Recensione a: Paolo Perulli, Anime creative. Da Prometeo a Steve Jobs, il Mulino, Bologna 2024, pp. 224, 17 euro (scheda libro)
Scritto da Maria Rosaria Ferrarese
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Tutti i libri sono dei viaggi che ci conducono da qualche parte, che ci era ignota o nota solo in parte, ma solo alcuni libri hanno la capacità di condurci in un altrove che è misterioso e affascinante. L’impresa di svelare i volti e i misteri della creatività, e il suo dispiegarsi nel tempo e nello spazio sta al centro del libro di Paolo Perulli, Anime creative. Da Prometeo a Steve Jobs (il Mulino 2024). L’intera storia umana si nutre di questo misterioso alimento, come ci racconta già il mito di Prometeo, gigante incatenato e sofferente, che vuole donare agli umani il fuoco della conoscenza. Prima di inoltrarci in questa storia tracciata da un libro che non vuole essere storico, ma che si presta a essere anche tale, come è al contempo sociologico e persino politico, non si può non segnalare l’immenso retroterra culturale su cui esso si regge, e che spazia tra filosofia, letteratura, architettura, pittura, musica, fotografia, teatro, disegno, balletto, cinema e altre arti visive, oltre alle tante altre espressioni artistiche dei nostri giorni, nonché alle innovazioni in campo tecnologico e scientifico. Eppure il libro si legge con la leggerezza di un avvincente racconto e intrattiene come un salotto frequentato da ospiti colti e intelligenti.
La storia della creatività è segnata da concrete circostanze storiche e il libro mostra tre tappe principali. Se nel passato premoderno la creatività apparteneva solo ad alcune personalità gigantesche, del calibro di Michelangelo o di Shakespeare, la cui universalità «ha a che fare con l’immortalità», nel Novecento, che appare come un secolo chiave nella storia della creatività, essa diventa più protagonista: via via appartiene a soggetti più numerosi, personalità straordinarie in tutti i campi, ma non sempre altrettanto gigantesche, universali e immortali. Infine, nella nostra epoca, cosiddetta dei «creativi», paradossalmente, si delinea invece una crisi significativa. Lo stesso termine «creativo», che succede a «creatore», segnala un cambiamento decisivo, che implica non solo «un’immensa dilatazione della platea degli utenti», ma anche il distacco, forse irreversibile, tra creatore e creatura.
Un tratto che emerge con forza dal libro è la varietà delle forme e delle potenzialità che sono proprie della creatività, a cominciare da quel tratto che le imprime il capitalismo, nel suo «incessante bisogno di innovazione», e che Joseph Schumpeter coglie con la formula della «distruzione creatrice». Dunque la creatività, nella sua moderna formulazione, non sempre somma l’innovazione all’esistente, ma, specialmente in economia, per creare può distruggere il preesistente. Non meno significativa è la sua capacità di ridisegnare il passato, per esempio attraverso la letteratura, per cui «ogni scrittore crea i suoi precursori», cambiando «la nostra percezione del passato». Ma altrettanto si potrebbe dire per la capacità di intravvedere il futuro, quando esso è ancora nascosto nelle pieghe del presente.
I luoghi non sono indifferenti per il fiorire della creatività. Non lo sono mai stati, neanche quando la Firenze rinascimentale contava svariate botteghe artistiche, che nutrivano e educavano futuri grandi artisti, tra i quali tre geni assoluti come Leonardo, Michelangelo e Raffaello. Con la modernità, sono le grandi città come Parigi, New York e San Francisco a diventare la culla della creatività: questa «abita persone che possiedono un’abilità, una tecnica, un’arte, e le persone abitano città e civiltà: è lì che si intensifica all’estremo la prodigiosa interazione personale e sociale che conduce alla creatività». Se la città è il luogo ideale, il «contatto riflessivo» con il mercato diviene inevitabile e trasforma i prodotti artistici in merce.
È Parigi, già nella seconda metà dell’Ottocento, rinnovata dal progetto urbano di Haussmann, coi suoi boulevard e i suoi passage, le sue gallerie commerciali e i suoi giardini d’inverno, la prima capitale della moderna creatività, così come Baudelaire è il suo nume intellettuale. Parigi attira artisti e avanguardie da tutto il mondo, che forgiano nuovi linguaggi artistici e ricercano «nuovi materiali per costruire la nuova società». Con la Prima guerra mondiale, nel 1914, tutto ciò si ferma e quando, dopo la guerra, Parigi sembra riprendere il suo primato, già enormi innovazioni tecniche oltre Oceano stanno predisponendo nuovi scenari urbani per la creatività. Prometeo va in America è il titolo che sintetizza l’imponente slancio di creatività che si compie nel Novecento, con la grande migrazione che porta negli Stati Uniti tantissimi scrittori, artisti e scienziati europei perseguitati dai regimi nazista e fascista.
Dunque il fenomeno della moderna creatività avviene grazie a una «dislocazione», che fornirà all’esule gli occhiali dello «straniero», che potenziano il suo sguardo, come nella poesia di Saint-John Perse. Sarà New York il maggiore polo attrattivo per la gran parte di loro. Walter Gropius e altri grandi architetti, soprattutto tedeschi, vanno a insegnare a Harvard e «trasformano la casa e la città in uno spazio di transito, funzionale, trasparente, che supera i dispotici confini dell’abitare», confermando che se l’Europa è stata la terra dei confini, l’America è invece terra di frontiera. Albert Einstein ed Enrico Fermi sviluppano l’energia nucleare, con tutte le conseguenze che ne derivano. Billy Wilder (le due «più importanti parole del cinema» secondo Alfred Hitchcock), che era stato giornalista, scrittore, e perfino ballerino, «influenzato dal surrealismo e dal dada», immette la sua formidabile carica ironica nel cinema, riscuotendo uno straordinario successo. Così come Fritz Lang, dalla nave che lo aveva condotto a New York nel 1924, guardando la città di notte e le sue mille insegne luminose, per la prima volta concepisce l’idea del suo film Metropolis.
Al di là della ricca galleria dei «giganti», che in tutto il Novecento hanno innovato lo scenario artistico, mutato il volto delle città con l’architettura, aperto le porte alla pop art, cosa ci racconta lo scenario odierno? Oggi i giganti scarseggiano, ma l’ambiente è dotato di inedite risorse e opportunità e i creativi sono assai più numerosi: compongono addirittura una classe, che Perulli chiama «creativa». Questa tuttavia emerge non come protagonista riconosciuta, ma come vittima della dissociazione tra sapere e potere: da una parte possiede la conoscenza per il cambiamento, ma dall’altra viene espropriata di quanto produce dalle grandi potenze tecnologiche. È il distacco tra creatore e creatura.
Entra qui in gioco un aspetto politico, che attiene alle forme dell’odierno capitalismo cosiddetto «digitale», che ingabbia il gioco della concorrenza con le catene di potentissimi monopoli o oligopoli, detentori di «sterminati giacimenti di commodity cognitiva e di merce-dati […], che crescono esponenzialmente». Si determina così non solo una scandalosa sperequazione della ricchezza, che non ha più alcuna giustificazione, dopo il palese fallimento dell’ideologia dello «sgocciolamento», ma anche una vistosa dissonanza tra un tempo in cui «chiunque può diventare una fonte, avere un pubblico, essere seguito da migliaia, milioni di persone», come se ogni barriera fosse caduta, e le piattaforme digitali, vere e proprie «strutture di potere», che «non sono affatto democratiche, bensì autocratiche». Di fronte a tutto questo, Perulli sostiene con forza, lo ha già fatto in altri libri precedenti, una redistribuzione dei diritti proprietari delle filiere produttive a favore dei creativi, dei freelance, dei lavoratori della conoscenza ai quali invece oggi non è riconosciuto alcun diritto.
Vi è un secondo profilo politico, non esplicitato, ma che emerge significativamente dal libro. La più importante fioritura di creatività del Novecento fu innescata dalla tragedia del nazi-fascismo e da una migrazione di grandi intelletti, divenuti apolidi che portarono «dall’Europa il pensiero che in America si è tradotto in azione». Le eccezionali personalità di quell’esodo trovarono tuttavia un formidabile fertilizzante nello spirito metropolitano e nella cultura aperta e democratica americana, che allignava specie nelle grandi città, pronte ad accogliere lo straniero, e a consentire a persone di ogni provenienza di trovare un proprio spazio, vivendo e lavorando insieme, scambiando idee e aspetti della loro cultura. La creatività è una strana mistura tra individualismo da «spirito libero» e ambiente sociale aperto e dialogante. Oggi, dopo la globalizzazione e l’esplosione di attitudini sovraniste in molti governi, è più difficile trovare lo stesso clima, forse persino nella stessa America. Dove si predica il primato della propria nazione e il recupero della propria «originaria» e «autentica» cultura da preservare da altrui influenze, e soprattutto dove si costruiscono enormi città con svettanti grattacieli e scintillanti centri commerciali, ma non vi è libertà di espressione e disponibilità a incontrare la diversità, dove la protesta è affidata solo alla «poesia oscura», o ai «fogli bianchi», come avviene in Cina, il rischio di penalizzare la creatività è più che concreto. Già Karl Marx condannava «l’unilateralità e la ristrettezza nazionali», giudicandole «sempre più impossibili» e augurandosi che «i prodotti intellettuali delle singole nazioni» diventassero «bene comune». Oggi, ribadisce Paolo Perulli, è impossibile e dannoso sottrarsi all’alterità, inclusa quella che viene dal Sud del mondo: «il prossimo canone sarà multipolare e plurale, o non sarà».