Scritto da Ezio Manzini, Michele d’Alena
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Il forte invecchiamento della popolazione, i legami sociali che si indeboliscono, la solitudine che aumenta, i servizi pubblici che faticano nel dare risposta ai nuovi bisogni che emergono. Sono solo alcuni dei segnali della tendenza alla disgregazione sociale in atto. Esistono ancora strade che portino ad arrestare questi fenomeni e a rafforzare il tessuto sociale? Che ruolo può giocare la nuova generazione di servizi pubblici collaborativi che sta emergendo negli ultimi anni?
A partire da questi interrogativi, Ezio Manzini e Michele d’Alena in Fare assieme. Una nuova generazione di servizi pubblici collaborativi riflettono su come ricostruire il tessuto sociale e prendersi cura di chi è in difficoltà. Pubblichiamo di seguito, per gentile concessione dell’editore Egea, un estratto del testo.
Proposta: servizi pubblici collaborativi
Ci sono scuole, biblioteche, case della salute che operano anche come luoghi di aggregazione per nuove forme di comunità[1]. Ci sono case di quartiere e centri sociali e culturali che erogano anche servizi pubblici di prossimità. Ci sono case della salute che, nella loro evoluzione, generano comunità della cura. Ci sono poi case di quartiere e spazi culturali e sociali che, con le loro iniziative, funzionano come agenti promotori di comunità. Nell’insieme, c’è una costellazione di iniziative che mescolano i servizi pubblici come li abbiamo sempre conosciuti con attività collaborative capaci di rigenerare il tessuto sociale, stimolare e sostenere le risorse latenti, aprire terreni di confronto politico e di democrazia sui temi della quotidianità.
Alcuni di questi esempi sono l’evoluzione di servizi pubblici tradizionali (come le scuole e le biblioteche che si aprono al quartiere), altri sono iniziative che operano in sussidiarietà con il Pubblico, con finalità civiche e per l’interesse generale. Alcuni hanno già una lunga storia, altri sono emersi in tempi più recenti. Presi uno per uno, ciascuno ha le proprie motivazioni e si confronta con specifici problemi e opportunità. Ma, visti nel loro insieme, mostrano un carattere comune: sono l’intreccio di prestazioni professionali (fornite prevalentemente da operatori pubblici) e di attività collaborative (messe in atto dagli operatori pubblici stessi e da organizzazioni del terzo settore e gruppi di cittadini attivi). Per delineare meglio questa loro complessa natura, vediamone più da vicino alcuni esempi.
Biblioteche, scuole, case di quartiere e non solo
Una biblioteca è al tempo stesso un servizio e un luogo. Un servizio perché rende disponibili al pubblico dei libri e dei materiali audiovisivi. Un luogo perché è uno spazio fisico dove leggere e guardare video, andare a ritirare libri in prestito o anche andare a studiare e a cercare socialità.
Da tempo alcune biblioteche (anche a fronte della necessità di evolvere in un mondo in cui buona parte di ciò che tradizionalmente hanno offerto può essere ottenuto a casa in forma digitale) hanno iniziato ad aggregare attorno alla loro funzione tradizionale altre attività compatibili e complementari[2]: dai gruppi di lettura, ai cicli di conferenze; dalle attività per la riduzione dell’analfabetismo digitale, al supporto alla genitorialità con corsi per neogenitori e consulenze con esperte/i; dalle esposizioni di arte visiva, alle performance teatrali; dai doposcuola per i bambini alle attività inclusive per cittadini di origine migrante, con corsi di lingua e letture nei diversi idiomi materni. Fino all’organizzazione di momenti formativi per supportare i residenti a sviluppare capacità e competenze progettuali. Non solo, le biblioteche più dinamiche operano anche come punti di riferimento per le associazioni culturali del quartiere. Allo stesso tempo, essendo connesse con altre biblioteche, sono diventate luoghi in cui le reti corte della cultura locale si intrecciano quelle lunghe delle iniziative cittadine e internazionali.
Evidentemente quando la biblioteca evolve in questa direzione, cambia anche il ruolo del bibliotecario: se nel modello tradizionale organizzava procedure a orari predefiniti rivolgendosi a utenti che cercavano servizi precostituiti, nel modello collaborativo non può più essere così. Quando le biblioteche diventano anche presidi culturali e sociali, il bibliotecario deve adottare un approccio flessibile e aperto. E, di conseguenza, devono essere definite nuove basi contrattuali e nuove competenze.
Analoghe considerazioni possono essere fatte in riferimento alle scuole, quando si aprono al quartiere e alla società. Alcune di esse, grazie a iniziative locali e al di fuori degli orari scolastici, diventano spazi non solo per il potenziamento dell’offerta formativa a supporto agli studenti, ma anche per ampliare la gamma di servizi educativi, integrando nuove competenze e generando una varietà di iniziative culturali. Inoltre, introducendo nuove pratiche (come quelle delle comunità educanti e dei patti educativi territoriali), diventano spazi aperti ad attori e idee che provengono dalle reti civiche e dalle organizzazioni del territorio[3]. Tutto ciò porta a generare una visione della scuola intesa come piattaforma di supporto a una molteplicità di attività in grado di coinvolgere studenti, genitori, insegnanti, realtà associative del loro sistema di prossimità.
Come nel caso delle biblioteche, anche in questo caso l’approccio aperto e collaborativo incide sulle dinamiche organizzative, sui contenuti elargiti e sul ruolo degli operatori che animano le iniziative. Rompendo le tradizionali modalità di funzionamento, emerge la domanda di nuove competenze; evolvono le modalità di lavoro; cambiano la pianificazione, l’inquadramento amministrativo e la comunicazione; si cercano nuove configurazioni degli orari di lavoro e degli spazi (andando a incidere anche sugli spazi esterni: giardini, piazze e parchi circostanti l’edificio scolastico).
Un altro esempio può essere quello delle case di quartiere, così come sono state attivate in diverse città, a iniziare da Torino e Bologna. In questo caso il punto di partenza è proprio la proposta di piattaforme disponibili per una varietà di iniziative di valore sociale e culturale, integrate da servizi orientati verso la soluzione di problemi concreti della quotidianità[4]. Molto spesso queste case di quartiere nascono in relazione all’opportunità di utilizzare infrastrutture esistenti diffuse sul territorio, trasformandole nelle piattaforme multifunzionali di cui si è detto: presidi di comunità accessibili a persone anche molto diverse tra loro e mosse da interessi diversi e con diverse disponibilità di tempo, energia e attenzione. La prima fase è allora la creazione di una piattaforma[5] per una varietà di attività di valore sociale. Una volta individuate queste attività ciascuna di esse va seguita e gestita in ragione delle sue specificità. Ne viene, ancora una volta, la necessità di sviluppare capacità progettuali e gestionali complesse, combinando l’efficienza nell’erogazione delle prestazioni con i tempi e i modi richiesti dalla costruzione e dalla continua necessaria rigenerazione delle reti sociali.
Ognuno degli esempi ricordati all’inizio (case della salute, centri culturali, ma anche negozi di prossimità attivi sul terreno sociale[6]) potrebbe essere raccontato mettendone in evidenza le peculiarità e mostrandone al tempo stesso le differenze ma anche le similitudini con tutti gli altri. Ed è proprio su queste similitudini che vorremmo soffermarci: il fatto di essere tutte, in diverso modo, delle entità capaci di cura. E questo in opposizione al carattere dominante della società contemporanea: quello di essere diventata, per l’appunto, una società senza cura[7].
Una nuova generazione di servizi pubblici
Le iniziative di cui abbiamo parlato, di per sé, non sono una novità. Se però si mettono in parallelo, e si guardano nel loro insieme, emergono significativi tratti comuni. Tutti i casi osservati si riferiscono ai cittadini come soggetti potenzialmente collaborativi e agiscono di conseguenza per stimolare e supportare queste loro capacità. Pertanto, ogni iniziativa combina prestazioni ben definite (come ogni servizio tradizionale) con attività che emergono dall’interazione tra i cittadini e le loro organizzazioni (operando quindi come una piattaforma abilitante). Ne deriva che ognuna di esse contribuisce a costruire reti sociali e capitale sociale[8] e a supportare soluzioni collaborative ai problemi della quotidianità[9].
Gli attori principali di ciascuna iniziativa sono diversi: enti pubblici (come scuole e biblioteche), organizzazioni della società civile (come molti centri culturali e case di quartiere); alla lista si possono aggiungere edicole, negozi, bar quando diventano anche luoghi di incontro, di mutuo-supporto, di socializzazione con attività di interesse generale. In nessun caso un singolo attore può fare tutto: con ruoli diversi, e in un’ottica di sussidiarietà orizzontale, ne sono sempre chiamati in causa molti e diversi. In altre parole, l’iniziativa può partire da una scuola, da una biblioteca pubblica, da un’organizzazione del terzo settore, da un gruppo informale di cittadini organizzati, dal gestore di un bar; ma, per funzionare in modo collaborativo, per produrre valore sociale e per durare nel tempo, ognuno di questi attori prima o poi ha bisogno degli altri[10].
Infine, tutte queste iniziative combinano la ricerca dell’efficienza delle prestazioni che erogano con la cura delle relazioni che permettono di instaurare[11]. Perciò sono esperimenti di forme organizzative complesse in cui due economie e due temporalità (quella dell’efficienza e quella della cura) trovano il modo di coesistere[12].
L’insieme di questi caratteri ci porta a considerare i casi cui si riferiscono (e che fino ad ora sono stati discussi separatamente, come espressione di specifici e diversi campi d’azione), come un’unica tipologia di servizi: i servizi pubblici collaborativi. Una prima definizione di lavoro potrebbe dunque essere questa: i servizi pubblici collaborativi sono una nuova generazione di servizi che combinano l’offerta di ben definite prestazioni (in genere erogate professionalmente da operatori specialisti) con quella di piattaforme abilitanti grazie alle quali i cittadini stessi possono collaborare tra loro e con altri attori sociali (enti pubblici, imprese, università, organizzazioni del terzo settore) per produrre valore sociale.
Il Pubblico diventa collaborativo
Riferendosi ai cittadini non solo come soggetti isolati bisognosi di supporto, ma anche come persone dotate di capacità e, potenzialmente, in grado di collaborare per risolvere problemi o aprire nuove opportunità[13], i servizi pubblici collaborativi sono espressione di una nuova idea di Pubblico: un Pubblico che ha come missione anche il riconoscere, stimolare, supportare, amplificare queste risorse diffuse nella società.
Vediamo meglio. Il Pubblico è inteso come l’ente che, tramite i servizi che eroga, offre (o dovrebbe offrire) a ciascuno la possibilità di veder riconosciuti i propri diritti sociali. Tradizionalmente, parlandone, si è fatto riferimento all’istruzione, alla salute, alla sicurezza sociale, alla casa, alla cultura. Ora i servizi pubblici collaborativi evidenziano la necessità e la possibilità di estendere il campo, includendone uno nuovo: il diritto alla collaborazione. Il diritto cioè di immaginare e realizzare progetti condivisi[14], coniugando l’interesse personale con l’interesse generale. Si tratta di un diritto da rivendicare perché oggi la società, l’economia e la tecnologia sono congegnate in modo tale che questa collaborazione, cioè questo fare assieme, risulta sempre più difficile, se non impossibile[15]. Il ruolo dei servizi pubblici si deve perciò allargare fino a comprendere e garantire a tutti la possibilità di partecipare a reti sociali e collaborare per ottenere risultati che ciascun soggetto da solo non potrebbe raggiungere. Anzi, se l’intenzione politica è – come dovrebbe essere – quella di ridurre le diseguaglianze, i servizi pubblici dovrebbero privilegiare le aree territoriali in cui si presentano le maggiori difficoltà, cioè quelle dove stanno le persone povere (anche) di tempo, energia e attenzione: il tempo, l’energia e l’attenzione necessarie per costruire le reti sociali collaborative grazie alle quali la qualità delle loro quotidianità potrebbe migliorare[16]. In altre parole, i nuovi servizi di cui parliamo sono pubblici collaborativi perché producono ambienti favorevoli alla collaborazione, e perché danno a tutti la possibilità di farlo, ovvero di attivarsi in modo coerente con le proprie disponibilità di tempo, energia e attenzione.
Prestazioni puntuali e piattaforme collaborative
I servizi pubblici collaborativi hanno dunque questa peculiarità: offrono prestazioni che rispondono a specifiche domande (attività verticale) e operano come piattaforme capaci di abilitare una varietà di attività collaborative (attività orizzontale). La coesistenza, o più precisamente l’intreccio, tra questi due modi di funzionare è dunque ciò che fa la differenza tra questa nuova tipologia di servizi e quella dei servizi pubblici cui generalmente si fa riferimento.
Ferma restando l’importanza delle prestazioni che eroga (in una scuola si deve insegnare bene e con passione; in una biblioteca si deve offrire un ricco catalogo di libri e un buon ambiente di lettura; in una Casa della Comunità si devono trovare le cure mediche richieste), è utile mettere meglio a fuoco la natura delle attività collaborative con cui queste prestazioni devono essere integrate, e le caratteristiche delle piattaforme abilitanti che le rendono possibili.
Gli esempi che abbiamo portato nei paragrafi precedenti ci dicono che il funzionamento di queste piattaforme deriva dalla combinazione di due modalità d’azione: in una la dimensione collaborativa è data dalla capacità del Pubblico di mobilitare altri attori sociali presenti e attivi sul territorio (immaginiamo una biblioteca che si offre come spazio utilizzabile da diverse organizzazioni e gruppi di cittadini attivi); nell’altra invece è il Pubblico stesso che si fa carico di stimolare e sostenere la partecipazione attiva dei cittadini (per rimanere sull’esempio della biblioteca, immaginiamo che siano gli stessi bibliotecari che si attivano per organizzare iniziative in collaborazione con i cittadini). Perché la prima modalità possa essere messa in atto è necessario che nel territorio in cui si opera e in relazione al tema che si intende trattare vi siano cittadini e organizzazioni dotati non solo di buone intenzioni, ma anche delle necessarie risorse di tempo, energia e attenzione[17]. Quando queste precondizioni ci sono, il servizio pubblico prende la forma collaborativa tipica delle politiche comunemente definite di «cittadinanza attiva», collegandosi ai cittadini che si fanno portatori delle idee e delle energie necessarie (ci torneremo nel Capitolo 3). Viceversa, la seconda modalità, quella in cui è l’ente pubblico stesso che si fa carico di stimolare e gestire attività collaborative, ed è l’unica praticabile quando le condizioni precedenti non sono date, cioè quando sul territorio non ci siano risorse sociali già attive e pronte a collaborare; in questo caso, se c’è l’intenzione politica di promuovere delle iniziative collaborative, è l’operatore pubblico che si deve far carico dell’intera piattaforma abilitante e del sistema di opportunità che essa dovrebbe proporre e sostenere.
Le due modalità ora indicate sono gli estremi di un campo di possibilità in cui esse possono combinarsi in forme diverse. In ogni caso, però, la piattaforma abilitante che ne emerge deve mettere i cittadini in condizione di essere attivi e collaborativi nei modi per loro più adatti, ovvero tali che venga loro offerta la possibilità di partecipare usando le risorse di cui dispongono. Il che rende possibili diverse forme di partecipazione: dall’attivismo di chi vuole e può praticarlo, a forme di impegno più flessibile ed episodico per tutti gli altri.
[1] Di comunità esistono molteplici definizioni: per gli obiettivi di questo libro, una comunità è un gruppo di persone che condividono interessi e comportamenti, creando legami sociali che influenzano la loro organizzazione.
[2] A. Agnoli, La casa di tutti. Città e biblioteche, Roma-Bari, Laterza, 2023. La stessa autrice approfondirà il tema nel Capitolo 7.
[3] P. Luongo, A. Morniroli, M. Rossi-Doria, Rammendare. Il lavoro sociale ed educativo come leva per lo sviluppo, Roma, Donzelli, 2022.
[4] Si veda www.retecasedelquartiere.org. Ilda Curti ed Erika Mattarella approfondiranno il tema nel Capitolo 10.
[5] Il termine «piattaforma» viene spesso usato in riferimento alle piattaforme digitali. Qui, e in tutto il libro è invece utilizzato nel suo senso generale di «sistema abilitante»: data un’attività umana, il suo sistema abilitante è l’insieme di persone, servizi, infrastrutture, norme e quant’altro possa renderla possibile e probabile. Si veda E. Manzini, Design When Everybody Designs. An Introduction to Design for Social Innovation, Cambridge (MA), The MIT Press, 2015.
[6] Seppur siano soggetti imprenditoriali, è utile includere nel nostro ragionamento anche i negozi che operano nella prossimità affiancando alla missione economica uno spirito di costruzione di comunità. A tal fine si veda il progetto Un negozio non è solo un negozio alla pagina https://www.dbari.it/bandi/un-negozio-non-e-solo-un-negozio/
[7] J. McKnight, The Careless Society. Community and Its Counterfeits, New York, Basic Books, 1995.
[8] È utile approfondire la correlazione tra capitale sociale e salute, riprendendo la Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: per salute si intende «uno stato di totale benessere fisico, mentale e sociale» e non semplicemente «assenza di malattie o infermità». Franco Prandi, Benedetta Riboldi e Franco Riboldi approfondiranno il tema nel Capitolo 18.
[9] E. Manzini, Le politiche del quotidiano, Milano, Edizioni di Comunità, 2018.
[10] M. d’Alena, Immaginazione civica. L’energia delle comunità dentro la politica, Bologna, Luca Sossella Editore, 2021.
[11] Il concetto di cura è centrale nella nostra proposta. Ci riferiamo ad esso nell’accezione che ne danno Berenice Fisher, Joan C. Tronto (in «Toward a Feminist Theory of Caring», in E. Abel, M. Nelson (eds), Circles of Care, Albany, Suny Press,1990) e poi da Maria Puig de la Bellacasa (in Matters of care. Speculative ethics in more than human worlds, Minneapolis-London, University of Minnesota Press, 2017). In particolare, quest’ultima propone di modificare la definizione di cura sviluppata da Fischer e Tronto estendendola all’interazione fra tutto ciò che fa parte della rete della vita. Su questo si veda anche: E. Manzini, V. Tassinari, «Designing Down to Earth. Lessons Learnt from Transformative Social Innovation», Journal of Design and Culture, Vol. 16, Issue 1 (2024), pp. 21-39.
[12] Su questo tema ritorneremo nel Capitolo 5.
[13] M. d’Alena, Immaginazione civica, cit.
[14] E. Manzini, Le politiche del quotidiano, cit.
[15] R. Sennett, Together. The Rituals, Pleasures, and Politics of Cooperation, New Haven, Yale University Press, 2012 (trad. it. Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione, Milano, Feltrinelli, 2014).
[16] H. Cottam, Radical Help. How We Can Remake the Relationships Between Us and Revolutionise the Welfare State, London, Virago, 2018.
[17] AA.VV., Ripensare la sussidiarietà orizzontale nell’Unione europea. Nuovi strumenti per un welfare di comunità nell’esperienza italiana: i Patti di collaborazione, progetto Bright-programma dell’Unione Europea Rights, Equality and Citizenship (2014-2020), 2022.