore centrale nella società di oggi o sta perdendo rilevanza?
Fabio Chiusi: Questo è un interrogativo con cui lavoro ogni giorno. E la risposta è sì: la trasparenza è ancora un valore fondamentale. Quel poco che sappiamo sui sistemi di sorveglianza o sui prototipi di intelligenza artificiale lo dobbiamo alle richieste di accesso agli atti presentate alla Commissione Europea, agli enti pubblici o alle agenzie competenti. Nonostante ritardi, pagine omesse e ostacoli burocratici, il diritto di accesso ai documenti ci permette di ottenere informazioni cruciali. Proprio per questo dovremmo investire, come cittadini, in norme più solide sulla trasparenza e in particolare sull’accesso agli atti (il cosiddetto “diritto di sapere”). Se avessimo leggi migliori sulla trasparenza, potremmo garantire che l’accesso ai dati venga prioritariamente riconosciuto come un diritto pubblico, piuttosto che essere vincolato agli interessi economici delle aziende. Oggi più che mai ci rendiamo conto – anche perché ne sentiamo venir meno la presenza – di quanto la trasparenza sia cruciale. È un valore cardine nel giornalismo, nella politica, nella ricerca e nella scienza. Le dinamiche democratiche e le minacce alla democrazia si giocano proprio su questo terreno. Non è un fenomeno nuovo: il potere ha sempre cercato di sfruttare i mezzi di comunicazione per orientare a proprio piacimento la percezione di “trasparenza” del suo operato. Ciò che è cambiato è la pervasività della tecnologia e la nostra capacità di comprendere cosa sta accadendo. Eppure, la trasparenza rimane la nostra unica vera possibilità di accrescere la consapevolezza e di non accettare passivamente ogni innovazione che ci viene imposta. Dobbiamo ribaltare la prospettiva: non deve essere sempre la società a adattarsi alla tecnologia, ma (con la trasparenza) può essere la tecnologia a doversi adattare alle esigenze della società.