Scritto da Daniele Molteni
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Negli ultimi anni le piattaforme digitali hanno consolidato il loro potere algoritmico, spesso descritto come pervasivo, ridefinendo i rapporti di forza nel capitalismo contemporaneo e cristallizzando i valori neoliberali attraverso il design tecnologico. Lavoratori, creator e cittadini sembrano sempre più governati da sistemi di raccomandazione e classificazione opachi. Tuttavia, alcuni spazi di resistenza a queste logiche e nuove solidarietà iniziano a manifestarsi in tutto il mondo.
Per comprendere le dinamiche del potere algoritmico e le possibilità di agency degli utenti abbiamo intervistato Tiziano Bonini, professore associato in media studies all’Università di Siena e co-autore, insieme a Emiliano Treré, del libro Algoritmi per resistere (Mondadori 2025). In questa intervista, Bonini illustra come, nonostante il design delle piattaforme promuova valori di competizione e individualismo, stiano emergendo forme di mutualismo e cooperazione tra utenti – nella gig economy, nella content creation e nell’attivismo digitale – che potrebbero prefigurare la formazione di una “moltitudine globale” capace di riconoscersi e contrastare il capitalismo digitale, analogamente a quanto avvenuto con le prime forme di organizzazione del movimento operaio.
Nel libro Algoritmi per resistere parlate di agentività algoritmica come risposta al potere delle piattaforme, adottando un “ottimismo della volontà” in contrasto con il pessimismo radicale di filosofi come Mark Fisher. In che modo gli algoritmi consolidano i valori neoliberali nelle piattaforme e perché è fondamentale evidenziare gli spazi di agentività?
Tiziano Bonini: Il nostro approccio riprende il principio gramsciano di essere pessimisti con l’intelletto e ottimisti con la volontà. Non è un vero e proprio ottimismo: riconosciamo che esistono margini di manovra, ma sono limitati. Questi margini di manovra possono consentire ad attivisti e lavoratori di ottenere alcuni benefici, ma non bastano per trasformazioni strutturali, che richiedono un’azione politica e un’organizzazione più solida del lavoro. Gli esempi che riportiamo nel libro sono un punto di partenza e potrebbero generare sviluppi più ampi, perché dimostrano che utenti, lavoratori e attivisti non si limitano a subire il potere delle piattaforme, ma cercano di aggirarlo o negoziarlo. Il nostro contributo sta quindi nel mostrare che, pur in un contesto dominato dagli algoritmi, esistono possibilità di intervento che, se supportate da politiche adeguate e dalla mobilitazione collettiva, potrebbero portare a risultati più significativi. Ma questi spazi da soli non sono sufficienti a giustificare un atteggiamento ottimista. Il potere algoritmico presenta diverse criticità, dalle discriminazioni che colpiscono i cittadini ai meccanismi di controllo sul lavoro. In particolare, nell’ambito lavorativo, le preoccupazioni riguardano la sostituzione dei lavoratori, il peggioramento delle condizioni di impiego, l’automazione e la crescente datificazione delle attività. Detto ciò, la governance algoritmica imposta dalle piattaforme non è un sistema immodificabile o universale: non ha lo stesso impatto su tutti, né è ineluttabile. Non è un fenomeno naturale e proprio per questo non va accettato passivamente.
Infatti, nel libro riprendete il pensiero di Michel Foucault affermando che, se è vero che non c’è potere senza resistenza, allora non c’è potere delle piattaforme senza agentività algoritmica. Quali sono le principali forme di agentività e di resistenza che avete individuato? Come le definite e in che modo si collegano al concetto centrale di “economia morale”?
Tiziano Bonini: L’agentività algoritmica è intesa come la capacità delle persone di modificare, in qualche misura, i calcoli algoritmici e i loro risultati. In altre parole, si tratta della possibilità di intervenire attivamente sui sistemi di raccomandazione o di assegnazione del lavoro attraverso comportamenti individuali o collettivi. Questo permette di alterare almeno in parte l’output dell’algoritmo, evitando di subirlo passivamente. Ad esempio, nella gig economy alcuni lavoratori riescono a adottare alcune strategie per ricevere più ordini di quanti ne otterrebbero normalmente. L’agentività si manifesta quando un’azione produce un risultato concreto: non basta avere un’intenzione, è necessario che l’intervento sull’algoritmo porti a un cambiamento effettivo. Può trattarsi di aumentare il prezzo di un ordine nella gig economy, di ottenere maggiore visibilità per un contenuto culturale, un post sui social o una narrazione politica. L’agentività, quindi, non agisce modificando il codice interno degli algoritmi ma, interagendo con essi dall’esterno, sfrutta le loro logiche per influenzarne il funzionamento. Nel nostro libro abbiamo classificato quattro forme di agentività in base a diversi fattori: le economie morali che muovono gli utenti, le loro competenze tecniche, le risorse economiche e il tempo a loro disposizione. Non tutti gli utenti hanno la stessa capacità di negoziare, aggirare o modificare il potere algoritmico, per questo motivo distinguiamo tra agentività strategica e tattica: la prima implica una pianificazione più complessa e risorse maggiori, mentre la seconda è reattiva e adottata da chi dispone di meno tempo, denaro o competenze.
L’agentività, però, non si distingue solo tra strategica e tattica, ma anche in base al rapporto con l’economia morale delle piattaforme. Alcuni utenti accettano i valori incorporati nel design delle piattaforme – come meritocrazia, competizione tra utenti, precarizzazione e assenza di tutele – e manifestano la loro agentività ottimizzando il proprio comportamento all’interno delle regole imposte. Altri, invece, rifiutano questi principi e adottano strategie alternative, come forme di cooperazione alternative alla competizione. L’economia morale delle piattaforme può essere definita come l’insieme di valori iscritti nel modo in cui le tecnologie vengono progettate e nei comportamenti che incoraggiano, in quanto i proprietari delle piattaforme decidono quali funzionalità includere e quali escludere per orientare l’uso degli utenti in una direzione specifica. Nella gig economy, ad esempio, le app di food delivery non prevedono strumenti di comunicazione tra lavoratori, favorendo così un modello di lavoro individualista e competitivo. Questa scelta impedisce loro di organizzarsi e rafforza il controllo algoritmico, che agisce direttamente su ogni lavoratore senza intermediazioni collettive. Alcuni utenti si conformano a questa economia morale, mentre altri la mettono in discussione e provano a modificarla. Nelle nostre ricerche empiriche abbiamo osservato lavoratori che, invece di competere tra loro, scelgono appunto di cooperare sovvertendo i principi imposti dalla piattaforma. In questo senso, l’agentività algoritmica non è solo una questione tecnica, ma anche un atto politico che può ridefinire le dinamiche di potere.
Questo potere e queste resistenze operano su molteplici livelli e in diversi ambiti, ma nel libro vi siete concentrati sui settori del lavoro, della cultura e della politica. A cosa si deve la scelta di indagare questi ambiti specifici?
Tiziano Bonini: Siamo partiti dallo studio del lavoro digitale, in particolare del food delivery, e successivamente abbiamo esteso l’analisi ad altri ambiti di nostra competenza: Emiliano Treré si occupa di movimenti sociali e attivismo politico, mentre io studio l’industria culturale, i media e il lavoro digitale. Abbiamo quindi deciso di unire le nostre prospettive per confrontare le differenze e le somiglianze tra questi tre settori. Siamo consapevoli che fenomeni simili possono emergere anche in altri contesti, ma il nostro obiettivo era intanto dimostrare che l’agentività algoritmica è una dinamica diffusa e rilevante in ambiti diversi. Noi ne abbiamo studiati tre, ma siamo certi che studi futuri potranno individuare analogie anche altrove e speriamo che altri ricercatori approfondiscano queste dinamiche in nuovi contesti.
Nel libro evidenziate come il capitalismo delle piattaforme abbia spostato l’equilibrio tra capitale e lavoro, rafforzando il primo. Nel settore della gig economy, che analizzate ampiamente, come operano gli algoritmi – talvolta descritti come “esoscheletri manageriali” – e quali forme di resistenza solidaristica adottano i lavoratori?
Tiziano Bonini: La governance algoritmica consente di gestire con pochissime risorse umane una moltitudine di lavoratori. Senza questi sistemi, organizzare migliaia di rider pronti a consegnare ordini il sabato sera sarebbe impensabile: servirebbe un enorme numero di operatori per assegnare manualmente le richieste. L’algoritmo invece automatizza il processo selezionando il corriere “migliore” in base a criteri che sono spesso opachi e che i lavoratori non conoscono del tutto. Tuttavia, sappiamo che costruisce un ranking basato su fattori come la disponibilità nei momenti di maggiore richiesta. Ad esempio, chi non lavora mai nei weekend potrebbe ricevere meno ordini, e questo smentisce la retorica del “puoi lavorare quando vuoi”. L’algoritmo, dal punto di vista di chi lo ha sviluppato, funziona bene perché in questo modo spinge i lavoratori ad essere disponibili nei momenti di maggior lavoro. Se davvero ognuno potesse lavorare quando vuole non ci sarebbero abbastanza lavoratori disponibili in alcuni momenti di picco di domanda.
La governance algoritmica funziona determinando una specie di “coda lunga”, dove una piccola quota di lavoratori riceve tantissimi ordini e guadagna discretamente, mentre la maggioranza dei lavoratori guadagna pochissimo. Dall’altra parte, però, i lavoratori non subiscono passivamente questa logica e hanno iniziato a mettere in discussione la piattaforma cercando di capire come funziona, sviluppando alcune “teorie popolari” più o meno prossime alla realtà dei fatti attraverso il confronto sul funzionamento degli algoritmi. Ad esempio, nelle chat di gruppo private si scambiano trucchi per ottenere più ordini o si coordinano per rifiutare in massa quelli con compensi troppo bassi, costringendo così la piattaforma ad alzarne il prezzo. In questo modo, reintroducono forme di concertazione collettiva che la governance algoritmica aveva tentato di eliminare. Pur trattandosi di resistenze fragili dimostrano una forte solidarietà: si aiutano concretamente e materialmente e si confrontano in continuazione per aggirare un sistema che li vorrebbe isolati e in competizione tra loro.
Nel mondo della cultura, la piattaformizzazione trasforma i creatori di contenuti in microimprenditori soggetti agli algoritmi. Se le piattaforme detengono i mezzi di produzione della visibilità, quali sono le principali tattiche di resistenza dei creator?
Tiziano Bonini: Nel caso della cultura i creatori di contenuti si organizzano nei gruppi chiamati engagement group o pod, dove i membri si mettono like a vicenda per aiutarsi reciprocamente a ottenere più visibilità. È una pratica vietata dagli standard della community di una piattaforma come Instagram, ad esempio, e può sembrare immorale o illegittima, ma permette a molte persone di mantenere la propria visibilità in un contesto dove cambia costantemente l’algoritmo e nessuno sa come funziona. Alcuni creator hanno visto la loro visibilità crollare senza capirne il motivo e si affidano a questi gruppi per restare a galla in termini di visibilità. Nella maggior parte dei casi non si tratta di grandi influencer ma di persone semi-professionali che usano questi meccanismi per arrotondare o per riuscire a sopravvivere facendo di questa attività il proprio lavoro principale.
Dunque, anche qui ritorna il concetto secondo cui pochi possono avere successo mentre una grande maggioranza prova a sopravvivere, spesso organizzandosi con i pochi mezzi a disposizione. In ambito politico parlate invece di “populismo algoritmico”, “propaganda computazionale” e “attivismo algoritmico”. Quali sono le principali forme di resistenza, in questo caso, alla manipolazione algoritmica della partecipazione politica?
Tiziano Bonini: L’agency degli attivisti politici si manifesta in modi diversi e non ha un’unica matrice ideologica: è espressa sia da attivisti di destra che di sinistra. Alcuni cercano di amplificare artificialmente la propria narrazione, mentre altri provano a sabotare quella dell’avversario per impedirne la diffusione. Nelle guerre culturali in rete un esempio è l’inquinamento degli hashtag, una tecnica che può ostacolare il successo di una narrazione o di una campagna online. Un’altra tattica riguarda l’uso di codici e hashtag pensati per aggirare la censura o la moderazione delle piattaforme. In questo caso, ciò permette agli attivisti di continuare a diffondere la propria narrazione e i propri contenuti senza essere rilevati dagli algoritmi di controllo o dai moderatori umani. Tattiche di questo tipo sono particolarmente utilizzate dall’estrema destra, dove la necessità di evitare la censura spinge a sviluppare linguaggi e strategie comunicative capaci di sfuggire ai filtri delle piattaforme.
Quanto pesa realmente il fenomeno dell’information disorder, ovvero la presenza di informazioni inaccurate, false o fuorvianti, nel dibattito politico sulle piattaforme digitali nei Paesi democratici? È davvero un fattore determinante nella polarizzazione dell’opinione pubblica?
Tiziano Bonini: Non credo che l’information disorder abbia un impatto così decisivo come spesso si sostiene. Molte ricerche empiriche dimostrano che questa paura è amplificata soprattutto da politici e giornalisti. Indubbiamente esiste una sovrabbondanza di informazioni (information overload) e gli algoritmi influenzano la visibilità di alcuni contenuti rispetto ad altri, contribuendo alla frammentazione del dibattito pubblico. Tuttavia, la polarizzazione politica non è necessariamente causata dalle cosiddette filter bubble, che nella realtà sono quasi inesistenti. Le piattaforme digitali non espongono gli utenti solo a contenuti affini alle loro idee, ma anche a opinioni contrapposte. Il problema non è tanto l’algoritmo, quanto la tendenza umana all’esposizione selettiva: le persone scelgono spontaneamente di seguire, leggere e credere solo a ciò che conferma le loro convinzioni. Questo fenomeno esisteva già con la televisione e la stampa ed è stato studiato per anni dai sociologi. È vero che la disinformazione è aumentata, ma nella maggior parte dei casi viene semplicemente rilanciata e amplificata da chi è già predisposto a credere a quel tipo di informazioni.
Tra le forme di attivismo digitale citate il caso di Indymedia, che definite un esempio di cyberautonomismo, in contrapposizione a quello che è l’odierno cyberpopulismo, sempre per rimanere nell’ambito dell’agency politica. Quali sono le differenze tra questi due concetti e cosa è cambiato rispetto a quello che era l’utilizzo del digitale nei movimenti sociali negli anni del movimento altermondista?
Tiziano Bonini: Quello che è cambiato è che l’utilizzo è diventato mainstream, nel senso che all’epoca gli attivisti possedevano delle tecnologie che non permettevano loro di parlare con tutti, ma soltanto di parlare fra loro: mailing list, bollettini, web radio. I movimenti successivi – sia di destra, che di sinistra, che populisti – si sono appropriati di queste piattaforme social e hanno spostato la narrazione e la loro voce in luoghi dove sono presenti molte più persone. Questo ha permesso sia a Black Lives Matter che ai suprematisti di destra di ottenere maggiore visibilità.
Gli algoritmi sono alla base di quella che chiamiamo intelligenza artificiale che, secondo Dan McQuillan, citato nel libro, per essere realmente democratica non può limitarsi a essere più etica, ma deve essere antifascista. Quali sono i principali ostacoli alla creazione di intelligenze artificiali e algoritmi maggiormente cooperativi, democratici e non rispondenti a ideologie estrattive?
Tiziano Bonini: I maggiori ostacoli sono tutti più di natura politica che tecnologica. Stanno emergendo in questo senso dei segnali positivi, ad esempio nella gig economy con la creazione di piattaforme cooperative, le cosiddette platform coop, e si vedono segnali interessanti da parte di istituzioni come l’Unione Europea, che ha affermato di voler finanziare sempre più piattaforme digitali e intelligenze artificiali proprie. Questo dimostra la possibilità che emergano alternative al modello capitalista, ma è necessaria una grande volontà politica e una diffusa mobilitazione dal basso che al momento non sembra essere ancora possibile. Questi segnali incoraggianti fanno immaginare però una possibile governance politica diversa, che sostanzialmente conta più delle tecnologie in sé.
L’esodo da piattaforme estrattive come Instagram e X nel momento di manifesto allineamento a Trump di imprenditori come Musk e Zuckerberg che effetto ha avuto? Può essere definito come una, seppur limitata, presa di consapevolezza della necessità di opzioni più virtuose e afferenti a economie morali più vicine ad alcuni utenti, quindi più in linea con valori quali la democrazia, la solidarietà e la cooperazione?
Tiziano Bonini: Il fatto che per la prima volta così tante persone abbiano abbandonato queste piattaforme è il segnale che non sono destinate a durare o ad estendersi per sempre, e che potrebbero andare in rovina o entrare in un lento declino, così come accaduto in passato ad alcuni media che sembrava dovessero vivere per sempre. Vedo due scenari possibili: uno più moderato, dove semplicemente non cambia quasi nulla tranne il fatto che le persone si spostano tra una piattaforma e l’altra, dove esistono più alternative rispetto a prima, ma sono sempre alternative di ambito neoliberale capitalista; l’altro è uno scenario più radicale, più difficile da raggiungere, dove iniziano a fiorire più alternative di tipo civico, cooperativo o comunitario, che acquisiscono sempre maggiore peso. La possibilità per queste alternative di competere davvero con le grandi piattaforme tecnologiche è ancora distante, perché i rapporti di forza sono ancora troppo sbilanciati. Tuttavia, quell’episodio ha reso evidente come forse non tutti si sentano comodi dentro queste condizioni di capitalismo digitale.
A proposito della resistenza a questo dominio, nel libro comparate l’agentività algoritmica non allineata all’economia morale delle piattaforme a episodi legati alle microresistenze dei contadini malesi negli anni Settanta contro i proprietari terrieri studiate da James C. Scott, o ancora alle rivolte del movimento luddista, e a quanto accaduto poi con l’industrializzazione e la formazione di una classe operaia tra XIX e XX secolo. Quali sono le similitudini tra queste esperienze e quanto avete analizzato? Possiamo immaginare di essere agli albori della formazione di una nuova coscienza relativa a quella che definite, riprendendo un concetto elaborato da Toni Negri, “moltitudine”?
Tiziano Bonini: Le maggiori similitudini tra le esperienze di resistenza che abbiamo raccontato e quelle del passato sono legate alla storia del movimento operaio più che ai contadini studiati da Scott, dove però possiamo vedere alcune tattiche come espressione del tentativo di rallentare o fermare l’introduzione di nuove tecnologie così da accrescere il proprio beneficio. La continuità che abbiamo notato è soprattutto quella tra l’epoca pre-sindacalista del movimento operaio e questa fase iniziale di agentività dei lavoratori di piattaforma: in entrambi i casi si può evidenziare la formazione di nuove organizzazioni solidaristiche, che nel caso dei lavoratori di piattaforma non sono ancora state formalizzate, così come all’epoca della prima fase dell’industrializzazione quelle del movimento operaio non costituivano ancora un vero proprio movimento sindacale. Questo potrebbe far presagire, se non una nuova coscienza di classe, perlomeno una moltitudine globale di lavoratori che si sta formando e che sta creando dei vincoli di solidarietà, delle forme ancora primitive di organizzazione, che però non si esauriscono del tutto nella rabbia di protesta. Se guardiamo soprattutto a cosa accade nei Paesi del Sud globale, vediamo come si stiano creando delle reti di lavoratori che potrebbero diventare qualcosa di nuovo, più grande e più strutturato, per confrontare il capitalismo digitale.
Tutto questo può avvenire davvero solo se c’è la saldatura con la politica, già citata in precedenza. La direttiva dell’Unione Europea sui lavoratori delle piattaforme, ad esempio, nonostante una serie di problemi, prova ad andare nella giusta direzione intercettando le richieste che arrivavano dai movimenti di protesta dei lavoratori europei del settore della gig economy. L’Italia, invece, mi sembra da questo punto di vista ancora molto indietro, anche rispetto ad altri Paesi come la Spagna, ad esempio. Negli ultimi anni si sono succeduti diversi movimenti di protesta nel campo del food delivery, sia auto organizzati che organizzati dai sindacati e, anche se ci sono situazioni ancora molto diverse fra Nord e Sud globale, vediamo forme di mutuo supporto tra lavoratori che ritornano in maniera molto simile a quello che accadeva nella prima fase del capitalismo industriale.