“Costruire e Abitare. Etica per la città” di Richard Sennett
- 29 Gennaio 2020

“Costruire e Abitare. Etica per la città” di Richard Sennett

Recensione a: Richard Sennett, Costruire e abitare. Etica per la città, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2018, pp. 364, 25 euro (scheda libro)

Scritto da Otello Palmini

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Tentare di definire in maniera precisa e univoca l’oggetto di studio di Richard Sennett è un’impresa complessa. Nel corso della sua lunga carriera ha dedicato saggi al tema della città, alle metamorfosi del capitalismo, alla condizione dello straniero, al rapporto tra pensare e oggetto pensato, alla storia del rapporto tra corpo e città. Insomma, Sennett è senza dubbio una voce autorevole nel panorama mondiale su molti temi che il presente impone di affrontare. In questo ultimo lavoro (Costruire e abitare. Etica per la città, edito da Feltrinelli), che chiude la trilogia dell’Homo Faber, Sennett torna a fronteggiare un aspetto della realtà a lui particolarmente caro: l’ambiente urbano.

Costruire e abitare. Etica per la città prende le mosse e si struttura a partire da un preliminare approfondimento sul concetto di città. Infatti, prendendo ad esempio la lingua francese (lo stesso schema si può trovare anche in latino e in greco antico), Sennett mostra come il concetto di città debba essere inteso come una relazione tra due poli inscindibili: la ville e la cité: «Da una parte sta il terreno edificato, dall’altra il modo in cui la gente abita e vive» (p.11). Ancor più importante della distinzione è, in questo caso, la relazione tra questi due poli. La città, la ville, è certamente un oggetto che il pensiero e l’azione si trovano di fronte, tuttavia essa è anche un oggetto che è stato costruito da soggetti in possesso di un modo di intendere la città, di una visione della società: la ville è esperienza reificata sotto forma di mura ed edifici. È impossibile comprendere l’aspetto fisico, cosale, di una città senza considerare la cultura, il modo di vivere proprio dei soggetti che l’hanno costruita e che l’hanno abitata. Ad esempio l’Atene dell’età classica sarebbe architettonicamente e urbanisticamente incomprensibile senza una considerazione della struttura e delle implicazioni del suo governo democratico, risulta, allo stesso modo, arduo comprendere la metropoli contemporanea astraendola dal tessuto sociale ed economico del capitalismo che contraddistingue il nostro tempo. La ville si sviluppa sulla cité, ne è la risultante oggettivata. Tuttavia è anche agevole comprendere come la cité, ovvero il modo in cui abitiamo e facciamo esperienza dello spazio urbano, sia profondamente influenzato dalla ville, ovvero dal modo in cui lo spazio urbano è costruito. Si pensi a come la riqualificazione di una piazza, la presenza di un parco o all’inverso la presenza di autostrade cittadine possano influenzare le modalità attraverso le quali è vissuta la città. Ci troviamo davanti ad una relazione circolare in cui i nessi di causa ed effetto agiscono i entrambi i sensi, dalla ville alla cité e dalla cité alla ville.

Il corpo del saggio consiste, in primo luogo, in un’analisi della storia del pensiero urbanistico attraverso il filtro del rapporto ville-cité. Questa indagine procede sia analizzando i modi attraverso cui si è tentato, attraverso la ville, di modificare o guidare la cité, sia affrontando a viso aperto i problemi della cité intesa anche come coabitazione tra diversi. In secondo luogo nel saggio prende forma un tentativo di codificare un metodo di progettazione tanto della ville quanto della cité volto a rendere la città un luogo di amplificazione e condivisione dell’esperienza, volto a indicare delle linee guida per la progettazione di quella città aperta che Sennett individua come possibile bussola nella riflessione urbanistica contemporanea.

Iniziamo dalla parte maggiormente propositiva per poi considerare l’analisi storica. La città, intesa come composto dinamico di ville e cité, è allo stesso momento il luogo e il modo più efficace, in termini di sicurezza e amplificazione delle possibilità dell’esperienza, che gli uomini hanno trovato per vivere insieme. A parere di Sennett questa grande grande invenzione corre un rischio costante che riguarda il rapporto che la città intrattiene con il mutamento: mutamento dei modi di vita, della composizione della cittadinanza, dei modi del costruire, dei modelli del vivere condiviso. Il problema centrale riguarda il rapporto tra forma e funzione a tutti i livelli di scala. Impostare un rapporto forma-funzione univoco ed eccessivamente serrato non permette alla città o all’edificio, ma anche al modo in cui si imposta una convivenza tra diversi, di rispondere in maniera elastica ai mutamenti storici che tendono a stressare fino a rompere i meccanismi troppo rigidi. Univocità, predeterminazione degli scopi, scarsa capacità di adattamento e di riadattamento sono gli indizi di una progettualità fallace. Ciò che Sennett chiama progettazione aperta investe tutti i livelli del progettare, si sostanzia di sincronismo, informalità, incompletezza e porosità. Ovvero una progettazione che favorisca il fiorire in un luogo di diversi usi simultanei, che quindi non renda troppo rigido il rapporto forma-funzione, che permetta anche ampliamenti o riduzioni, rimodulazioni a partire da nuove esigenze e che sia capace di situare il progetto nel contesto che lo circonda in modo da permettere la contaminazione, la comunicazione, il dialogo tra le diverse anime edificate e viventi della città. Il problema fondamentale consiste nella difficoltà di progettare un luogo che sfugga alla rigidità di una progettazione univoca ma che al contempo possa generare un’identità, non essere mero spazio, ma divenire luogo. È indicativo che la maggior parte degli esempi che Sennett propone siano spazi in cui la progettazione è assente, spazi occupati e plasmati dall’uso (non sempre strettamente legale) che i cittadini ne fanno: Nehru Place a Delhi o il modello abitativo dei vecchi Shikumen di Shanghai. Luoghi informali che non basano quasi nulla della loro identità aperta sull’aderenza ad un qualche tipo di progetto prestabilito. Tuttavia è vero che alcune caratteristiche fisiche di questi luoghi si sono configurate come condizioni di possibilità a favore della generazione di queste identità aperte.

Una riflessione su come progettare tali luoghi è svolta da Sennett in un intera sezione del libro, la terza, Aprire la città. Un aspetto fondamentale di questo progettare aperto deve essere il dialogo con la cittadinanza. Un dialogo che però non deve essere volto né a generare consenso a favore di un progetto già compiuto, né a raccogliere feedback una volta realizzato il progetto. Il meccanismo di feedback da parte del cittadino, ovvero la sua capacità di incidere con le sue esigenze e le sue idee, deve essere portato all’interno del tempo della progettazione, generando anche una mutazione del ruolo dell’esperto (architetto, urbanista o decisore politico). Il modello vuole essere quello della cooproduzione in cui l’esperienza tecnica e professionale dell’esperto viene messa al servizio delle esigenze e delle idee della comunità che poi dovrà vivere il progetto che si sta sviluppando. La sfida a cui Sennett prova a rispondere è quella di indicare una via mediana tra l’affidarsi esclusivo all’intelligenza collettiva di una comunità, si pensi al modo di procedere di Jane Jacobs e l’approccio alla Le Corbusier del Plan Voisin (1925), un progetto interamente riconducibile alla brillante mente dell’architetto e che prescinde totalmente dalle esigenze concrete della comunità che vi dovrà vivere. Anzi, il Plan Voisin è progettato su quelle che Le Corbusier ritiene essere le esigenze di ogni uomo, le esigenze di un uomo astratto, concepito dalla mente dell’architetto, un uomo che prescinde totalmente dall’esperienza reale degli abitanti di quel preciso quartiere parigino che il piano avrebbe dovuto rimodellare. Conseguentemente, come nota Sennett, l’architettura e l’urbanistica in stile Le Corbusier hanno un rapporto molto difficile con il passato. L’edificato precedente viene semplicemente abbattuto, rimosso, perdendo tutti quei piccoli accorgimenti stratificati, che i cittadini avevano sviluppato nel corso degli anni, e che avevano contribuito a rendere uno spazio edificato un luogo, la loro casa. Anche la scelta del bianco come colore preminente lascia trasparire la volontà di purezza atemporale, di perfezione ideale e geometrica a cui aspira l’edilizia di Le Corbusier.

È chiaro, d’altra parte, che le città non possono diventare musei, luoghi di semplice conservazione storica. L’innesto di elementi contemporanei e di rottura assicura proprio quella elasticità, rispetto al mutare del tempo, di cui l’ambiente costruito ha bisogno per essere resiliente. Una possibile via individuata da Sennett è quella della pianificazione della semina (pp.262-267), ovvero una pianificazione volta ad impiantare degli elementi aperti, delle forme-tipo che possono in base ai luoghi di impianto, in base al terreno, prendere forme differenti e aderenti al contesto circostante. La pianificazione della semina si verrebbe a definire come il tentativo di innestare il nuovo, sia esso un edificio, un parco, una strada, in dialogo con la tradizione, in un dialogo magari conflittuale ma senza rimozione. Tenendo fede all’assunto che una città resiliente, capace di resistere alla forza corrosiva del cambiamento, è una città aperta e dinamica è possibile anche per un innesto che rompa la routine estetica e funzionale di un luogo acquisire senso in quel sistema complesso che è l’ambiente urbano.

Un merito di questo lavoro di Sennett è, come si è anticipato, quello di restituirci una visione sinottica della storia del pensiero urbanistico declinata in base al rapporto ville-cité a partire da quando, nel 1859, l’architetto spagnolo Ildefons Cerdà usò i termini urbanesimo e urbanista. La prima ricognizione investe tre grandi architetti-urbanisti della generazione successiva al 1850: lo stesso Cerdà che ideò il piano urbanistico per Barcellona, il barone Haussmann che si occupò della riorganizzazione di Parigi e Frederick Law Olmsted il quale progettando Central Park a New York pose le basi per una nuova concezione del rapporto uomo-natura. Scrive Sennett: «La grande generazione di urbanisti cercò di plasmare la ville per mobilitare la cité, spesso in modi contrastanti: Haussmann cercava di rendere accessibile la città, Cerdà di renderla egualitaria, Olmsted di accrescere la sua socialità» (p.67). Nella visione di Sennett, tuttavia, i limiti di questi impianti progettuali sono da ravvisarsi in una scarsa analisi della cité e, in particolare, di un nuovo ente collettivo che si era fatto strada in quegli anni: la folla. La relazione tra cittadini e città moderna è analizzata ripercorrendo la psicologia della folla di Gustave Le Bon e l’analisi del sovraccarico sensoriale che avviene quando si è accerchiati dalla folla teorizzato da Georg Simmel. A questo capitolo, che si chiude con l’analisi della città-stato teorizzata da Max Weber, segue una discussione incentrata sul divorzio tra cité e ville che prende corpo in un confronto tra la Chicago School fondata da Robert Park e il Plan Voisin di Le Corbusier per il centro di Parigi. La prima esperienza, quella americana (attiva dopo il 1914), si dava come metodo quello dell’ascolto dei cittadini tramite interviste in cui l’intervistatore doveva cercare di lasciare maggior spazio possibile all’intervistato al fine di aiutarlo ad esprimere la propria esperienza della città anche se essa risultava problematica e contraddittoria. Le parole d’ordine erano esperienza e locale in una metodologia che si configurava come una grande analisi empirica della cité. Tuttavia «avidi di una conoscenza complessa, i ricercatori avrebbero potuto coinvolgere la città nel suo insieme, la sua forma fisica e la sua popolazione. Invece non lo fecero» (p.85). A questa poderosa analisi della cité corrispose la dimenticanza della ville che non poté che condurre ad una parzialità dell’analisi. Di segno opposto, come abbiamo già anticipato, è l’approccio che conduce Le Corbusier a presentare il suo piano per la riorganizzazione del centro di Parigi: «Come manifesto il Plan Voisin rinnega la cité a favore della ville […] Le Corbusier creò un’architettura che avrebbe dovuto fare un lavoro di desensibilizzazione, un’architettura Blasé, in cui l’elemento meccanico era “liberato” da quello viscerale» (p.91).

La prima parte del volume si conclude con un confronto tra due modi di rendere aperta la città che seppur uniti nell’intento si contrappongono nel metodo. Gli autori di questi metodi sono Jane Jacobs a Lewis Mumford. Jacobs pesava ad una cité di quartiere in grado, democraticamente, di riplasmare la ville sulle proprie esigenze, in assenza di pianificazione su larga scala. Attraverso la narrazione di una sorta di organizzazione dal basso della ville tramite la cité Jacobs tenta di dimostrare la disfunzionalità dell’architettura su grande scala e di promuovere, invece, una pianificazione puntiforme in grado di assicurare sicurezza e vivibilità della città a partire dalle piccole relazioni di buon vicinato. Mumford contestava questa tesi alle radici: «se le città devono diventare un luogo più equo, la progettazione deve imprimere un ordine sin dalle fondamenta, la ville deve portare alla cité» (p.102). L’utopia che diede corpo a questa concezione fu la città giardino di Ebenezer Howard in cui la funzionalità degli spazi e la relazione con l’ambiente naturale avrebbero dovuto assicurare a piccoli nuclei urbani la perfetta armonia. Da questa prima parte del lavoro l’urbanistica risulta, quindi, come una disciplina scissa e conflittuale.

Un altro aspetto fondamentale che, se possibile, problematizza ancor di più il lavoro di riconciliazione della scissione subita dall’urbanistica è l’essenza non pacificata della cité. Ovvero il fatto che la cité, specialmente nel caso di città di grande dimensione, non si dà mai come modo univoco dell’abitare, ma sempre, anzi, come coabitazione problematica tra diverse istanze, come relazione conflittuale tra gruppi, classi che abitano la città. Sennett coglie il problema di come rendere almeno non dannosa la coabitazione tra questi diversi modi di vivere. Seguendo brevemente alcune riflessioni di Martin Heidegger, Okakura Kakuzō e Emmanuel Lévinas, Sennett cerca di mostrare come la relazione con l’altro non possa essere risolta, nella città contemporanea, né tramite un sentimento di esclusione e demonizzazione dell’altro, né tramite la costituzione di una fratellanza e una comunione totale di valori, ma attraverso la concezione dell’altro come estraneo da rispettare. Tale soluzione si avvicina a quelle pratiche di “buon vicinato” in cui anche se dell’altro non si conosce ogni sfaccettatura e non si condivide ogni azione è possibile una relazione all’insegna del rispetto. Tali relazioni possono essere la solida base per delle azioni collaborative rivolte a scopi precisi. In questa collaborazione tra diversi Sennett vede la possibilità di un rapporto con l’altro dentro l’ambiente urbano contemporaneo.

Infine, è interessante riportare la posizione presa da Sennett in merito ad uno dei concetti più di moda nella riflessione urbanistica contemporanea, ovvero quello di Smart City. Se l’uso della tecnologia diventa lo strumento per tentare, utopisticamente, di ridurre le differenze dentro il contesto urbano e produrre un ordine univoco e funzionale impartito da una sala di comando andiamo incontro a quella che Sennett chiama «Smart City prescrittiva». Ovvero uno spazio in cui l’attrito con l’altro e con la città stessa viene ridotto al minimo dal medio tecnologico provocando un ottundimento cognitivo. Sennett è convinto sostenitore del fatto che il pensiero umano sviluppi creatività e progredisca solo applicandosi a oggetti non univoci e complessi che stimolino la nostra capacità di ragionamento con dei problemi. Lo stesso vale anche per l’esperienza cittadina, il suo timore è che l’assenza di attrito di una città totalmente gestita dalla coppia Big data – intelligenza artificiale possa non solo nascondere una tendenza antidemocratica e di preventivo soffocamento del dissenso, ma anche generare dei danni alla nostra capacità di pensare in maniera innovativa e complessa. Tuttavia Sennett non è convinto che tale distopia politico-cognitiva sia da imputare all’essenza maligna della tecnologia, infatti la Smart City può avere anche struttura coordinativa, non ottundente. Questo sarebbe ed è possibile sfruttando il potenziale collettivo e aggregante delle nuove tecnologie accanto alla loro capacità di funzionalizzare un sistema, insomma tentare di coordinare le parti e non ridurle dovrebbe essere il vero obiettivo di un’urbanistica smart.

Scritto da
Otello Palmini

Dottorando in Architettura e Pianificazione urbana all’Università di Ferrara (IDAUP). Laureato in Scienze filosofiche all’Università di Bologna. Membro fondatore del gruppo Prospettive Italiane. Tra gli ambiti di ricerca: Filosofia della tecnica e della tecnologia; intersezione tra tecnologia digitale e pianificazione urbana.

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