“Giustizia spaziale. Transizione urbana e sfide ambientali” di Mosè Cometta
- 25 Marzo 2025

“Giustizia spaziale. Transizione urbana e sfide ambientali” di Mosè Cometta

Recensione a: Mosè Cometta, Giustizia spaziale. Transizione urbana e sfide ambientali, Mimesis, Milano 2024, pp. 128, 12 euro (scheda libro)

Scritto da Sofia Rossi

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L’Homo faber “fa” spazio, territorio, paesaggio… in termini generali, “fa mondo”, istituendo gerarchie di ordini e usi, creando collegamenti, connessioni e legami duraturi. In questa ottica, nessun territorio è mera geostruttura, ossia una porzione limitata di spazio fisico, bensì è sempre il prodotto di un complesso di fattori materiali e immateriali, di eventi storici, visioni, narrazioni e stili di vita, collegamenti, connessioni e distanze corte o lunghe che siano. Tuttavia, l’attuale modo di fare mondo, sia collettivamente che individualmente, mette a repentaglio l’intero ecosistema globale, rendendo inabitabili ampie regioni del pianeta. In un’epoca segnata da cambiamenti climatici, erosione del suolo, desertificazione e cementificazione, come garantire a ognuno la possibilità di vivere in uno spazio accogliente e piacevole e, soprattutto, come lasciare a ognuno la libertà di partecipare alla “produzione” del proprio territorio? In altre parole, oggi più che mai, la nostra civiltà è chiamata a riflettere sul concetto di giustizia – ovvero il dare a ciascuno il suo – ampliando la riflessione anche sulle questioni spaziali e territoriali. Cos’è dunque la giustizia spaziale?

Questa è la questione cruciale attorno alla quale nasce il saggio Giustizia spaziale. Transizione urbana e sfide ambientali del filosofo e dottore in geografia Mosè Cometta, che decide di servirsi della filosofia, della geografia, dell’analisi politica e dell’urbanistica per illustrare il concetto di giustizia spaziale e le sue diverse ramificazioni, per provare a far comprendere la centralità della questione non solo ai geografi e ai pianificatori, ma anche, e soprattutto, ai non addetti ai lavori, dal momento che anche loro “fanno” territorio ogni giorno.

 

L’asse della giustizia, dello spazio e del territorio

A partire già dalle prime pagine, il saggio introduce il lettore nell’analisi dei concetti di giustizia, spazio e territorium, delineando una vera e propria filosofia del territorio, utile per descrivere e analizzare sia le dinamiche interne dei singoli territori sia quelle esterne in rapporto con gli altri. Lungo quest’asse emerge la volontà dell’autore di sollecitare il lettore nella riflessione del buon uso del mondo – secondo giustizia, bontà e bellezza – costringendolo, in qualche modo, a ripensare radicalmente lo spazio e il territorio circostanti.

Seguendo l’ordine, il concetto di giustizia si esplica nel “dare a ciascuno il suo”, ovverosia operare una ripartizione della realtà che sia in qualche modo corretta ed egualitaria. Lo stesso concetto può essere declinato in termini aristotelici come proporzione: ciò che è giusto è commensurato, proporzionato. Ma in base a quali criteri è possibile giudicare l’appropriatezza e l’equilibrio di una proporzione? Nell’Etica nicomachea Aristotele identificava tre parametri per le tre rispettive classi sociali esistenti: secondo i democratici, il fatto di essere libero, ovvero cittadino a pieno titolo – con l’esclusione di donne, schiavi e meteci – era sufficiente per rientrare nella giusta ripartizione; per gli oligarchici, invece, chi è ricco merita di ricevere di più; infine, per gli aristocratici il possesso delle virtù era prerogativa essenziale per essere ammessi alla redistribuzione. La visione aristotelica associa il concetto di giustizia a quello di distribuzione e presuppone l’idea che la società di riferimento possieda delle risorse da utilizzare e da redistribuire. Tuttavia, nelle società contemporanee non basta garantire che la distribuzione avvenga secondo il criterio della proporzionalità, ma è necessario che la giustizia intervenga nel correggere quelle situazioni di squilibrio, in cui una parte ha ricevuto, indebitamente, più dell’altra. La giustizia sociale assume così una rilevanza morale, ergendosi a vera e propria virtù che guida l’agire umano all’interno della società. Essere giusti, e quindi rispettare gli altri nelle nostre interazioni con loro, diviene uno dei capisaldi di una vita moralmente impeccabile.

Proseguendo, il binomio giustizia-territorio implica una riflessione sulla nozione di “produzione dello spazio” di Henri Lefebvre, elaborata all’interno di La production de l’espace a metà del XX secolo. Il filosofo francese asseriva che ogni società produce un tipo di spazio – sia materiale che immateriale – che le è proprio, e che dipende in buona parte dai rapporti di forza vigenti in quella determinata società. Lo spazio non è quindi neutrale, dato e immutabile. Al contrario, lo spazio non solo è il prodotto delle lotte politiche, sociali e culturali di una data società, ma è anche il produttore di queste battaglie, il motore della trasformazione sociale. Pertanto, se ogni società produce spazio, ciò implica che tra spazio e territorio si instauri un rapporto di continua e reciproca influenza. In questo senso, è utile richiamare alcune osservazioni legate al pensiero marxista circa la conformazione spaziale di una determinata società quale prodotto sociale, a sua volta strumento di potere conteso fra vari gruppi sociali. Difatti, riuscire a influenzare la disposizione spaziale della società – favorendo ad esempio una determinata disposizione delle strade cittadine o la diffusione di una tipologia di mezzo di trasporto – non è solo un modo di imporre il proprio potere, ma anche per rafforzarlo e istituzionalizzarlo, imponendo determinati valori, costumi, usi e idee. Per esemplificare meglio il concetto di spazio come produttore e come produzione sociale, il saggio cita curiosamente la serie di cartoni animati I Flintstones – gli antenati, che, superficialmente, racconta le avventure di due famiglie di un’età della pietra immaginaria, ma in profondità va a illustrare e a naturalizzare quelli che erano i valori dominanti negli Stati Uniti a metà del secolo scorso, rappresentandoli come normali, neutrali e indiscutibili. Nello specifico, il cartone animato dipinge la vita di queste famiglie che vivono in case monofamiliari, con un nucleo parentale monogamico e con una certa suddivisione abituale degli spazi rispetto al genere; quindi, i mariti utilizzano l’automobile per andare al lavoro, le mogli, invece, restano relegate alla sfera domestica tra le quattro mura. La rappresentazione di uno spazio pubblico e uno privato, di una famiglia modellata su una coppia con ruoli di genere ben delineati e definiti, filtra quelli che sono gli elementi sociali, i valori, le norme politiche di una data società in una determinata epoca storica.

Dunque, che ogni civiltà produca uno spazio significa che le modalità spaziali con le quali la società si organizza non sono né naturali né neutrali, ma dipendono da scelte e criteri imposti socialmente. Questo significa che i principi in base ai quali ogni società occupa e trasforma lo spazio – essendone a sua volta trasformata – sono un prodotto sociale. Di conseguenza, essendo lo spazio un prodotto della società, la sua valenza politica può favorire, da un lato, l’esclusione sociale, la ghettizzazione, l’emarginazione o la gentrificazione, dall’altro, invece, l’integrazione e l’interazione tra attori che confliggono essendo portatori di interessi divergenti.

Dopo aver abbozzato l’idea di giustizia e di spazio, l’autore spiega l’etimologia del termine territorio, dal latino territorium. Ma che cos’è effettivamente questo oggetto e qual è la sua genesi? La prima ipotesi che Cometta avanza è quella attribuita a Isidoro di Siviglia – Etimologie o origini –, il quale fa risalire il termine “territorio” al primo atto fondativo di una città, ossia la delimitazione dello spazio sacro tramite un solco d’aratro nel cuore pulsante della futura città. Da questa pratica deriverebbe il termine “tauritorium”, poiché tritum sta per “calpestato” e “triturato”, dall’aratro e dai buoi. Il delimitare uno spazio implica il tracciare un confine tra ciò che sta dentro e ciò che sta fuori, stabilendo dunque un rapporto di proprietà, che è anche il frutto della rivoluzione agricola e dell’affermazione della tecnica utile per governare. Sono questi gli elementi che hanno gettato le basi dell’Europa moderna. La natura sacrale del concetto di territorio viene affiancata poi da quella urbana, in cui la polis diviene lo spazio sociale e culturale per eccellenza, in cui il divino incontra l’umano. La storia è ricca di avvenimenti che raccontano stravolgimenti sociali che coincidono con la distruzione di antichi templi o luoghi sacri, considerati sacri nella pianificazione urbana, oppure con l’erezione di ulteriori spazi sacri simbolo di potere, come la Basilica del Sacro Cuore di Montmartre a Parigi e il suo legame con la fine della Comune parigina. Un’ulteriore ipotesi promossa dall’autore è quella che fa derivare il termine territorio da territor (terra e -tor), che richiama la nozione di proprietà. Con questa accezione, il territorio diviene una ripartizione dello spazio in base ai diritti di proprietà, sia pubblici che privati. Il territorio è così governato da norme giuridiche, poiché si richiama ai rapporti di proprietà che, a loro volta, sono stati riconosciuti, assimilati e codificati dalle società. In questo senso, il concetto di proprietà si ricollega al tentativo dell’uomo di antropizzare gli spazi della natura tramite l’atto della colonizzazione per addomesticare, e quindi poi governare, uno spazio. Dunque, se il territorio è la divisione della Terra, allora la proprietà privata e l’autorità statale divengono i baluardi della società che produce e abita questo spazio. Infine, una terza ipotesi circa la genesi della parola “territorio” farebbe riferimento all’uso coercitivo della forza sullo spazio. Difatti, il termine “territor” sarebbe una declinazione del verbo territo, ossia terrificare, spaventare, atterrire. Secondo questa concezione, per delimitare un determinato spazio sarebbe necessario l’uso – o la minaccia – della forza bruta. Questa visione consentirebbe alla comunità di provvedere all’uso della forza per imporre o difendere un’area geografica stabilendo di fatto un vero e proprio governo del territorio. Oltre all’uso della forza bruta, sarebbe necessario quindi anche imporre un ordine a questo spazio antropizzato in modo tale da difenderlo da eventuali minacce provenienti da altre comunità limitrofe o “alterità”. Da questa visione emerge il vincolo indissolubile da un punto di vista etimologico tra territorio, politica, società, proprietà, uso legittimo della forza, legge e giustizia. Il ruolo della forza – o quantomeno la minaccia dell’uso della forza – procede in parallelo con la costituzione politica di una società e con la costituzione del suo territorio.

Alla luce delle seguenti considerazioni, lo sviluppo territoriale non è né univoco né necessario. Vi sono diversi modi di pensare, vivere e agire sul territorio che concorrono a formare determinati sistemi territoriali e sociali che sono spesso in lotta fra loro. Questi sistemi per legittimarsi ricorrono alla nozione di giustizia, ovvero a un certo equilibrio in cui ognuno riceve ciò che gli spetta, sulla base di prospettive diverse – secondo il dettame aristotelico. Simile è la nozione di giustizia spaziale, che abbiamo già abbozzato precedentemente, quale “tentativo di organizzare il territorio di una società in modo che ognuno riceva ciò che gli è dovuto”, sulla base di diversi paradigmi e sistemi in contrasto fra loro. La molteplicità di interpretazioni della giustizia spaziale implica una riflessione sulla ricerca dell’equilibrio tra paradigmi contrastanti. In questa sede, Cometta si appella alla nozione di direzione politica di Antonio Gramsci, secondo cui il potere politico non deriva esclusivamente dall’uso coercitivo della forza, ma anche dal grado di convincimento che un attore può impiegare nel cambiare, almeno in parte, alcuni aspetti dei paradigmi avversari, creando quindi una nuova “normalità”. Questa dinamica sottostà alle trasformazioni sociali e culturali più importanti. Infatti, le idee, la sensibilità, i bisogni e i desideri della popolazione cambiano nel tempo; ciò che era considerato normale ed evidente cinquant’anni fa oggi non lo è più. Come dichiarato finora, l’organizzazione spaziale e territoriale di una società è uno dei terreni in cui è possibile osservare lo scontro fra diverse concezioni e paradigmi e l’analisi sociale è quello che ci aiuta maggiormente a comprendere le dinamiche, le relazioni, i valori e i rapporti tra spazio, tempo e società, senza avere la pretesa di essere portatore di verità assoluta. In questo senso, la critica sociale suggerisce riflessioni sulla scelta territoriale e sulle sue conseguenze sulla società e sulle future generazioni.

Nella ricerca di giustizia spaziale discussa nel saggio di Cometta si espongono dettagliatamente due esempi concreti per comprendere meglio questo concetto e le sue declinazioni. Il primo esempio riguarda i dibattiti pubblici sulla creazione di due parchi nazionali in Svizzera; il secondo, invece, prende in esame il mondo rurale e il ruolo del populismo nel dibattito sulle ingiustizie spaziali.

Riassumendo sinteticamente ma con ordine le questioni in esame, Cometta volge lo sguardo verso il tentativo (fallito) da parte dell’associazione ambientalista Pro Natura di rivitalizzare una regione del Canton Ticino mediante la creazione di un parco nazionale, con l’obiettivo di favorire lo sviluppo di economie locali sostenibili e aumentare il turismo in natura e in generale il marketing territoriale. A differenza dei precedenti parchi nazionali “calati dall’alto”, quindi imposti dallo Stato centrale, questo sarebbe stato il risultato di una pianificazione bottom-up, coinvolgendo la comunità locale in tutte le fasi di progettazione, garantendo la democraticità del processo e la flessibilità dell’opera. In più, il regolamento del parco sarebbe stato sottoposto a votazione di conferma, a cadenza regolare, da parte della popolazione locale, difendendo e assicurando il diritto della comunità di modificare il progetto, o eventualmente di porre termine all’esperienza. A contrastare la realizzazione del progetto in questione sono state le pulsioni identitarie, il richiamo alle tradizioni locali e l’evocazione di un passato ritenuto migliore, tutti valori incarnati e sbandierati dagli abitanti dei comuni interessati e da alcuni esponenti politici locali o cantonali. Il dibattito pubblico ha quindi visto due concezioni contrastanti tra loro: i favorevoli hanno adottato un approccio realista, esponendo la criticità della situazione e i suoi limiti, con l’obiettivo di costruire qualcosa; di contro, gli oppositori hanno adottato un approccio idealista, richiamando alla mente un passato immaginario e bucolico, non offrendo alcuna alternativa possibile, ancorando dunque la lotta all’ingiustizia spaziale a un passato che oramai è concluso, senza proporre una risposta concreta al problema in questione. Come afferma Cometta in chiusura del capitolo in discussione, «può sembrare controintuitivo, eppure a volte la denuncia pubblica di un’ingiustizia spaziale è uno degli strumenti per rafforzare tale ingiustizia».

Casi simili a quello poc’anzi raccontato sono molteplici e aiutano a comprendere meglio le dinamiche che stiamo affrontando. Più in generale, l’autore ritiene opportuno parlare del populismo di destra, particolarmente diffuso nel mondo rurale e nelle regioni che vivono una sorta di perifericità e che spesso subiscono i cambiamenti sociali indotti dai grandi centri urbani più che esserne i promotori stessi. Dalla condizione di marginalità emerge la costruzione dicotomica del “noi contro loro”, che è fondamentalmente distruttiva e offre una narrazione “passiva” della lotta all’ingiustizia spaziale. Difatti, trincerarsi dietro posizioni difensive, conservatrici e oppositive ai cambiamenti socioculturali, senza apportare alcuna alternativa ma ancorandosi unicamente al passato, non è altro che una scelta sterile, una canalizzazione della rabbia delle zone periferiche che vivono l’ingiustizia spaziale, senza però costruire un blocco politico e sociale che possa elaborare una soluzione alternativa realizzabile, offrendo così un risvolto concreto a tali rivendicazioni.

 

Giustizia spaziale: due paradigmi

Dopo aver esemplificato la tematica, il saggio di Cometta chiarisce i due paradigmi di riferimento che spiegano la giustizia spaziale quale richiesta di eguaglianza in termini di diritto di poter partecipare in modo integrale alla produzione e alla fruizione dello spazio. Il primo modello è la prospettiva universalista che insiste sul ruolo dello Stato, il quale deve garantire a tutti i cittadini la giustizia spaziale intesa come accesso a determinati servizi basilari e universali tali per cui il livello della qualità della vita sia reputato accettabile. In questa prospettiva, il Comune diviene l’entità territoriale più prossima al cittadino attraverso cui l’azione dello Stato si manifesta. In questo senso, è necessario che tra i vari comuni su tutto il territorio nazionale vi sia una certa eguaglianza, intesa come presupposto necessario per ogni società democratica ma anche come risultato effettivo dell’attività statale. Il secondo modello, invece, pone al centro i cittadini, quali depositari delle richieste di giustizia spaziale. Questo modello, che ricalca maggiormente i principi dell’utilitarismo e delle economie di scala, fa sì che l’intervento statale si focalizzi laddove si concentra la popolazione, che non è distribuita in maniera uniforme sul territorio nazionale. Secondo questa prospettiva, favorendo il maggior numero di persone e fissando un livello di spesa pubblica per abitante e non per comune, si sceglie di focalizzare l’attenzione sulle disuguaglianze sociali e non su quelle territoriali. Il paradigma utilitarista mira a garantire una buona qualità di vita al maggior numero di persone possibili. Lo Stato assume più un ruolo di sostegno che di comando, come invece avveniva nel modello universalista, in cui, in qualità di arbitro del territorio nazionale, lo Stato doveva garantire la presenza di servizi essenziali ovunque, combattendo quindi lo spopolamento dei territori periferici e la disomogeneità della popolazione fra i territori. Entrambe le visioni risultano inclusive, a loro modo: la prima inclusiva rispetto agli abitanti delle zone periferiche, la seconda inclusiva nei confronti dei poveri urbani, concentrati nelle zone più densamente popolate.

La scelta dell’uno o dell’altro paradigma è una questione prettamente politica. Ogni scelta politica, pur rifacendosi al concetto di giustizia spaziale, avrà delle conseguenze e dei limiti. Ogni società è chiamata a decidere o a modificare quale tipo di assetto socio-territoriale ritiene più consono. Non esiste dunque una soluzione ideale, esclusiva e univoca che risolva il problema della marginalizzazione e quello delle ingiustizie spaziali.

 

Giustizia spaziale e giustizia climatica

La perdita di biodiversità, la desertificazione, la siccità, le ondate di calore, gli incendi estivi violenti e devastanti, le migrazioni forzate, i conflitti sono tutti elementi che si inseriscono all’interno della sfida climatica che la nostra società è oggi chiamata ad affrontare seriamente. La lotta al cambiamento climatico è fortemente connessa alle questioni riguardanti la giustizia spaziale. La produzione di energia rinnovabile, la difesa della biodiversità, la creazione di nuove infrastrutture o la protezione di determinate aree minacciate da catastrofi naturali sono solo alcune delle modalità con cui una società dispone del proprio territorio e delle proprie risorse. Modificare la governance di un territorio, cambiando le regole su ciò che è permesso e ciò che è vietato, implica trasformare lo spazio delle persone che vi abitano. Tra le tante azioni, la produzione di energie rinnovabili, tramite l’installazione di impianti fotovoltaici o pale eoliche, presenta delle sfide rilevanti, così come quelle poste dalla mobilità pubblica o privata. L’automobile risulta una delle forme più inefficienti di trasporto, eppure è il simbolo della società moderna, tanto da assumere un ruolo centrale all’interno delle nostre vite quotidiane. Abbandonare la centralità dell’automobilità per far spazio a mezzi di trasporto pubblico più sostenibili implicherebbe una rivoluzione dei nostri stili di vita, dei nostri usi e costumi. Come la sfida per la transizione ecologica ci ricorda, il passaggio alla mobilità dolce e sostenibile, che metta al centro la popolazione, è un mutamento necessario per il bene delle generazioni future e per le popolazioni delle aree più povere del pianeta, che subiscono maggiormente e gravemente le conseguenze del cambiamento climatico. Tuttavia, le soluzioni che mirano a una maggiore giustizia climatica devono comunque prestare attenzione a non creare altri tipi di ingiustizie e disuguaglianze spaziali, sociali o economiche, marginalizzando ancor di più ampie fasce di popolazione. L’autore del saggio ragiona infatti su quanto, da un lato, sia importante diminuire la dipendenza dall’automobile, dall’altro, però, come i territori maggiormente periferici, scarsamente connessi e isolati, potrebbero veder acuire la loro condizione di marginalità. È necessario, dunque, elaborare politiche ambientali che siano sensibili alle fasce di popolazione più sfavorite, migliorando – e non peggiorando ulteriormente – la qualità della vita in queste zone proprio grazie alla transizione ecologica. Ad esempio, Cometta propone di ripensare la modalità di tassazione dei carburanti modulandola in base ai territori – tasse più alte nelle zone urbane che già possiedono un’alternativa più che valida con i trasporti pubblici e più basse invece nei territori periferici che ne sono sprovvisti. Non esiste una soluzione politica univoca, universale e assoluta. Ogni soluzione presenta dei vantaggi e degli svantaggi e ogni risposta a un problema attuale genererà a sua volta una sfida per il futuro.

Alla luce di tali considerazioni, una discussione sui temi legati alla giustizia climatica implica sensibilmente anche riferimenti alle grandi questioni della giustizia spaziale e dell’ordinamento territoriale della nostra società. La democraticità della società odierna sta nella capacità di sollevare le questioni e di portarle all’interno del dibattito pubblico, in cui visioni e interessi contrastanti possano dialogare in maniera costruttiva, superando le contrapposizioni per raggiungere una soluzione comune.

Cometta conclude le pagine del saggio lasciando al lettore la possibilità di riflettere sulla rotta verso cui la nostra democrazia, la nostra società e il nostro pianeta si stanno muovendo. E chiude affermando che, se la giustizia è equilibrio, come Aristotele ci insegna, «una società giusta è una società capace di equilibrismo, ossia un’attività acrobatica in cui per avanzare occorre mutare il proprio assetto a seconda delle condizioni in cui ci si trova – e non una società che difende rigidamente una posizione e che al mutare delle condizioni e delle sensibilità si troverà irrimediabilmente disequilibrata».

Scritto da
Sofia Rossi

Studia Scienze politiche all’Università di Bologna. Ha scritto e collaborato di recente con il Centro Studi “Geopolitica.info” per il quale ha pubblicato diversi articoli. Ha partecipato al corso 2023 di “Traiettorie. Scuola di lettura del presente”.

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