Scritto da Daniele Molteni
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L’intreccio sempre più saldo tra le grandi aziende tecnologiche e la politica, in particolare quella ultraconservatrice, sta riconfigurando il panorama culturale negli Stati Uniti, mentre le élite della Silicon Valley continuano ad accumulare potere. In questo contesto, l’intelligenza artificiale potrebbe configurarsi come l’ennesimo strumento di riproduzione dello status quo, amplificando bias discriminatori e rafforzando le asimmetrie di controllo nel mondo del lavoro.
In questa intervista a Irene Doda, giornalista freelance e autrice dei saggi Lavoro senza fine. I pronipoti di Keynes e il capitalismo digitale (Ledizioni) e L’utopia dei miliardari. Analisi e critica del lungotermismo (Tlon), indaghiamo le ideologie che permeano il capitalismo digitale, soffermandoci sul lungotermismo. Un paradigma che, dietro la retorica della salvaguardia delle generazioni future, legittima le disuguaglianze del presente anche attraverso le nuove tecnologie. Secondo Doda esiste una figura capace di tracciare un percorso verso un’alternativa politica e culturale a questo dominio digitale, costruito su dinamiche di sfruttamento del lavoro: la “lavoratrice nomade”.
In L’utopia dei miliardari, il lungotermismo viene individuato come un’ideologia che attrae le élite della Silicon Valley. Cos’è il lungotermismo e cosa afferma? Quali rischi comporta?
Irene Doda: La Silicon Valley non è solo un luogo geografico, ma un ecosistema tecnologico e imprenditoriale che riunisce miliardari tech, accademici, innovatori e aziende con grande influenza sulla politica e sul dibattito pubblico. È in questo contesto che, agli inizi degli anni Dieci del Duemila, nasce il lungotermismo, promosso da figure come Nick Bostrom, già direttore del Future of Humanity Institute di Oxford fino alla sua chiusura nel 2024. Questa ideologia, definita da alcuni come dottrina o culto per i suoi toni religiosi, si basa sostanzialmente su tre pilastri: considerare un orizzonte temporale di milioni di anni nel prendere le decisioni umane attuali; attribuire, in una filosofia di stampo utilitarista, uguale valore morale alle generazioni presenti e a ipotetici esseri umani futuri, anche lontani millenni; legare la prosperità della civiltà alla sua crescita numerica, fino a prospettare idee irrealistiche come la colonizzazione dell’Universo per raggiungere una popolazione stimata in 10^58 esseri umani. Questa ideologia presenta molte criticità, soprattutto perché è impossibile valutare l’impatto delle decisioni odierne su un arco temporale tanto vasto. Non possiamo prevedere le condizioni future dell’umanità, né stabilire scelte etiche valide per un futuro così lontano: sarebbe come se chi scoprì il fuoco avesse dovuto pensare alla rivoluzione industriale o Galileo Galilei immaginare le implicazioni dell’esplorazione spaziale mentre osservava il cielo con il suo telescopio. Inoltre, equiparare i diritti delle persone viventi a quelli di un’umanità ipotetica solleva domande fondamentali: chi stabilisce il bene per queste generazioni future e in base a quali criteri? Cosa dovremmo sacrificare oggi per un ipotetico beneficio in un futuro remoto? Questo approccio rischia di giustificare decisioni eticamente discutibili, come infliggere sofferenze presenti per un supposto vantaggio collettivo futuro. Infine, l’ossessione per l’espansione demografica dell’umanità, riflessa in teorie come la colonizzazione spaziale di miliardari come Elon Musk, ignora il problema delle disuguaglianze e delle risorse limitate. La popolazione umana sulla Terra è in crescita, ma ciò non significa che sia più prospera o che ci sia una migliore redistribuzione delle risorse. Queste idee superomistiche mostrano quanto sia complesso, e talvolta pericoloso, pensare di pianificare su scale temporali così remote.
Alcuni aspetti del lungotermismo, come l’altruismo efficace, sembrano positivi, ma oltre a privilegiare un’umanità futura che non esiste propongono di considerare dei rischi esistenziali ipotetici mentre le crisi si moltiplicano. Il fatto che questa ideologia sia promossa da imprenditori considerati “illuminati” quanto influisce culturalmente e filosoficamente? Di fatto può essere anche letta come una prosecuzione o un prodotto dell’ideologia neoliberista?
Irene Doda: Sicuramente l’effective altruism (o altruismo efficace) è un antenato del lungotermismo che nasce come filosofia di stampo utilitarista legata da un punto di vista socioculturale al neoliberismo e alla figura dell’imprenditore illuminato. All’interno di questo movimento è centrale l’idea della totale privatizzazione delle soluzioni ai problemi, con l’insistenza sulla filantropia come strumento principale, attraverso grandi fondazioni. Uno dei grandi nomi di questa corrente di pensiero, poi caduto in disgrazia e incarcerato, è Sam Bankman-Fried, fondatore e CEO di una società di scambio di criptovalute chiamata FTX, che si definiva un moderno Robin Hood che accumulava ricchezza per poi distribuirla alle cause che considerava più utili e giuste. Da una parte abbiamo la visione totalmente privatizzata del welfare e del bene comune; dall’altra l’idea che il bene comune sia qualcosa di matematicamente e oggettivamente quantificabile. Sebbene i calcoli di costo-opportunità possano essere utili nella vita pratica e operativa – per chi si occupa di progettazione all’interno della Cooperazione ad esempio – non esiste un criterio oggettivo per calcolare il bene comune o il bene dell’umanità nella sua interezza, che è un concetto fluido ed emergente. Non è qualcosa che un burocrate o, peggio, un miliardario possano stabilire a tavolino. Questi aspetti culturali – la centralità del privato e la quantificazione del bene – caratterizzano profondamente l’effective altruism, quindi il lungotermismo, e influenzano il dibattito pubblico proprio per il ruolo di questi imprenditori che li promuovono.
Prima si parlava di Elon Musk e di come uno degli obiettivi del lungotermismo sia la colonizzazione dello spazio, vista come soluzione ai rischi esistenziali; a proposito di questi rischi, una delle paure discusse è quella dell’intelligenza artificiale generale. Come viene utilizzata questa visione per mantenere lo status quo e quale orientamento politico tradizionale sembra abbracciarla oggi?
Irene Doda: Sia la colonizzazione dello spazio che l’intelligenza artificiale generale (AGI) sono temi centrali nelle narrazioni legate al lungotermismo. Per quanto riguarda lo spazio, l’idea di espandere l’umanità oltre la Terra si basa su prospettive irrealistiche e, come confermano le conoscenze scientifiche attuali, vivere su Marte nel prossimo futuro è impossibile. Tuttavia, questa visione persiste, alimentando un immaginario di progresso tecnologico che giustifica enormi investimenti e rafforza l’aura di grandiosità attorno a figure come Elon Musk, il cui business, trae diretto profitto da queste narrazioni. Il dibattito sull’AGI è altrettanto complesso. Alcuni, come Sam Altman di OpenAI, l’hanno pubblicamente presentata come un rischio esistenziale e in passato hanno proposto pause nello sviluppo, ma nella realtà non abbiamo ancora visto in atto l’intelligenza artificiale generale. I progressi recenti non vanno sottovalutati, ma i veri rischi riguardano più l’uso improprio delle tecnologie esistenti che non scenari apocalittici. Questa retorica catastrofista serve a consolidare il potere delle aziende che sviluppano l’intelligenza artificiale presentandosi come un’élite in grado di controllare una tecnologia complessa, per aumentare così il loro prestigio e mantenere segreti gli aspetti tecnici. Dal punto di vista politico, il mondo tecnologico ha sempre oscillato tra diverse ideologie, adattandosi a seconda delle esigenze del momento per tutelare i propri interessi. Negli ultimi anni, però, si è registrato un netto spostamento verso posizioni conservatrici e di destra, come dimostra il caso di Musk. Sicuramente le ideologie del lungotermismo e le retoriche legate alla colonizzazione spaziale e al progresso tecnologico elitario riflettono una visione di potere concentrato, privatizzato e monopolistico, lontana dai valori democratici e redistributivi. Anche l’immagine dei leader del mondo tech si è trasformata: da nerd marginali a figure dominanti, potenti e aggressive, che incarnano l’idea del superuomo innovatore che supera i limiti fisici e sociali della sua stessa umanità. Questa narrazione competitiva, mascolina e quasi eroica emerge chiaramente nella trasformazione iconografica di Zuckerberg o di Bezos. Inoltre, l’immaginario del conquistatore dello spazio o del creatore di tecnologie rivoluzionarie richiama modelli individualisti e competitivi, con echi neocoloniali che rievocano la Guerra Fredda e la corsa spaziale per il dominio del Cosmo.
Una delle dinamiche legate a queste narrazioni acriticamente ottimistiche o pessimistiche sull’intelligenza artificiale sembra appunto essere quella di legittimare chi controlla queste tecnologie come l’unica autorità in grado di parlarne, con l’idea che solo chi ne conosce i meccanismi possa indirizzare la politica e le decisioni future. In questo contesto, esistono voci alternative che cercano di sfuggire a questa dicotomia e proporre una visione diversa sull’intelligenza artificiale?
Irene Doda: Soprattutto all’interno dell’Unione Europea, molte voci spingono per una regolamentazione precisa dell’intelligenza artificiale guardando criticamente i rischi e i rapporti di potere che sottendono le sue evoluzioni, ma senza rifiutarla come tecnologia. La posizione alternativa principale, che si propone come opposta alla totale libertà nello sviluppo dell’IA, è quella della forte regolamentazione pubblica con pesi e contrappesi significativi, come tentato (anche se non del tutto riuscito) con l’AI Act europeo. Sebbene abbia i suoi difetti, questo atto legislativo tentava di regolamentare gli usi ad alto rischio dell’IA, ma l’influenza delle grandi aziende tech ne ha limitato l’efficacia. Sembra che a scontrarsi siano due visioni opposte: da un lato la promozione di una forte regolamentazione; dall’altro la spinta a “liberare” la tecnologia per lasciare il controllo nelle mani delle grandi corporation. La domanda da porsi è se gli Stati e le multinazionali tecnologiche siano effettivamente su questi due fronti opposti. Le grandi aziende che spingono per una deregolamentazione sembrano spesso allinearsi su alcuni obiettivi con gli Stati, nonostante le apparenze di conflitto. Un esempio evidente di come una regolamentazione inefficace possa danneggiare specifiche categorie di persone è quello della popolazione migrante, su cui vediamo un impatto concreto causa del rifiuto dell’Unione Europea di vietare sistemi di valutazione del rischio discriminatorio e l’analisi predittiva utilizzata per facilitare i respingimenti, due aspetti che limitano l’accesso a diritti fondamentali.
Si è parlato molto nel dibattito pubblico dei diversi utilizzi di tecnologie come l’intelligenza artificiale. Quali sono gli ambiti in cui sembrano più promettenti e quali quelli in cui presentano più rischi?
Irene Doda: Non esiste una risposta univoca, proprio perché queste tecnologie sono estremamente potenti e versatili e possono essere usate in molti campi e in molti modi diversi. Il punto centrale non è però solo quello di valutare se l’uso è positivo o negativo – ad esempio militare cattivo / civile buono – ma considerare il contesto e il pensiero dietro queste tecnologie: quanto sono aperte, accessibili, democratiche e discusse socialmente. Prendiamo, ad esempio, un algoritmo che decide come vengono distribuite le case popolari. In questo caso non basta valutarne l’utilità, ma è necessario chiedersi chi ha creato quell’algoritmo, come viene controllato e chi ne trae profitto. Gli aspetti politici ed economici devono essere considerati, perché l’utilizzo non è mai neutrale. La regolamentazione, come quella proposta con l’AI Act, sulla carta rappresenta un passo avanti, ma resta il rischio politico: chi controlla questi strumenti e con quali fini? Alcune ricerche interessanti, come quelle dell’ONG AlgorithmWatch, hanno approfondito l’uso dell’IA sui migranti, o l’impiego di droni e altre tecnologie di sorveglianza sviluppate tramite violazioni dei diritti umani. L’Europa utilizza già le tecnologie di sorveglianza per discriminare e respingere persone vulnerabili come i migranti; Israele ha utilizzato l’intelligenza artificiale a Gaza per bombardare edifici e commettere un genocidio; la Cina contro la popolazione uigura. Non stiamo parlando di ipotesi futuristiche ma di realtà consolidate. A questo si collega il discorso più ampio delle minacce future come l’AGI, che potrebbe un giorno sottomettere l’umanità: stiamo già usando l’intelligenza artificiale per opprimere e sottomettere intere popolazioni.
Sempre di più, anche nei contesti lavorativi, le aziende utilizzano software di reclutamento dei lavoratori basati sulle intelligenze artificiali per la scrematura dei curricula e nei colloqui. Cosa comporta questa pratica per il mondo del lavoro e in generale come viene colpito dalle nuove tecnologie?
Irene Doda: L’intelligenza artificiale è sempre più usata nei processi di selezione, in particolare per scremare i curricula o prendere decisioni preliminari. Le aziende risponderebbero che le risorse umane hanno sempre un potere decisionale, ma la differenza cruciale risiede nei criteri con cui viene effettuata questa scrematura iniziale. Qui emerge il problema dei bias algoritmici: per valutare se una persona è idonea a un ruolo, gli algoritmi si basano su dati storici relativi a chi è stato assunto in passato. Questi dati possono riflettere i pregiudizi esistenti nella società, come il fatto che i candidati precedenti erano tutti uomini, avessero cognomi italiani o provenissero da determinate università. L’algoritmo non fa altro che replicare e amplificare questi schemi, creando una predizione basata su quanto un candidato rispecchia quelle caratteristiche più che sulla sua reale idoneità al ruolo. Ovviamente questo esacerba le discriminazioni che già esistono nella società, da cui gli algoritmi e l’intelligenza artificiale prendono le informazioni. Un altro rischio riguarda la sorveglianza sul lavoro, quando le tecnologie basate sull’IA vengono usate per monitorare i dipendenti, controllando il tempo trascorso al computer, specialmente in smart working, o analizzando retroattivamente le loro attività sui social. Ciò solleva questioni critiche sulla privacy e sull’invasione della sfera personale, poiché comportamenti estranei al lavoro possono influire su assunzioni o licenziamenti. L’impatto dell’intelligenza artificiale nel lavoro emerge principalmente nella selezione e nella gestione, più che nelle mansioni quotidiane. Anche se l’uso varia tra settori – come il marketing o la scrittura – problemi come bias e sorveglianza sono trasversali e interessano molte professioni.
Come viene sottolineato nel libro Lavoro senza fine. I pronipoti di Keynes e il capitalismo digitale, una raccolta di saggi che prende le mosse da riflessioni nate durante la pandemia sul boom del capitalismo digitale e altri fenomeni, la datificazione trasforma i dati in profitti e sfuma il confine tra vita intima e lavoro. Quali effetti ha il capitalismo digitale su spazio, tempo e vita quotidiana?
Irene Doda: Tutto il lavoro cosiddetto “datificato” – ovvero parte del processo tecnologico che converte vari aspetti della vita sociale e individuale in dati, trasformandoli in informazioni con valore anche economico – è estremamente precario e si basa molto più sulla raccolta di informazioni che sull’effettivo svolgimento di una mansione, la cui produttività è di solito molto bassa. Non parliamo infatti di operai specializzati, ma di fattorini delle consegne, dove il valore estratto è quello della raccolta dati e della sorveglianza del lavoratore. Il capitalismo digitale è legato a doppio filo con la sorveglianza, che è sia un tema di privacy che di economia politica: con i propri dati, la propria personalità e il proprio modo di agire, la stessa vita del lavoratore diventa un fattore di produzione e non esiste più la divisione netta tra tempo di lavoro e vita privata, tra persona, lavoratore, consumatore. Questa condizione si riflette nell’impossibilità della sindacalizzazione, perché rispetto ai decenni che precedono l’avvento di questo tipo di capitalismo – dove si assisteva a una costruzione delle relazioni sociali da parte dei lavoratori all’interno dei luoghi fisici, che potevano essere un contrappeso agli interessi dei datori di lavoro – gli effetti sul tempo e sullo spazio di queste nuove forme di lavoro agiscono sia sulla salute mentale che sulla capacità di organizzarsi in luoghi fisici. La classe lavoratrice diventa così più eterea e meno individuabile come soggetto politico.
In Lavoro senza fine viene sollevato, in questo senso, il tema del sistema economico dominante, da cui di fatto emergono gli imprenditori delle Big Tech citati in L’utopia dei miliardari. Sono due libri che possono essere letti in modo complementare, nel loro esaminare due punti di vista diversi: da un lato, i miliardari con le loro ispirazioni superomistiche di portare l’umanità a risolvere problemi esistenziali ipotetici e futuri, di cui non avrebbero alcuna urgenza contingente; dall’altro, la classe lavoratrice contemporanea, difficilmente narrabile come classe organica, poco consapevole e poco organizzata, alle prese con una crisi di senso. Esiste un legame tra gli esponenti della filosofia del lungotermismo e il lavoro senza fine?
Irene Doda: Trovo che questa sia un’ottima chiave di lettura dei miei due libri, perché effettivamente in Lavoro senza fine mi concentro sulla classe lavoratrice, mentre L’utopia dei miliardari prende in esame l’élite miliardaria e l’ideologia lungotermista. In passato, specie nel periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale, i movimenti dei lavoratori di tutto il mondo costruivano un’identità forte intorno al concetto marxista di classe, con un immaginario che forniva questo orizzonte che oggi appare svanito. La contaminazione tra spazio personale e lavorativo, come accennavo nella risposta precedente, ha eroso l’identificazione con la propria classe e il senso di comunità che ne derivava. Ma non solo: nel contesto delle crisi multiple attuali, dove il ritmo di vita è frammentato e le norme sociali meno definite, molte persone trovano difficile individuare un legame chiaro tra sé, il lavoro e la società. L’assenza di identificazione di classe e la perdita di senso hanno creato, di conseguenza, un’affezione da parte di alcuni individui per le visioni superomistiche e neo-reazionarie di figure come Elon Musk che, lontane dalla loro condizione ma forti di una narrativa di genialità e cambiamento, diventano oggetti di ammirazione per operai o fattorini. Questa fascinazione è conseguente alla difficoltà di generare una spinta politica dal basso, che non è tanto una “colpa” individuale quanto il riflesso di un momento storico in cui la soggettivazione politica è sempre più complessa.
La proposta della settimana corta, il riconoscimento del lavoro di cura, il reddito di base universale, le intelligenze artificiali come strumento di liberazione da lavori inutili, sono tra le alternative discusse per affrontare la crisi del lavoro contemporaneo. Possono essere strumenti per ridistribuire tempo e risorse in modo più equo e immaginare un nuovo orizzonte di senso?
Irene Doda: Nel libro ho voluto evidenziare come esistano già alternative di cui si discute, sia a livello di policy aziendali sia a livello nazionale o internazionale. Questi modelli di welfare e di organizzazione lavorativa offrono approcci alternativi e, in alcuni casi, spostano il lavoro dal centro del discorso lasciando spazio all’immaginazione di nuovi modi di vivere. È proprio questa capacità di immaginare qualcosa di diverso dalla realtà esistente che rappresenta una delle sfide principali. Gramsci sottolineava l’importanza dell’egemonia culturale, e oggi ci troviamo dentro a quella della destra neoliberista e reazionaria, che ha eroso l’identità di classe e reso più difficile pensare ad alternative radicali: un contesto strettamente legato all’immaginario reazionario dei miliardari, che consolida un orizzonte di senso dominato da visioni conservatrici e individualiste.
Il problema alla radice sembra dunque essere un capitalismo che continua a espandere il proprio potere, subordinando la classe lavoratrice, mentre aumentano le disuguaglianze. Quali approcci e soggettività possono essere efficaci nel rispondere alle sfide globali attuali, soprattutto nell’ambito di una nuova “guerra fredda tecnologica” che sembra dominata dalle utopie dei miliardari e dall’influenza di soggetti come Elon Musk, sia nell’economia che nella politica?
Irene Doda: Nel libro propongo l’idea della lavoratrice nomade, che richiama la figura del soggetto nomade di cui parla la filosofa Rosi Braidotti, un concetto che invita a ripensare l’identità in termini di complessità e fluidità. Oggi non siamo più solamente il lavoratore proletario del Novecento, l’uomo o la donna della classe media europea. Viviamo in una realtà in cui le identità sono frammentate, fluide e stratificate, e questo impone nuove modalità di organizzazione politica e sociale. Ci troviamo in un’epoca in cui la dialettica capitale-lavoro è ancora rilevante ma assume forme diverse: un fattorino a Nairobi e un freelance a Forlì o a Como vivono esperienze molto differenti, eppure in qualche modo accomunate dalla violenza estrattiva del capitale. Per affrontare le crisi globali contemporanee – dalla disuguaglianza economica al cambiamento climatico, passando per il dominio tecnologico – è necessario ricostruire una visione politica che riconosca le interconnessioni tra le diverse lotte: i movimenti transfemministi e le battaglie ambientaliste, pur con obiettivi specifici, possono confluire in un’azione più ampia orientata a opporsi alle logiche estrattive del capitale. Ricomporre il senso di un’unità di classe non significa appiattire le differenze o imporre obiettivi omogenei, ma riconoscere che le varie forme di sfruttamento hanno un’origine comune. La figura della lavoratrice nomade serve quindi proprio a rappresentare questa eterogeneità: un simbolo della classe lavoratrice globale che, pur frammentata, può trovare punti di convergenza basati sul comune sfruttamento. L’influenza dei miliardari e il loro dominio nella politica e nell’economia evidenziano il crescente divario tra chi detiene il potere tecnologico e chi subisce le conseguenze delle loro decisioni. La ricchezza che permette di andare su Marte, ad esempio, viene generata dal lavoro di una moltitudine di soggetti che ne rimangono esclusi e le utopie che questi soggetti promuovono, spesso sotto forma di tecnologie salvifiche o soluzioni che escludono la collettività, alimentano modelli di concentrazione di potere. Contrastarli richiede una politica che superi il moralismo individualista, così da costruire una coscienza collettiva oltre lo stigma della povertà e la retorica meritocratica dell’individuo come imprenditore di sé stesso, in un rifiuto della narrazione che colpevolizza gli individui per la loro condizione sociale. Questo cambiamento culturale potrebbe portare a costruire un’immagine di futuro inclusiva e solidale, capace di rispondere alle sfide della contemporaneità in una prospettiva collettiva e redistributiva.