Recensione a: Paolo Missiroli, Abitare. Teoria e possibilità di un concetto a partire da Maurice Merleau-Ponty, Mimesis, Milano 2024, pp. 216, 20 euro (scheda libro)
Scritto da Linda Dalmonte
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«La memoria di un fiume deviato dura più di quella dell’essere umano», dicevano alcuni contadini romagnoli guardando i propri campi allagati. Ci sono cose difficili da comunicare. Che le frane di colamento possano protrarsi lentamente per mesi – sono, in un certo senso, vive. Che un fiume non funzioni come l’idromeccanica di un rubinetto, per quanto si creda di poterne controllare il getto solo pulendone il letto, dragandolo – il fiume è un ecosistema. Ci sono argini che, spinti sopra a una certa altezza, perdono validità, collassa la loro stabilità strutturale. C’è come un limite invalicabile – un limite naturale, non annientabile, non culturalizzabile, rispetto a cui non siamo onnipotenti.
Tra il 18 e il 19 settembre 2024, la crisi ecologica ha travolto l’Emilia-Romagna per la terza volta in meno di un anno e mezzo: quattro fiumi e corsi d’acqua sono straripati, esondando o rompendo gli argini, colpendo in molti casi le aree già compromesse dalle alluvioni del maggio 2023 – i fiumi si sono ricordati del loro sentiero. Il mondo naturale ha manifestato la propria potenza, ed è apparso come un resto. Autonomo, non asservibile, capace di agency. Rispetto all’idea di quanti, nel solco di un “discorso prometeico”, riconoscono il dominio incontrastato dell’essere umano, la sua essenza distruttiva su uno spazio docile e inerte, la Natura, come tratti distintivi (e inemendabili) dell’Antropocene; occorre rimettere in discussione i presupposti. La crisi ecologica ha mostrato l’autonomia di un mondo naturale che resiste all’attività umana, reagisce, rimane non appropriabile: un suolo a cui l’essere umano appartiene, e su cui innesta la propria azione, insomma che abita, in un gioco di reciprocità tra attività e passività.
La questione è al centro dell’ultimo lavoro di Paolo Missiroli, il terzo libro a comporre la trilogia pubblicata, dopo Teoria critica dell’antropocene e Il posto del negativo. Se la crisi ecologica fa emergere l’agentività della Terra, la sua “alterità”, mai riducibile a uno spazio omogeneo e passivo, si deve allora tematizzare la condizione di passività intrinseca alla vita umana sul pianeta Terra, insomma l’esposizione dell’umanità al mondo naturale. Il modello dell’abitare che si vuole recuperare è per questo lontano terminologicamente dall’habitare latino, improntato sulla costruzione e sul possedimento di uno spazio passivo, ma ci si rifà al greco οἰκεῖν “stabilirsi”, “installarsi”, che meglio esprime l’idea di una relazione ecologica. E poiché le concezioni dell’abitare sempre presuppongono e si relazionano a una modalità in cui si pensa la struttura dell’Essere, e viceversa, quella che si propone, sul filo del senso dell’ontologia politica di Roberto Esposito, è un’«ontologia oikologica» (p. 30). Un’ontologia «all’altezza della crisi ecologica» (p. 33), che come tale ha presupposti ed effetti di carattere politico: vuole «trasformare le pratiche effettive dell’abitare» (p. 31), recuperando l’idea di limite. Significa, in prima battuta, «accettare la conformazione determinata del paesaggio in cui ci si trova, modificandolo solo entro il limite che esso stesso consente» (p. 59).
Le ontologie oikologiche dello spazio geometrico
Il primo confronto necessario, per questa ontologia ecologica, è con le ontologie dell’abitare moderne, fondate su un paradigma spaziale cartesiano, che molto recuperano del senso latino dell’habitare come possesso. Ripercorrendo gli studi di Edward S. Casey, Missiroli approfondisce la trasformazione che porta il concetto di luogo, con le proprie «specificità storico-naturali» (p. 42), alla sua riduzione a uno spazio geometrico. L’esteriorità, così ridotta a uno spazio inerte e puramente passivo, non offre alcuna resistenza all’attività umana, ma rimane «priva di qualità, resistenza, solidità» (p. 36). Descartes nega alla natura qualsiasi potenza; si tratta di uno spazio temporalizzato, omogeneo tra le sue parti, «estensione pura, quantità assoluta, senza alcuna qualità» (p. 37); un universale astratto incapace di rendere conto dello “spazio dei sensi e dell’esperienza”. Lo spazio prende teoreticamente il sopravvento sul luogo, e produce degli effetti reali: la spazialità geometrica, da paradigma teorico, prepara la direzione dell’azione degli occidentali, fornendo lo sfondo per la relazione (di dominio) tra essere umano e la natura. La calcolabilità generale del pianeta si eleva così a strumento, diventando il primo passo per la sua mercificazione, il suo addomesticamento omogeneo, quindi per la riduzione della natura a materia inerte, a merce, a “risorsa infinitamente disponibile”. Un’operazione che, di fronte alla crisi ecologica e all’emersione di un’agency naturale, trova un limite, perde di attinenza, e dev’essere profondamente ripensata, facendo perno sulla categoria di luogo.
Abitare l’antropocene significa infatti abitare una condizione del nostro agire che è essa stessa attiva, e spesso trova convalida nelle ricerche degli Earth system Science sviluppatesi dalla fine degli anni Settanta, che pure recuperano l’idea di un’autoregolazione del sistema Terra. Questa si comporta per feedback, cicli di retroazione e punti critici mai prevedibili in toto, quindi del tutto incompatibile con l’idea di un globo passivo e informe, e vicino al senso di un’antropologia dell’espressione di Merleau-Ponty. Più sensibile alla specificità storica del territorio è quella che si definisce un’ontologia oikologica del luogo, che nella storia del pensiero riappare con la fenomenologia del Novecento. Il luogo rompe quella polarità assoluta tra attività umana e passività naturale, permettendo una convivenza che prende a parametro la corporeità del vivente, e il suo innesto nel contesto naturale: «il luogo non è una passività pura sulla quale agisce un soggetto: è piuttosto la condizione dell’azione» (p. 44), lo sfondo ineliminabile che sostiene gli abitanti. Si tratta di un campo che esiste indipendentemente dall’azione umana: «è ciò entro cui si dà l’abitare, è l’abitato in quanto potenza autonoma». Il luogo è, con le parole di Merleau-Ponty, il suolo che sostiene l’attività, rispetto cui gli abitanti sono passivi; è lo sfondo che agisce, «ne va dell’abitante» (p. 47).
Presupposti: il realismo di Merleau-Ponty
Nel primo capitolo si cerca pertanto di definire l’abitare come inerenza al mondo, recuperando gli strumenti concettuali per pensare al rapporto di coappartenenza di attività e passività dell’essere umano con la natura. In una significativa rassegna dei principali lavori di Merleau-Ponty, ciò che emerge come filo conduttore è il doppio rimando tra antropologia e ontologia. Tra il gesto umano e lo sfondo che lo sostiene, tra il soggetto e il campo; tra l’atto e «il fondo attivo che consente ogni attività e che si lascia modificare da essa, senza poter mai essere annullato». Così come ogni atto dell’essere umano riposa su un suolo, «su un insieme di condizioni che lo rendono possibile; d’altra parte ogni suolo apre, in quanto tale, un campo di possibilità per alcuni atti» (p. 64). Se collocato sopra questa relazione, diventa possibile pensare all’atto in una declinazione passiva, non “prometeica”, ma situandolo in un orizzonte che insieme delimita e istituisce il suo campo di possibilità. Si tratta quindi di recuperare un realismo espressivo e dialettico – questa l’interpretazione di Missiroli – che permette di evitare la dicotomia del soggetto e dell’oggetto, da cui avrebbero preso piede quelle alternative nei poli rispettivi del meccanicismo (o dell’empirismo ingenuo) e dell’intellettualismo. Da un lato, in poche parole, si fa del soggetto un ricettore passivo di un mondo prederminato; dall’altro, lo si eleva a costruttore assoluto della realtà. Ma se ci si sofferma sul tema della passività, su come ad esempio nel processo dell’attenzione (trattato da Merleau-Ponty nella Fenomenologia della percezione) si profili un “germe di spersonalizzazione”, è più facile comprendere come sia il campo stesso della percezione ad agire, ad assoggettare il soggetto percettivo a un campo che non domina, ma a cui inerisce. «È proprio perché c’è questa inerenza fondamentale che il soggetto può essere rivolto verso il mondo e conseguentemente essere attivo nei suoi confronti» (p. 79), così che «ogni azioni non fa che assumere delle potenzialità già da sempre interne al campo, e realizzarle» (p. 83). A partire dal tema dell’inerenza a un suolo, e dal continuo sfuggimento dell’essere umano da questa appartenenza che dispiega nei suoi gesti, la distinzione tra natura e cultura – nei termini statici di passività e attività – perde definitivamente di senso. In una attenta ricostruzione di questo tema nelle opere di Merleau-Ponty, Missiroli si sofferma sui concetti di espressione, carne, avversità, insieme all’interpretazione psicoanalitica e alla teoria dell’istituzione, lasciando emergere come ogni attività sia possibile sullo sfondo di una passività, fino ad affrontare la questione della Natura. Al centro di alcuni corsi di Merleau-Ponty tenuti nella seconda metà degli anni Cinquanta, il tema della natura chiarifica l’interscambialità continua tra attività e passività, nodo tra vita e abisso, produzione e prodotto: appare come il “non-istituito”, l’inoggettivabile, una potenza abissale: «il nostro suolo, non ciò che è dinnanzi, ma ciò che ci sostiene» (p. 111), il suolo che sostiene la funzione simbolica. E viene compresa in un’ontologia che fa dall’essere qualcosa di «profondo, cioè cosparso di non-essere, di non visibilità, di inappropriabilità» (p. 116), in cui il negativo diventa piega, cavità, fessura; coincide con il lato non visibile, non ancora emerso, di ciò che è visibile – ne è imminente.
Abitare la Terra: verso un’ontologia oikologica del luogo, e le sue possibilità politiche
È a partire dalla dialettica attivo-passivo, tentando di renderla operativa, che nel secondo capitolo si apre un confronto critico con la geografia fenomenologica, per meglio comprendere l’abitare la Terra nell’antropocene, e la geograficità costitutiva dell’essere umano. Sono discussi e ripresi i lavori di Eric Dardel, quindi la centralità della dimensione terrestre e la sua influenza nei confronti di un soggetto che è da essa costituita; e in particolare quelli di Augustin Berque, con diversi accenni alla scuola di Kyoto. Si tratta di recuperare un’idea di umanità geografica, sempre innestata in un milieu (ambiente) naturale e storico, mai neutrale, quasi da farsi carne dell’umano – forse lo sviluppo più sensibile della Terra merleaupontyana, cioè di un luogo in cui «ne va dell’abitante e dell’abitato» (p. 134). Da questo rapporto di concrescita tra uomo e ambiente si arriva a una visione del tutto anti-riduzionista: a una modalità d’esistenza ecumenale, per usare le parole di Berque, che meglio può definire una relazione ecologica e simbolica dal potenziale politico. L’essere umano diviene dove è, a partire dalla sedimentazione storico-naturale del luogo. Una sedimentazione non annullabile, non culturalizzabile, e tantomeno intesa come origine, al punto da non poter più ammettere la separabilità tra presenza umana e ambiente; ma anzi pensando l’attività dell’uomo come un approfondimento delle possibilità interne alla natura, e alla sua espressione.
Sotto questo profilo, la relazione ecologica si avvicina molto a quella dell’antropologo Tim Ingold, citato in riferimento agli studi degli anni Novanta, che meglio pensava il concetto di dimorare non come un costruire sul territorio, ma come a una scoperta. L’essere umano, in quanto espressione della natura, rivela con le sue pratiche delle possibilità interne all’orizzonte concreto in cui dimora, cioè interne al paesaggio. Si tratta di un’antropologia alternativa a quella del negativo[1] che, facendo perno sull’incorporazione delle specificità di un luogo, permette a Missiroli di definire l’abitare come «l’insieme della attività concrete attraverso cui gli uomini costituiscono se stessi rendendo le caratteristiche specifiche di un paesaggio interne alla loro vita» (p. 145). In ciò si arriva anzitutto al riconoscimento di una conformazione bio-storico-geologica pre-esistente, mai interamente costruita o significata dall’essere umano: è una ripresa che non annulla, e che molto recupera dall’istituzione merleaupontyana. In seconda battuta, anche se solo accennata, può così profilarsi un superamento della dicotomia tra globale e locale – e che non scada nel concetto di glocal – facendo del luogo, nella sua particolarità, un’espressione del terrestre, sua “lateralità” compresa in un orizzonte globale, e che globalmente manifesta la crisi ecologica.
Nell’ultima parte del libro si tratteggiano le possibilità più specificamente politiche di un’ontologia oikologica del luogo e di un’antropologia dell’espressione: la geografia critica, i temi della giustizia ambientale, il geo-comunismo, e il nodo del doppio potere, sono discussi e integrati nella sfida dell’abitare l’antropocene. In particolare, diversi interrogativi sono rivolti a quel filone eterogeneo della geografia critica, che, con vari presupposti, affronta la logica del capitale da una prospettiva ancora interna al paradigma dello spazio, e non del luogo. Ciò che si rimprovera a Henri Lefebvre e a David Harvey si potrebbe riassumere, da questa prospettiva, in un’incapacità di riconoscere un’agentività non umana e “non immediatamente sociale”, l’autonomia ontologica del terrestre, forse finendo per naturalizzare il capitalismo, e la sua capacità assoluta di modificare un’attività geo-storica-sedimentaria – la natura, su cui il capitale si modella. Chiariti i presupposti per un’ontologia oikologica del luogo, più sensibile per interpretare le sfide degli eventi in corso, le conclusioni affrontano serratamente il dibattito tra le proposte dell’eco-marxismo e dell’eco-territorialismo, rielaborandole, e lasciando aperte le possibilità che si profilano, il potenziale dei suoi effetti reali, e che dell’abitare chiamano in causa una lotta politica trasformativa.
[1] I lavori precedenti di Paolo Missiroli fanno da premessa indispensabile per comprendere l’antropologia negativa (cfr. Il posto nel negativo. Filosofia e questione dell’umano alla luce dell’Antropocene, Meltemi 2023).