Recensione a: Andrea Francesco Zedda, E poi arrivò l’industria. Memoria e narrazione di un adattamento industriale, Prefazione di Alessandro Portelli, Donzelli, Roma 2021, pp. 240, 28 euro (scheda libro)
Scritto da Andreas Iacarella
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Ottana è un comune di poco più di 2.000 abitanti nella Provincia di Nuoro, al centro della Sardegna. La vasta piana in cui si situa il paese fu scelta, tra il 1969 e il 1974, per un grande progetto industriale, inserito nel Piano di Rinascita dell’isola (L. n. 588 dell’11 giugno 1962), finanziato dalla Cassa per il Mezzogiorno. Dopo l’industrializzazione che aveva riguardato Porto Torres, Assemini e Sarroch, si tentava in questo luogo una nuova fase del rilancio economico sardo, attraverso la realizzazione di importanti stabilimenti petrolchimici.
A partire da quel momento, l’«evento industriale» ottanese sarà utilizzato in modo insistente, e spesso strumentale, dall’intellettualità e dalla politica sarda come massima espressione di quella “colonizzazione” che lo Stato ha tentato nell’entroterra dell’isola. Evento rappresentato come non richiesto, traumatico, fallimentare. Le ciminiere e i capannoni abbandonati della zona industriale si ergerebbero silenziosi a testimonianza di queste vicende.
I paesaggi, però, sono colmi di storie, e non bastano, per coglierle, né le immagini di un abile fotografo, né la sapienza di un cartografo. Nei paesaggi si inscrive, è quasi banale ricordarlo, la storia degli uomini. Ma non è una scrittura pacificata, piana, con punti di accesso chiari e definiti. È un affastellarsi ambiguo, contraddittorio, problematico, nel quale occorre immergersi totalmente, senza cercare agili semplificazioni.
È dello storico orale Alessandro Portelli l’efficace espressione «città di parole», a significare come le memorie e i racconti costruiscano una geografia che si sovrappone a quella fisica, riplasmando lo spazio. Ed è questa la chiave fatta propria dall’antropologo Andrea Francesco Zedda per raccontare le vicende di Ottana nel recente volume E poi arrivò l’industria. Il testo, frutto di una vasta ricerca etnografica sul campo, offre uno sguardo diagonale sull’industrializzazione ottanese, che pone al centro non la ricostruzione storiografica, bensì il «complicato sistema simbolico e identitario locale che si è creato a seguito dell’operato industriale» (p. 5). L’autore si immerge nella memoria e nelle narrazioni locali attraverso un intreccio sapiente delle molte fonti disponibili: iconografiche, letterarie, giornalistiche, scientifiche, e soprattutto orali.
Le fonti orali, come scrive ancora Portelli nella prefazione al libro, non vanno giudicate: portano in sé un tipo di verità che «non corrisponde necessariamente alla verità fattuale degli eventi ma rinvia ad altri livelli, meno tangibili ma non meno reali» (p. XI). L’approfondita analisi che Zedda conduce a partire dalle interviste realizzate in loco (tra il 2015 e il 2016) ci racconta dunque le diverse verità che gli attori sociali hanno costruito in rapporto alla storia recente di Ottana.
Il refrain, che torna più volte nelle testimonianze, è quello di una modernità che ha mostrato ad Ottana il suo fallimento. Questo discorso si inserisce all’interno di una visione locale della storia, che tende a rappresentare le vicende del paese come un’alternanza ciclica inesauribile, e inscalfibile, di epoche gloriose ed epoche di crisi. La base di questa costruzione ideologica è costituita dalle vicende medievali, che assumono ancora oggi una forte valenza simbolica[1]. Quello che colpisce è come questa storia, che potrebbe apparire remota, continui a vivere con un’aura quasi mitologica nei racconti. È questo mito della ciclicità inevitabile che ha rappresentato, per gli ottanesi, una delle fondamenta più solide per l’edificazione del discorso identitario attuale. Un fatalismo che permette di elaborare collettivamente il periodo industriale, che pure ha lasciato dietro di sé strascichi duraturi.
I primi momenti dell’industrializzazione sono comunque ricordati, dalla maggior parte dei testimoni intervistati dall’autore, come esaltanti: «Era l’America, avevamo scoperto l’America. […] Con la fabbrica arrivano le macchine, potevamo andare con la ragazza al mare, alle terme. In vacanza in continente a volte. Eravamo diventati moderni anche noi» (testimonianza di Massimo Liguori, ex-operaio, cit. pp. 67-68). La situazione del paese, precedentemente alla riforma agraria e all’edificazione dei primi impianti, era nei fatti quella di una terra in cui le attività economiche permettevano un’esistenza ai limiti della sussistenza. Malgrado ciò, il riconoscimento di un nuovo benessere cede subito il passo, nel ricordo dei cittadini, al racconto di «un “prima” mitico, lontano e indefinito, che, nonostante fosse caratterizzato da una profonda instabilità e malsanità, diviene l’elemento portato a sostegno del discorso di accusa verso l’operato industriale» (p. 40). Conseguentemente, l’evento industriale è evocato come portatore di «disgrazie (più o meno inventate) ambientali, fallimenti e tragedie familiari, progetti realizzati e altri sfumati» (p. 146).
L’autore non ricostruisce le alterne vicende dell’industrializzazione, ma si concentra sulla destrutturazione delle pratiche discorsive locali, leggendole nell’ottica di un’attiva costruzione identitaria da parte della popolazione ottanese. La disfatta economica, che pure c’è stata, è esaltata per rafforzare il senso di estraneità rispetto all’intervento statale: si edificano così i contorni di una propria identità di comunità, per opposizione a quella “altra” che viene attribuita allo Stato. Questo processo si inserisce d’altronde in un più vasto dibattito intellettuale e politico regionale, che a partire dagli anni Sessanta ha ingenerato un «discorso di difesa della cultura sarda “originale” in opposizione all’alterità statale» (p. 51).
Accanto alla memoria costruita dai racconti intimi e personali, è emersa anche una memoria culturale, istituzionalizzata e patrimonializzata, che nel paese della Barbagia prende vita nelle forme del Carnevale locale dei “Boes” [buoi] e “Merdules” [pastori]; una manifestazione fatta di recente oggetto di attenzione transnazionale, tanto da diventare per la comunità una vera e propria bandiera da esternare. Anche qui, la costruzione identitaria è realizzata per contrasto: la narrazione del Carnevale si oppone all’identità altra rappresentata dall’industria; pur attestando un tempo differente da quello mitico medievale, è comunque testimonianza di un periodo migliore rispetto a quello industriale.
Quello che Zedda evidenzia è dunque come nel paese agiscano due retoriche identitarie distinte: quella locale, che elabora gli elementi appartenenti alla storia intima della comunità, assorbendo quelli problematici, come l’industria, in un sistema storico di cicli; quella globale, che si esprime attraverso manifestazioni (come il Carnevale) che trovano riconoscimento all’interno delle dinamiche socio-economiche internazionali. È proprio quest’ultima che gioca un ruolo chiave nella costruzione di un’immagine nuova del paese, un’invenzione di tradizione e di identità locale funzionale a liberarsi del fallimentare passato industriale, sul quale rischia di essere schiacciata la visione di Ottana per gli osservatori esterni. Le rappresentazioni carnevalesche si associano appunto alla rievocazione di un paesaggio originario e incontaminato, «un intatto ambiente agricolo del passato, trasformando così il paesaggio nel luogo ideale per manifestare l’opposizione nei confronti dello Stato, colpevole di aver “strappato” le terre all’agricoltura e all’allevamento» (pp. 164-165).
Nonostante la lettura del volume risulti a tratti poco agevole, per un eccesso di riferimenti non sempre funzionali e per l’uso di un gergo fortemente specialistico, l’analisi di Zedda, qui riportata solo sommariamente, ha diversi aspetti di interesse. Da un punto di vista metodologico, ha il merito di aver rimodulato quello che veniva rappresentato nel dibattito regionale come un evento a senso unico in una dimensione processuale, dinamica, che vive nelle significazioni narrative. Per usare le efficaci parole di Francesco Remotti, non può esserci «una storia e tanto meno la storia: vi è invece una molteplicità di costruzioni del passato in dipendenza dai “noi” che si costituiscono nel presente e che intendono occupare un proprio futuro» (cit. p. 18).
Al volume va inoltre riconosciuto il pregio di riuscire a offrire, tramite la ricostruzione di un caso tanto emblematico, una prospettiva diversa sulla questione dei rapporti tra locale e nazionale, tra cittadini e Stato. L’aver messo in luce le pratiche discorsive attraverso le quali la comunità rinarra le vicende storiche e l’intervento statale suggerisce come «una delle strade percorribili nello studio dello Stato sia quella di non continuare a osservarlo come ente astratto che agisce su cittadini astratti ma, piuttosto, di osservare la sua presenza simbolica dentro i gruppi sociali» (p. 189).
Aver posto al centro di un’indagine etnografica un tema tanto esplorato dalla storia economica e sociale, ha permesso di rivelare la vita quotidiana dello Stato, il suo manifestarsi nella vita dei cittadini. Comprendere, anche criticamente, le radici di questa costruzione “altra” dello Stato, permette in prospettiva di mettere in discussione i «facili e sensazionalisti discorsi identitaristi» che ancora caratterizzano il dibattito politico e culturale sardo. Quella che Remotti ha definito «ossessione identitaria» riserva infatti «più pericoli anche del razzismo», sarebbe dunque bene, conclude Zedda, che «gli scienziati sociali si impegnassero a comprendere le ragioni di questa corrente identitaria» regionalistica (p. 191).
E se è vero, come ricorda Portelli, che la «malinconia ambigua» che porta gli ottanesi a idealizzare un passato mitico potrebbe contenere in sé anche un «implicito giudizio sul presente e un desiderio di futuro, persino di utopia» (p. XIII), occorre interrogarsi con grande onestà su quanto le singole costruzioni identitarie possano realmente essere strumento di un cambiamento, anche solo di immagine. I rischi di costruzioni di tipo regressivo inducono a pensare che l’esercizio, da parte degli studiosi di scienze sociali, di una mediazione sempre più consapevole tra le comunità locali e le strutture nazionali e sovranazionali sia la chiave per compiere quel percorso ineludibile che dalla conoscenza dell’esistente può condurre alla sua auspicabile trasformazione.
[1] Tra il 1065 e il 1503 Ottana è stata sede della diocesi di una parte rilevante del Centro Sardegna; lo spostamento della sede vescovile ad Alghero e la crisi malarica della zona portarono ad un successivo periodo di decadenza.