L’impegno pubblico dell’Università. Intervista a Maria Letizia Guerra
- 13 Giugno 2025

L’impegno pubblico dell’Università. Intervista a Maria Letizia Guerra

Scritto da Daniele Molteni

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Maria Letizia Guerra è Delegata per l’impegno pubblico Università di Bologna.


L’economia sociale, nel Piano della Città Metropolitana, propone un modello di sviluppo orientato al bene comune. Secondo lei, quale dovrebbe essere oggi il ruolo dell’università – e in particolare dell’Università di Bologna – nel sostenere e accompagnare questa transizione?

Maria Letizia Guerra: L’Università di Bologna è stata tra le prime, in un segnale coerente con il contesto dell’Emilia-Romagna, a ridefinire le attività di collaborazione con la società: non più semplicemente “terza missione”, ma “impegno pubblico”. E non è una semplice questione lessicale. Il cambiamento di terminologia riflette un cambio di prospettiva, perché non si tratta più di un’attività “aggiuntiva” accanto a didattica e ricerca, ma di una dimensione centrale, fondativa, del nostro agire accademico. La mia delega si chiamava appunto “impegno pubblico” per sottolineare come l’intera comunità accademica debba contribuire alla creazione di valore pubblico. È un concetto che si è evoluto in parallelo con quello di “bene comune”: non solo formiamo studenti, non solo innoviamo con la ricerca, ma siamo consapevoli che tutto ciò che facciamo origina impatto sociale. Negli ultimi anni si è sentita la necessità di rendere più visibile e riconoscibile questo impatto insostituibile che le università generano nei territori in cui operano, anche alla luce di una progressiva riduzione dei fondi pubblici.

 

In che modo questa consapevolezza si è tradotta in pratiche concrete all’interno dell’università?

Maria Letizia Guerra: C’è stata sicuramente la spinta di una grande parte della comunità accademica che sentiva il bisogno di misurarsi con questa responsabilità, ma anche una forte pressione “dall’alto”: le agenzie nazionali, come l’ANVUR, hanno iniziato a chiedere in che modo le università contribuiscano realmente al cambiamento della società. Alle tradizionali e consolidate attività di didattica e di ricerca viene richiesto oggi di essere valorizzate in termini dell’impatto sociale, culturale ed economico; attraverso una narrazione dei cambiamenti intervenuti che contempli aspetti quantitativi. Questo ha portato a una riflessione profonda: l’università è ricca di progetti, ma spesso frammentati, individuali. Serviva una visione più sistemica. È nata così l’idea di lavorare in modo coordinato, promuovendo l’azione collettiva e abbandonando il paradigma dell’accademico solitario. L’obiettivo è passare dall’andare verso la società al mettersi in ascolto della società, per co-progettare soluzioni che rispondano a bisogni reali e condivisi ma anche a desideri e visioni. È un cambiamento di paradigma, che parte dall’ascolto di quelli che sono i bisogni reali e su questi costruisce nuova ricerca e ne misura l’impatto.

Anche per questo motivo, l’Università di Bologna ha presentato a febbraio 2025 ben 34 casi studio per documentare il valore pubblico generato in vari ambiti, dalla tecnologia alla sostenibilità, dagli scavi archeologici fino agli interventi con e per la società. Non ci siamo limitati a raccontare, ma abbiamo avviato politiche interne concrete, come bandi che finanziano progetti di collaborazione solo se accompagnati da una manifestazione d’interesse da parte della società civile. Non basta quindi avere un’idea progettuale: serve una lettera in cui il partner sociale dichiara di avere un bisogno specifico e di essere disposto a co-progettare la soluzione con i ricercatori, gli studenti e il personale tutto. È un meccanismo che sta funzionando, che è ormai al quarto anno, e sta producendo un cambio di mentalità. Un modello di università che ascolta, che lavora in gruppo su tematiche multidisciplinari, che è pronta a riorientare la propria ricerca per rispondere ai bisogni espressi dal territorio. Lo ha sempre fatto ma è oggi sempre più forte la consapevolezza nella comunità accademica del valore che può generare, pronta a mettersi in gioco in modo autentico. Non è un processo che possiamo dire compiuto e siamo ancora lontani da una realizzazione piena, ma oggi la “torre d’avorio” ha tante finestre e porte verso la società ed è disposta a mettere in circolo la conoscenza e la ricerca di cui è depositaria. Personalmente, sono contenta di far parte di questo cambiamento, perché è qualcosa in cui ho sempre creduto, fin da quando ero molto più giovane. Ho sempre lavorato in contesti in cui l’università potesse avere un ruolo attivo nel trasformare la realtà contrastando le disuguaglianze e favorendo l’innovazione. Oggi questa visione ha assunto anche un valore formale, perché finalmente viene riconosciuta e misurata anche a livello di valutazione. Ed è un passaggio importante a mio avviso.

 

Valorizzando la co-progettazione e la co-programmazione come strumenti chiave, il Piano Metropolitano per l’Economia Sociale chiama in causa anche il contributo della ricerca accademica. Quale può essere il ruolo dell’università, soprattutto nei processi che coinvolgono soggetti diversi? E quanto è necessario far dialogare i saperi scientifici con pratiche sociali capaci di generare impatto reale?

Maria Letizia Guerra: Il processo che abbiamo immaginato, e che cerchiamo di attivare, ruota attorno all’idea di innovazione sociale. Faccio un esempio che considero emblematico: riteniamo che i nostri studenti e le nostre studentesse, attraverso tirocini o esperienze di osservazione sul campo, possano agire come vere e proprie sentinelle, capaci di cogliere segnali di cambiamento nei contesti sociali e nei bisogni emergenti. Abbiamo sperimentato questa logica in diversi ambiti, come quello della salute. Per esempio, nel passaggio dalle “case della salute” alle “case della comunità”, un processo complesso e ancora in corso, abbiamo posizionato alcuni tirocini strategici, e lo abbiamo fatto anche nei pronto soccorso. Lì i tirocinanti non svolgono un’attività generica, ma seguono un percorso formativo specifico e tornano con osservazioni concrete e critiche, come ad esempio rilevare la mancanza di figure che possano orientare le persone anziane, dare indicazioni pratiche, offrire una presenza umana. Spesso non basta un cartello con le istruzioni. A quel punto entra in gioco la collaborazione con i nostri ricercatori e le nostre ricercatrici – sociologi, pedagogisti, psicologi, psichiatri – che dialogano con gli enti responsabili del servizio, come l’AUSL. Cerchiamo di diffondere l’idea che c’è un bisogno diffuso di innovazione e che l’innovazione è sempre il risultato della ricerca e dello scambio di conoscenze ed esperienze tra interlocutori diversi tra loro. A volte da queste riflessioni nasce un nuovo modello di servizio. È raro che si arrivi subito alla creazione di una figura professionale nuova, ma si riesce almeno a intercettare esigenze che prima erano invisibili. Il processo è lungo, anche perché le istituzioni coinvolte hanno alti livelli di complessità organizzativa. L’innovazione sociale fatica a entrare in questi spazi, a differenza di quanto accade nella tecnologia, dove ci sono più forti interessi economici. Tuttavia, proprio in questi contesti i ricercatori possono giocare un ruolo decisivo, mostrando per esempio che l’introduzione di nuove figure può alleggerire i costi.

Abbiamo una parte di accademici già abituati a ideare progetti di ricerca-azione e a muoversi nella modalità descritta, spesso unendo competenze di varie discipline e quindi cerchiamo di rendere pubbliche e dare visibilità esterna e interna a queste pratiche affinché contribuiscano alla credibilità dell’accademia e siano di ispirazione per altri ricercatori. Le collaborazioni con la società ci pongono infatti di fronte alla sfida di non agire secondo i settori disciplinari tipici della valutazione della ricerca ma di collegare per quanto possibile i saperi per affrontare la complessità odierna.

 

Per quanto riguarda l’interlocuzione tra istituzione e università, che valutazione ne date?

Maria Letizia Guerra: Gli accordi formali esistono, come immaginabile: accordi quadro, protocolli, convenzioni. Sono presenti in molte forme, ma questo non significa che esista già un processo strutturato in cui tutti gli attori coinvolti collaborano per generare impatto reale sull’economia sociale. Anche le interlocuzioni sono frequenti, soprattutto con i ricercatori più “mainstream” che offrono consulenze puntuali. Tuttavia, a volte manca un reale percorso condiviso in cui ciascuno contribuisca, con responsabilità precise, al raggiungimento di un obiettivo comune, in un’ottica di co-progettazione e co-realizzazione. In sostanza, si resta ancorati a logiche individuali, e questa è una delle criticità maggiori. Certo, ci sono anche buone pratiche e collaborazioni significative ma manca ancora un’effettiva strutturazione dei tavoli di lavoro. È come se nelle interlocuzioni fosse ancora latente un approccio autenticamente orientato al processo: identificare un obiettivo e il suo impatto atteso, assegnare i ruoli, definire le fasi di attuazione e verificare l’impatto realizzato. Su un territorio così ricco di energie e disponibilità, ma altrettanto poco abituato a lavorare con metodo su processi condivisi, questo limite depotenzia l’efficacia delle collaborazioni attivate. C’è però un esempio interessante che può rendere bene l’idea del cambiamento: attualmente una dottoranda dell’Università di Bologna sta portando avanti il suo progetto di ricerca sul tema della Civic University, un modello sviluppato nel Regno Unito nel 2018 da John Goddard. L’obiettivo della sua ricerca è capire se l’università italiana, in particolare bolognese, può essere considerata davvero “civica”, cioè capace di contribuire al bene della città. Il fatto che si dedichi una tesi di dottorato a questo tema è significativo perché indica che c’è un vuoto, un nodo irrisolto. Come accennavo sopra, il coinvolgimento del singolo ricercatore su un tema specifico rimane di grande valore ma va affiancato da una progettazione di più alto livello che permetta alle istituzioni coinvolte di innescare un approccio più sistemico, più cooperativo, più capace di generare un cambiamento favorevole e duraturo.

 

Quali sono i punti principali del modello di Civic University? Potrebbe essere un riferimento utile anche per Bologna, nell’ottica di un’Università più aperta al territorio?

Maria Letizia Guerra: La tesi di dottorato che stiamo seguendo si intitola proprio Bologna Civic University e si concentra esattamente su questo interrogativo: quali linee strategiche dovrebbe adottare l’università di Bologna, insieme alle altre istituzioni del territorio, per essere davvero percepita come “civica”? Non solo in termini di apertura, ma come valore reale per la città, come attore che contribuisce concretamente all’innovazione, al miglioramento della qualità della vita e alla promozione del bene comune. Ci chiediamo, in particolare, cosa manchi perché i cittadini percepiscano l’università in questo modo. Per esempio, quanto è diffusa la consapevolezza che la ricerca può contribuire a contrastare le disuguaglianze? E qui si inserisce il paradigma della Civic University: quanto l’università è capace di entrare in relazione con gli altri attori del territorio – imprese, Terzo settore, istituzioni pubbliche – non come fornitrice di soluzioni “a chiamata”, ma come parte attiva di un sistema che lavora insieme per il bene collettivo? L’università è percepita come interlocutore strategico oppure resta ancora un luogo da cui si prende solo ciò che serve, quando serve? Sono tutte domande ancora aperte. Il paradigma della Civic University è molto affascinante e un altro aspetto interessante di questa borsa di dottorato è che a occuparsene sia un’antropologa che saprà portare una visione capace di abbracciare la complessità: non è solo l’uomo sociale, economico o filosofico, ma un insieme integrato di dimensioni che potrà restituire un percorso per ripensare il ruolo dell’università nella società.

 

Quale può essere il ruolo dell’università rispetto ad alcuni temi chiave del Piano, come l’abitare, il lavoro e il welfare di prossimità?

Maria Letizia Guerra: Sul diritto allo studio, collegato ampiamente al diritto all’abitare per gli studenti fuori sede, l’Università di Bologna rappresenta un riferimento virtuoso a livello nazionale: tutto ciò che poteva essere ottenuto attraverso la normativa vigente è stato implementato aggiungendo anche risorse proprie. Tuttavia, questo non è sufficiente. Il problema della casa è strutturale e profondo, e le università hanno un margine d’azione limitato. Noi collaboriamo attivamente con ER.GO e cofinanziamo tutti gli studentati che riusciamo a sostenere con le risorse disponibili, ma si tratta comunque di interventi che non esauriscono i bisogni espressi dalla comunità studentesca. Servirebbe una chiara volontà politica nazionale per affrontare la questione su scala adeguata. A preoccupare maggiormente è la proliferazione dei collegi privati, molto costosi, che rischiano di aggravare ulteriormente le disuguaglianze sociali.

Sul fronte del lavoro, il problema non è tanto la presenza o meno di occupazione, quanto la qualità di quest’ultima. La questione riguarda la retribuzione, la stabilità, la dignità delle condizioni offerte. Secondo l’ISTAT negli ultimi dieci anni più di 350.000 giovani hanno lasciato l’Italia, spesso senza intenzione di tornare, perché le prospettive occupazionali non sono all’altezza. L’università può fare molto per migliorare le politiche di inserimento nel mercato del lavoro, e i nostri tassi di collocamento sono apprezzabili, ma resta il fatto che molti laureati – soprattutto in ambito umanistico e sociale – faticano a trovare un’occupazione adeguatamente retribuita e stiamo individuando percorsi innovativi per l’inserimento in un mondo del lavoro che è sempre più dinamico e ricco di opportunità.

Infine, sul tema del welfare di prossimità, forse è qui che si vedono i risultati più concreti. A Bologna e nelle città dei suoi Campus, l’università ha condotto ricerche che stanno cambiando l’assetto del welfare per potenziare il diritto alla salute e il contrasto alle disuguaglianze; si tratta di esempi virtuosi che spiegano come la ricerca universitaria possa trasformare le politiche pubbliche per avvicinarle ai bisogni delle persone. La Città Metropolitana di Bologna è certamente consapevole che valorizzare il contributo di ricerca e didattica della sua università è la più significativa azione di creazione di bene collettivo e valore pubblico e l’Università di Bologna è pronta ad incrementare il suo ruolo civico con senso di responsabilità e impegno. 

Scritto da
Daniele Molteni

Editor di «Pandora Rivista», si è laureato in Relazioni internazionali all’Università Statale di Milano e ha collaborato con diverse realtà giornalistiche, tra cui «Africa Rivista», «Lavialibera» e «Modern Insurgent». Si occupa di politica internazionale, questioni sociali e tecnologia. È membro del collettivo giornalistico “Fuorifuoco”.

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