Gülen e Erdoğan: da alleati a nemici mortali
- 28 Dicembre 2018

Gülen e Erdoğan: da alleati a nemici mortali

Scritto da Federico Lanza

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È al colpo di stato del 12 settembre 1980 che possiamo far risalire il salto di qualità del movimento di Gülen: l’intervento delle forze armate arrivò in risposta ad un lustro di instabilità e violenza extra-politica tra gli esponenti dei gruppi della sinistra radicale e quelli dell’estrema destra.

La giunta militare guidata da Kenan Evren legittimò l’intervento armato sulla base dell’assenza, tra le diverse forze politiche del Paese, di “unità nazionale e coesione” (millî birlik ve beraberlik). In Turchia l’espansione della coscienza politica ha sempre preceduto lo sviluppo di strutture istituzionali in grado di frenare, controllare ed incanalare la partecipazione politica: i gruppi radicali di destra e sinistra hanno trovato nella fragilità istituzionale dello Stato turco la scorciatoia migliore per ottenere accesso all’arena politica senza, tuttavia, identificarsi con le organizzazioni politiche esistenti.

Nel 1980 si arrivò ad un punto in cui le cosiddette “regole del gioco” non andavano più bene a nessuno: il risultato furono più di 5000 morti in appena 4 anni. Dopo il 12 settembre, tutti i partiti vennero messi fuorilegge e i poteri concentrati nelle mani del Consiglio di Sicurezza Nazionale (Millî Güvenlik Kurulu) presieduto dal generale Evren. L’obiettivo velato della giunta militare, nel pieno delle logiche della Guerra Fredda, era quello di contrastare la diffusione di movimenti socialisti e comunisti appellandosi, ancora una volta, all’Islam come collante identitario. La giunta militare si fece promotrice di una nuova ideologia di Stato, la “sintesi turco-islamica” (Türk-İslam Sentezi) formulata un decennio prima da un gruppo di intellettuali e scrittori conservatori vicini alla destra turca riuniti attorno all’associazione “Aydınlar Ocağı” – II Focolaio degli Intellettuali – e capeggiati da İbrahim Kafesoğlu. Questa associazione era ben connessa con gli apparati civili-militari, favorevoli – come d’altronde l’associazione stessa – ad una ridefinizione dell’identità turca in senso islamico.

Lo stesso Gülen, assieme ad alcuni Nurcular (i seguaci di Said Nursi), fondò nel 1965 a Erzurum la sede locale dell’Associazione Turca per Lotta contro il Comunismo (Türkiye Komünizmle Mücadele Derneği). Cemal Gürsel, anche lui nativo di Erzurum e a capo della giunta militare che rovesciò il governo di Menderes nel 1960, accettò nel 1965 di diventare presidente onorario dell’Associazione Turca per Lotta contro il Comunismo: l’esperienza di questo gruppo di nazionalisti anti-comunisti fu tanto breve quanto significativa per la formazione di un’opinione pubblica (già) fortemente ostile e sospettosa verso qualsiasi attività organizzata dagli attivisti e dagli intellettuali di sinistra.

 

L’affermazione del Movimento e la comunione di interessi con l’AKP

Come abbiamo detto in precedenza, il colpo di stato del 1980 e le dinamiche politiche ed economiche che vi hanno fatto seguito hanno rappresentato l’occasione per il Movimento di compiere un grandissimo salto di qualità e di affermarsi, tra i circoli del centro destra conservatore, come un’avanguardia islamica alternativa all’interpretazione radicale dell’Islam proposta dal Millî Görüş (Visione Nazionale) di Erbakan. Ripetutamente, del 1983 in poi, Gülen rientrò sotto l’ala protettrice dell’Anavatan Partisi di Turgut Özal, con cui lo stesso Gülen avrebbe stretto dei legami di profonda amicizia. Nel 1983, Özal diventò primo ministro dopo aver ottenuto una maggioranza schiacciante alle prime elezioni libere dopo il colpo di stato: l’ANAP ottenne il 45% delle preferenze, staccando di parecchi punti percentuali sia il partito sponsorizzato dai generali che il Partito Populista, l’espressione politica più vicina alla tradizione kemalista.

L’ANAP era una strana coalizione di islamisti, capitalisti conservatori e rappresentati della classe media anatolica, che erano confluiti nell’ANAP perché era l’unica alternativa credibile in un sistema politico ancora fortemente controllato dai militari. I sostenitori dell’Anavatan Partisi, soprattutto la nascente borghesia anatolica, apprezzavano il pacchetto di riforme economiche promosse dal Fondo Monetario Internazionale, realizzate da Özal ma sottoscritte a gennaio del 1980 dal governo di Süleyman Demirel. La ristrutturazione dell’economia, compiuta sotto il mandato di Özal che rimase primo ministro fino al 1989, venne perseguita attraverso tre strategie: riequilibrio della bilancia dei pagamenti, lotta all’inflazione e creazione di un mercato libero e rivolto alle esportazioni.

Özal e Gülen si conoscevano, per quanto ci è dato sapere, almeno dal 1977, quando ad İzmir Özal, candidato nelle fila del Millî Salamet Partisi (Partito della Salvezza Nazionale) chiese il supporto politico di Gülen e della sua comunità. Özal e Gülen, nel corso degli anni Ottanta, discussero molto di economia e politica, prefigurando l’attuazione “à-la-turca” del modello americano del neo-conservatorismo (yeni muhafazakarlik). Volevano creare un nuovo tipo di cittadino turco che fosse religiosamente conservatore ma allo stesso tempo capace di muoversi e di operare in un’economia di mercato di stampo neoliberale. Con la privatizzazione dell’istruzione e la deregolamentazione del mercato mediatico, le politiche economiche ispirate dal FMI fornirono a Gülen il framework normativo ideale per la sua espansione nella sfera pubblica. Sono gli stessi precetti dettati nel Corano a pretendere che lo spirito dell’Islam reifichi nel mercato e renda concreta e visibile nel commercio e negli spazi pubblici la morale dei testi sacri. Nel 1982 inaugurò a İzmir la prima scuola gülenista, seguita da due scuole superiori: il Fatih Koleji a İstanbul e il Samanyolu Koleji ad Ankara.

La volontà di Özal di assegnare un ruolo politico ed economico alla borghesia anatolica, in risposta al crescente peso a livello nazionale di questa fascia della popolazione, fu alla base dei primi successi del nuovo corso politico. Non a caso, lo slogan dell’ANAP per le elezioni politiche del 1983 era stato creato apposta per loro: la borghesia anatolica avrebbe rappresentato l’orta direk (il pilastro centrale) della nuova nazione turca. I piccoli imprenditori e i commercianti anatolici commerciavano tramite il network costruito da Gülen (utilizzando l’Islam come legame relazionale e fiduciario) per trovare nell’AKP – ma ancora prima nell’ANAP e successivamente nel Refah Partisi e nel Fazilet Partisi – il mezzo politico per dare rappresentanza e istituzionalizzazione al proprio protagonismo economico. Queste piccole e medie imprese avrebbero costituto la base dello sviluppo economico degli anni Duemila, nonché il bacino di voti più rilevanti dell’elettorato AKP.

La comunione di interessi tra l’AKP e il movimento di Gülen, dunque, non è esclusiva del partito di Erdoğan, ma quest’ultimo ha semplicemente ereditato dinamiche politiche ed economiche già esistenti a livello locale e nazionale, limitandosi a ridefinire i termini dell’alleanza e di quelle che potremmo chiamare “aree di competenza”. Quello che interessa è capire perché sia terminata o, piuttosto, come mai sia durata così tanto nonostante le differenze. Gülen e l’attuale presidente turco provengono dalla stessa macro-area culturale – quella dell’islamismo turco – ma le radici sono piuttosto eterogenee. Quelle di Gülen affondano negli insegnamenti di Said Nursi; la destra turca, guidata dall’AKP, è il prodotto culturale degli scritti di Necip Fazıl Kısakürek, di Nurettin Topçu e del Millî Görüş di Erbakan.

Il reciproco interesse tra la futura classe dirigente dell’AKP e la comunità di Gülen risale ai mesi successivi al febbraio 1997, quando il Consiglio di Sicurezza Nazionale, tramite quello che venne definito da Salim Dervişoğlu un “golpe post-moderno”, costrinse Necmettin Erbakan a rassegnare le dimissione da primo ministro e alla messa al bando del Refah Partisi. L’azione repressiva dell’establishment kemalista nei confronti dei movimenti di ispirazione religiosa spinse Gülen all’esilio negli Stati Uniti d’America nel 1999, dove si trova tutt’ora. Fatto tesoro dell’esperienza negativa del Refah Partisi e del Fazilet Partisi – il primo chiuso dai militari, il secondo messo fuori legge dalla magistratura – l’obiettivo primario dell’AKP, in linea con i Criteri di Copenaghen, era quello di circoscrivere il potere politico dei militari. L’esercito era considerato una minaccia sia nei confronti del processo democratico in sé, sia una minaccia alla sopravvivenza dell’AKP. La leadership del AK Parti trovò nella Cemaat un validissimo alleato: il partito di governo e la Cemaat iniziarono ad infiltrate le forze di polizia, la magistratura, l’istruzione, la burocrazia, i media e gli apparati economici di propri seguaci e affiliati.

 

La fine dell’alleanza tra Gülen e Erdoğan

Le prime crepe nell’alleanza iniziarono ad apparire dopo i processi di Ergenekon, Balyoz e Poyrazköy del 2008: questi tre processi costituirono un violento assalto nei confronti della struttura kemalista dello Stato e in particolare contro l’esercito, accusati di voler rovesciare il governo di Erdoğan. La storia non si è ancora espressa sull’effettivo peso specifico di questi processi, ma in Turchia all’epoca c’era la fortissima convinzione che dietro questi scandali giudiziari si nascondesse in realtà un tentativo senza precedenti di invertire i rapporti di forza mettendo in fuorigioco quello che veniva considerato il principale ostacolo allo sviluppo democratico della Turchia. La comunità di Gülen ha sempre negato con forza ogni coinvolgimento nei processi Ergenekon, Balyoz e Poyrazköy, ma quando İlker Başbuğ – capo delle forze armate turche dal 2008 al 2010 e una delle vittime più illustri – venne rilasciato nel 2014, il castello di carta costruito da Erdoğan e Gülen si sbriciolò rapidamente. Palesando così tutta la faziosità di un processo costruito ad arte e i gravi pericoli che una frattura tra questi due attori, troppo ampia per essere sanata, avrebbe comportato per il futuro del Paese. La frattura non è stata un prodotto inevitabile delle differenze ideologiche tra i due attori presi in esame; abbiamo visto che l’alleanza è durata nonostante le differenze di forma e sostanza di Erdoğan e Gülen. Perché, allora, la rottura si è palesata in tutta la sua devastante pericolosità dal 2008 in poi? Sicuramente il fatto di essere rimasti i due attori più potenti a controllare e gestire le risorse economiche dello Stato non ha favorito il dialogo ma, anzi, ha alzato il livello dello scontro e le tattiche di azione.

L’aspetto che più è interessante sottolineare per spiegare le cause del divorzio è il cambiamento di governance dell’AKP, databile intorno al 2009, che ha interessato uno dei fattori alla base del successo pluridecennale del Movimento: la sostituzione dell’economia di mercato neoliberista con un nuovo regime economico, riassunto nell’espressione giornalistica “Erdoğanomics”. Dopo la riconferma elettorale del 2007, in cui l’AKP ha ottenuto il 46,58% dei voti e 341 seggi in parlamento, il partito di governo si è sentito abbastanza forte da iniziare a perseguire una propria agenda autonoma: da un lato, autonoma sia da quelli che erano i Criteri di Copenaghen per l’avvio dei negoziati di adesione all’Unione Europea; dall’altro sia da quelle linee politiche che avevano garantito fino a quel momento la sopravvivenza della fragile alleanza tra AKP e apparati gülenisti.

Intorno al 2009 assistiamo alla trasformazione dell’economia turca, da un modello spiccatamente neoliberista ad un modello tipico di un “developmental state” (meno libero mercato, meno concorrenza, più statalismo) in grado di fare dello sviluppo economico la propria fonte centrale di legittimità. Come detto in precedenza, la scalata al potere dell’Ak Parti non si può spiegare senza considerare il successo economico delle “Tigri Anatoliche” eredi della tradizione neo-liberista di Özal e la cui rappresentanza politica venne raccolta da Erdoğan, in sostanziale continuità con quanto era avvenuto con il Refah il Fazilet Partisi. Queste imprese, tuttavia, uscirono dalla crisi economica degli anni Novanta fortemente indebitate, e ben presto l’AKP si accorse che il processo di accumulazione di capitale non sarebbe continuato all’infinito ma avrebbe avuto bisogno di incentivi costanti per continuare a mantenere un livello di crescita economica tale da legittimare il dominio politico di Erdoğan. I rendimenti marginali decrescenti degli investimenti delle “Tigri Anatoliche” resero necessaria la creazione artificiale di nuovi mercati alternativi. Lo stato si concentrò su due settori in particolare: la costruzione di mega-infrastrutture come il terzo ponte sul Bosforo, il terzo aeroporto di İstanbul e decine di aeroporti distribuiti capillarmente sul Paese secondo la formula del “costruisci-gestisci-trasferisci” e lo sviluppo del settore edile e il supporto finanziario ad agenzie pubbliche di riqualificazione urbana e urban planning come il TOKİ. È stata riscontrata da molti autori (Tuya Kuyucu e Biray Kolluoğlu) una convergenza tra le pratiche di vendita dei terreni demaniali a investitori vicini al governo e la ristrutturazione del capitale domestico: il settore immobiliare e la “rigenerazione urbana” hanno rappresentato un canale di investimento e profitto molto redditizio. L’intervento statale nel mercato immobiliare e nel settore dell’ingegneria civile ha alimentato una bolla speculativa che costituisce il motore gonfiato dell’economia turca.

Gli apparati economici della comunità di Gülen hanno sperimentato la difficoltà di accesso a questi nuovi mercati artificiali, in cui lo Stato si è configurato quasi come un cliente di sé stesso, capace di sostenere per anni una crescita economica artificiale, ma a costo di grandissime e profondissime fratture politiche e sociali. Il controllo esclusivo e l’allocazione delle risorse statali è stato il principale punto di rottura tra i due attori. Il colpo di stato del 15 luglio 2016 altro non è che l’ultimo atto (per ora) di una battaglia senza esclusione di colpi che prosegue apertamente dal 2013.

Quanto detto fin qui contribuisce a sconfessare alcune “credenze” diffuse sulle dinamiche politiche turche e, innanzitutto di superare la formula Islam vs secolarismo e la dicotomia tra Islam radicale e Islam moderato, linee guida prive di valore per capire come funziona la Turchia di oggi. Questo framework interpretativo, usato perfino nelle ore successive al colpo di stato del 15 luglio, non è più utile a fornire una chiara immagine del Paese, tanto più che ora la contrapposizione si è spostata da “laici” vs “islamisti” ad un confronto diretto tra due attori dichiaratamente islamisti. Una visione di questo tipo, cristallizzata nell’eterna lotta tra establishment kemalista e islamisti, rischia di portare ad una lettura errata del colpo di stato del 15 luglio 2016 ma soprattutto del 12 settembre 1980. Il carattere estremamente conservatore e reazionario della giunta militare guidata da Evren non prese di mira una minaccia, vera o presunta, al secolarismo di stato, ma colpì quella che al tempo sembrava una minaccia molto più imminente e reale: il comunismo e il socialismo.

L’adozione a ideologia di stato della “Sintesi Turco-Islamica” basta a rinnegare, una volta per tutte, l’entità suprema dello Stato, ossia l’esercito e il Consiglio di Sicurezza Nazionale, come una forza laica e progressista in quanto tale. Il colpo di stato del 15 luglio, invece, è la sintesi inevitabile dello scontro tra due movimenti islamisti che, inconsciamente o meno, hanno portato il Paese all’erosione dello stato di diritto e ad una repressione generalizzata del dissenso da parte dello stato motivata, quando in assenza di prove concrete e fondate, dall’appartenenza alla confraternita gülenista o ad organizzazioni terroristiche di diversa matrice.

Fermo restando l’impossibilità morale di giustificare le purghe in seno alla burocrazia, all’accademia e al giornalismo, occorre ricordare che l’alternativa gülenista difficilmente avrebbe potuto rappresentare una forza progressista e democratizzante. Nonostante questo, il presidente turco e l’AKP non hanno esitato a servirsene, creando un problema che adesso lo stesso Erdoğan sta cercando di risolvere in tutti i modi.

Scritto da
Federico Lanza

Nato nel 1994. Frequenta il corso di laurea magistrale in Studi Afro-Asiatici presso l'Università di Pavia. La sua area di studi è la Turchia: si interessa di nazionalismo, etnicità, processi politici e studi strategici.

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