“Fare storia della lingua” di Luca Serianni
- 27 Gennaio 2025

“Fare storia della lingua” di Luca Serianni

Recensione a: Luca Serianni, Fare storia della lingua. Scritti per Treccani sull’italiano e la scuola, a cura di Giuseppe Patota, Treccani, Roma 2023, pp. 182, 15 euro (scheda libro)

Scritto da Marta Sommella

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Nella premessa al volume Fare storia della lingua. Scritti per Treccani sull’italiano e la scuola, Giuseppe Patota ricorda che Luca Serianni – linguista di fama internazionale – ha dedicato la sua vita a studi di notevole rilevanza sulla lingua italiana e sulle sue varietà: dal 1972 al 2022, «Serianni ha studiato tutto o quasi tutto quello che si poteva studiare di una pur così vasta materia» (p. 8). Per tale ragione, l’Istituto della Enciclopedia Italiana ha affidato a lui il compito di scrivere una voce enciclopedica che potesse ricostruire la storia e ridefinire lo statuto della disciplina correntemente indicata come Storia della lingua italiana. All’interno del volume si rilevano quattro sezioni: la prima intitolata L’italiano e la storia, la seconda L’italiano e i dialetti, la terza L’italiano e la scrittura e infine la quarta e ultima sezione L’italiano e la scuola, il cui ultimo scritto – L’eredità di Tullio De Mauro – lascia trapelare la stima affettuosa di Serianni nei confronti dell’amico e collega con cui condivideva il profondo interesse verso il mondo della scuola.

Di grande interesse risultano i cenni storici delineati nella prima parte, L’italiano e la storia, dove viene messa a fuoco la nozione di storia della lingua in base a tre parametri: il rapporto tra le singole lingue nazionali e le rispettive storie linguistiche; la definizione rispetto ai settori scientifici contigui; la relazione tra ricerca e didattica. Ne scaturiscono considerazioni puntuali che inducono il lettore a riflettere su come lo storico della lingua non possa prescindere dai problemi delle origini, tenendo conto delle specifiche tradizioni di studi che hanno portato alla nascita della storia della lingua italiana: la dialettologia – che si richiama a Graziadio Isaia Ascoli – e la filologia. Serianni, inoltre, ritiene indispensabile operare la distinzione tra storia linguistica interna ed esterna introdotta da Ferdinand Brunot. La storia interna – che in gran parte coincide con la grammatica storica – si riferisce all’evoluzione di fonetica, morfologia e sintassi che dipendono perlopiù dalla naturale mutabilità delle lingue nel succedersi delle generazioni di parlanti, anche per effetto dell’interferenza di altri sistemi linguistici. Diversamente, la storia esterna comprende l’insieme dei fattori di ordine fisico, storico, antropologico o culturale che possono condizionare l’evoluzione di una lingua.

Nel 2003 – per l’italiano – Serianni ha individuato i seguenti fattori, elencati in ordine di importanza: fattori extraculturali, culturali in senso lato (vicende demografiche, politiche, amministrative, economiche e militari) e, infine, i fattori culturali in senso stretto come analfabetismo e scolarizzazione e incidenza dei mezzi di comunicazione di massa. Per quanto concerne la relazione tra ricerca e istruzione, la storia della lingua italiana ha un forte impatto nell’attività didattica quotidiana: l’italiano dei classici, con cui entrano in contatto più o meno tutti gli adolescenti scolarizzati, costituisce un’ottima occasione per riflettere sul cambiamento semantico. In riferimento ai temi di ricerca, Serianni distingue studio della lingua letteraria e studio della lingua non letteraria: la lingua degli autori è fatta oggetto di studi che ne indagano i tratti fonetici, morfologici, sintattici; gli studi sulle scritture non letterarie invece non hanno sempre rilievo storico, ma possono risultare oltremodo utili per venire a conoscenza di avvenimenti grandi e piccoli. È questo il caso degli epistolari di mittenti colti – oggetto di varie indagini di Giuseppe Antonelli – che offrono uno spaccato delle scritture di donne di cui altrimenti non si sarebbe saputo. In merito ai linguaggi settoriali, si precisa che vengono impiegati in aree di saperi particolari – antichi o moderni – o condizionati dal mezzo (si pensi al linguaggio impiegato nel cinema o alla radio). Più avanti, ci si sofferma sull’onomastica e – più nello specifico – sull’antroponimia, aree di ricerca tutt’oggi di grande vitalità. In tale contesto, si rilevano due solide realtà: la «Rivista Italiana di Onomastica» fondata nel 1995 e diretta da Enzo Caffarelli, aperta anche ad ambiti più marginali come le denominazioni di esercizi commerciali (apoteconimi) o di animali domestici e, dal 1999, «Il Nome nel Testo. Rivista internazionale di onomastica letteraria» i cui direttori sono Maria Giovanna Arcamone, Davide De Camilli, Bruno Porcelli. Si segnalano inoltre I nomi di persona in Italia. Dizionario storico ed etimologico, pubblicato da Alda Rossebastiano in collaborazione con Elena Papa nel 2005 che offre – per ognuno degli oltre 28.000 nomi censiti – oltre all’etimologia, la frequenza nel corso degli anni e la distribuzione regionale e I cognomi d’Italia (2008) di Enzo Caffarelli e Carla Marcato.

I metodi d’analisi impiegati possono determinare la qualità dell’indagine storico-linguistica che «procede tuttora secondo i presupposti (dalle basi latine agli esiti volgari), le categorie interpretative (latinismo, influsso analogico…), la griglia descrittiva (dalla grafia al vocalismo tonico e atono, al consonantismo…), la terminologia messi a punto nei grandi lavori di grammatica storica dalla fine del XIX secolo in avanti» (p. 28). Nelle procedure di analisi, la linguistica testuale in Italia ha suscitato attenzione da parte di storici della lingua come Bice Mortara Garavelli, Francesco Sabatini, Maurizio Dardano. Rosa Piro, pubblicando le sintesi di alcuni sermoni visionari di una mistica fiorentina del Quattrocento, distingue nettamente tra una sezione “tradizionale” (ar/er atoni, metatesi, numerali ecc.) e una sezione “innovativa”, dedicata a testualità e discorso riportato. Nell’analisi della lingua del passato, il ricorso alla linguistica generativa è invece meno usuale.

Nel seguito della trattazione, vengono menzionate risorse lessicografiche cartacee ed elettroniche di spicco. Nel 1999 è apparso il GRADIT (Grande Dizionario Italiano dell’uso) di Tullio De Mauro, che – con i suoi circa 250.000 lemmi – vanta il più esauriente lemmario della lingua italiana dell’uso corrente. Di notevole rilievo anche il Vocabolario Treccani e i ben noti Zingarelli, Devoto-Oli, Sabatini-Coletti, Garzanti, che escono ormai con edizioni annuali che – aldilà dall’introduzione di un certo numero di neologismi – forniscono diverse altre informazioni di tipo linguistico, spesso dettate dalle scelte della concorrenza. Tuttavia, l’autore descrive come scarsa e lacunosa la produzione lessicografica italiana sui dialetti, malgrado le tante risorse offerte dagli archivi elettronici e dai vari corpora disponibili in rete che permetterebbero di implementare anche le ricerche in ambito dialettale. In passato, già Tullio De Mauro aveva posto il problema del grado di conoscenza dell’italiano in età preunitaria nella sua Storia linguistica dell’Italia unita (1963), mentre a Francesco Bruni si deve il tracciamento in due volumi – il primo di saggi, il secondo di testi e documenti – del profilo storico-linguistico delle varie aree regionali italiane realizzato nei primi anni Novanta del secolo scorso, L’italiano nelle regioni (1992-1994), che offre importanti spunti di riflessione nell’affrontare lo stesso problema dell’italofonia preunitaria posto negli ultimi anni.

La seconda parte del libro è incentrata proprio sull’italiano e i dialetti, erosi a partire dal secondo dopoguerra: negli anni Ottanta e Novanta l’italiano è andato via via consolidandosi, come testimoniato da diversi studi. Tra questi, «un’indagine sull’italiano parlato in diverse situazioni comunicative in quattro grandi città, Milano, Firenze, Roma e Napoli (De Mauro, Mancini, Vedovelli et al., 1993), ha fatto emergere l’uso soltanto occasionale dei dialettismi anche nei contesti più confidenziali» (p. 45). Ciò nonostante, i dialetti sono lontani dalla scomparsa e la loro influenza incide sull’italiano usato da larghissime fasce di parlanti; si tratta di un italiano regionale nel cui profilo fonetico e prosodico si rintracciano tratti locali. Tredici sono le varietà di italiano regionale parlate attualmente in Italia individuate da Luciano Canepari: piemontese, ligure, lombarda, veneta, giuliana, emiliana, sarda, toscana, umbro-marchigiana, laziale, campana, pugliese e siciliana. Oltre all’influenza dei dialetti, sulla lingua italiana si avvertono le conseguenze – fonetiche e morfologiche – della sempre crescente proliferazione delle sigle, nonché dei nomi femminili di professione «non hanno avuto fortuna le proposte più radicali, ma hanno conosciuto un certo incremento nomi epiceni (la preside, assai diffuso anche prima, o la presidente invece di presidentessa) e femminili regolarmente tratti dai corrispondenti maschili in -o o in -iere (l’avvocata, la ministra, l’ingegnera)» (p. 53). Dal punto di vista della sintassi, ci si limita a segnalare la diffusione – in molti testi scritti – dello stile nominale e del discorso diretto, effetto quest’ultimo del forte avvicinamento tra scritto e parlato. Altri fenomeni in espansione sono l’accoglimento dell’accusativo preposizionale in posizione preverbale, specie con verbi psicologici, e l’uso del gerundio semplice come forma in grado di esprimere un’azione anteriore o posteriore rispetto al verbo finito (anteriorità, nel caso di gerundio anteposto; posteriorità, nel caso di gerundio posposto). Osservando il lessico, si fa notare che persistono caratteristiche variazioni regionali che riguardano espressioni d’uso comune e parole d’ambito familiare e domestico. D’altro canto, a livello nazionale si denota la presenza – anche nella conversazione quotidiana – di parole di matrice colta o specialistica – avvertite come prestigiose – e di numerosi adattamenti, calchi semantici e prestiti integrali, in particolare dall’inglese. Anche il francese continua a esercitare un influsso importante sull’italiano «non più come un tempo attraverso prestiti non adattati, ma attraverso calchi, specie nel settore della politica e dell’economia» (p. 57).

L’italiano e la scrittura è il titolo della parte terza del volume che si apre con alcune riflessioni intorno a scritto e parlato. Serianni, infatti, ricorda che la scrittura è un codice secondario rispetto alla lingua parlata, come dimostrano studi di paleontologia secondo cui l’acquisizione del linguaggio da parte dell’Homo sapiens sia di molto anteriore alle prime testimonianze scritte. Attualmente, nell’italiano come in altre lingue dette di cultura, il radicamento della scrittura è tale che un oratore – parlando di sé in terza persona – possa dire: “il sottoscritto” o “la sottoscritta” (e non chi vi parla, che sarebbe avvertito come formale e sostenuto); e molteplici sono le frasi idiomatiche risultato della traslazione dalla scrittura al parlato: “mettere i puntini sulle i”, “proclamare a chiare lettere”, “non capirci un’acca” ecc. Naturalmente, scritto e parlato presentano differenze nette individuate e descritte da Serianni: il parlato utilizza solo il canale fonico-acustico, mentre lo scritto prevalentemente quello grafico-visivo; il parlato è una tipica comunicazione “in situazione”, svolta in un dato contesto in cui un emittente si rivolge a uno o più destinatari, i quali possono a loro volta interagire, a differenza dello scritto «solo eccezionalmente in situazione, come quando, in una riunione, un partecipante, per non interrompere o per non farsi notare, allunga un appunto a un collega» (p. 62); al contrario del parlato, lo scritto è rigido e sequenziale, regolato e programmato ed è fruibile liberamente dal destinatario. Dall’ultimo decennio del secolo scorso, si parla di “trasmesso scritto” (Prada, 2003) in riferimento alla scrittura per la rete, alla posta elettronica, alla messaggeria istantanea in cui si assiste ad una commistione di tratti scritti e orali. In questo contesto, Serianni precisa utilmente che la rigidità della terminologia dei linguaggi settoriali conduce ad una cristallizzazione di gran parte del repertorio linguistico, nella dimensione sia orale che scritta. Successivamente, l’autore ricorda che la lingua italiana si è formata e si è trasmessa nel corso dei secoli – seppure in assenza di unità politica – grazie a modelli scritti: il prestigio della Scuola poetica siciliana, diffusasi soprattutto attraverso la mediazione dei grandi canzonieri toscani; la fortuna immediata di Dante, Petrarca e Boccaccio; la codificazione cinquecentesca a opera di Pietro Bembo, che collega l’uso della lingua scritta all’esistenza di una tradizione letteraria. E non è un caso se la svolta decisiva verso l’italiano moderno si ebbe grazie ad Alessandro Manzoni, scrittore, poeta e drammaturgo.

La quarta parte del testo, L’italiano e la scuola, fa emergere la scarsità dell’interesse dei vari Stati per l’istruzione prima dell’Unità. A testimonianza di ciò, la legge Casati del 1859 si disinteressava dell’educazione infantile che, peraltro, rientrava sotto la giurisdizione del Ministero dell’Interno, non sotto quella del Ministero dell’Istruzione. Inoltre, conservatori e membri del clero si mostravano diffidenti, temendo che la plebe – una volta istruita – potesse costituire un pericolo. Sull’obbligo scolastico appariva scettico anche Pasquale Villari «per il quale prima dell’istruzione occorreva promuovere le condizioni economiche delle plebi, specie di quelle meridionali che rappresentavano l’oggetto privilegiato del suo impegno» (p. 100). D’altra parte, diversi erano i sostenitori dell’obbligo scolastico, tra cui il pedagogista Aristide Gabelli. Nella scuola postunitaria, si pongono principalmente due problemi: il reclutamento del corpo docente – e il relativo trattamento economico – e il mancato equilibrio tra scuole femminili e maschili, con prevalenza di queste ultime, in particolare nel Mezzogiorno. Serianni mette qui in luce anche dati significativi su alfabeti, analfabeti, italofoni e dialettofoni: con il 1861 si ha il primo censimento nazionale secondo cui il dato complessivo di analfabeti è del 72%. I tassi di alfabetizzazione tra Nord e Sud del Paese sono tutt’altro che banali, come si evince dalla tabella 4.3 (p. 110) riportata di seguito:

Luca Serianni

Dati alla mano, lo studioso fa notare come il lavoratore analfabeta sia collocato in una società agricola, non in una società industriale. Negli anni successivi all’Unità, si ha un forte incremento dell’attività editoriale e le occasioni di lettura si moltiplicano attraverso l’espansione dei giornali dalla sintassi semplice e concisa: si prediligono periodi a basso indice di subordinazione e le frasi nominali. Si diffondono anche modalità verbali in precedenza rare, come l’imperfetto cronistico – tipico delle descrizioni – o il condizionale di dissociazione.

A chiusura del volume, alcune considerazioni sull’eredità di Tullio De Mauro inducono il lettore a riflettere sulla necessità di assicurare una formazione di base all’intera platea degli alunni della scuola dell’obbligo come suggerito proprio da De Mauro e indicato nelle Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica promosse dal GISCEL (Gruppo di intervento e studio nel campo dell’educazione linguistica) nel 1975. Oggi, i problemi che si riscontrano nei contesti scolastici riguardano maggiormente il possesso della lingua e, più precisamente, la capacità di produrre e di riconoscere un testo coeso e coerente e di essere in grado di riformularlo, circoscrivendone le informazioni salienti. «Intervenire su questi aspetti nella scuola è possibile, ma richiede un riorientamento della didattica dell’italiano, a partire dalla secondaria di primo grado, specie per quanto riguarda le verifiche da proporre alla classe. E richiede anche un allargamento delle letture che, pur continuando com’è giusto a privilegiare la componente letteraria con il suo potenziale fantastico-immaginario, dia spazio anche ai temi toccati da giornali e saggistica divulgativa» (p. 181).

Scritto da
Marta Sommella

Laureata con lode in Lingue e letterature europee e americane all’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”. Presso lo stesso Ateneo, ha conseguito il dottorato di ricerca in Linguistica, ottenendo il giudizio di ottimo con lode. Tra i suoi principali interessi di ricerca figurano la psicomeccanica del linguaggio, la lessicologia e la lessicografia, la pedagogia e la traduzione. Ha maturato esperienze didattiche in contesti universitari e scolastici, sia in Italia che all’estero. Attualmente è docente di sostegno presso la scuola secondaria di primo grado.

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