Scritto da Francesco Salesio Schiavi
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Il riaccendersi degli scontri nel Mar Rosso e nello stretto di Bab el-Mandeb degli ultimi mesi, all’interno della più ampia cornice della crisi regionale mediorientale emersa dal conflitto tra Israele e Hamas a Gaza, ha contribuito a riportare l’attenzione su una guerra civile a lungo considerata “periferica”, quella in Yemen, e su un attore in particolare, a torto spesso ritenuto locale, che ricopre un ruolo chiave in entrambi i contesti: gli houthi.
Per approfondire la situazione in Yemen, il suo impatto sulle dinamiche regionali e internazionali e i possibili sviluppi degli interventi militari dei Paesi occidentali nelle acque del Mar Rosso abbiamo intervistato Eleonora Ardemagni: Senior Associate Research Fellow dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale – ISPI e docente presso l’Università Cattolica di Milano e l’Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali – ASERI.
Partendo dall’inizio, chi sono gli houthi (o meglio il movimento Anṣār Allāh)?
Eleonora Ardemagni: Gli houthi sono un movimento politico e armato del nord dello Yemen. Sono arabi, sciiti come gli iraniani ma zaiditi e dunque con differenze dottrinali. La leadership degli houthi è familiare: houthi è infatti il cognome di Husayn Al-Houthi, il fondatore del gruppo nel 2002 e fratellastro dell’attuale leader Abdel-Malek. La famiglia Al-Houthi non è di lignaggio tribale e rivendica discendenza diretta dal profeta Maometto: essi lottano per l’autonomia religiosa e politica del nord dello Yemen, su cui l’imam degli sciiti governava fino al 1962. Dopo aver combattuto il governo yemenita, nel 2015 hanno fatto un colpo di stato e la confinante Arabia Saudita è intervenuta militarmente per sconfiggerli. Ma non c’è riuscita: nove anni dopo la guerra si trascina, con gli houthi che hanno consolidato il loro “quasi-Stato” nel nord ovest, costa del Mar Rosso compresa. Anṣār Allāh, ovvero “partigiani di Dio” è il nome che gli houthi si danno nel 2011, nel mezzo della rivolta anti-governativa in Yemen, per provare a intercettare consensi al di là del tradizionale bacino dell’estremo nord.
Quali sono le principali ragioni dietro agli attacchi degli houthi che, a partire da ottobre 2023, hanno di fatto aperto un nuovo fronte della crisi nel Mar Rosso? Quali le motivazioni interne e quali, invece, quelle legate alle questioni regionali e internazionali?
Eleonora Ardemagni: Gli houthi hanno scaltramente colto la finestra di opportunità della guerra di Gaza per fare i propri interessi, nel nome della solidarietà con i palestinesi. L’apertura del fronte del Mar Rosso consente infatti agli houthi di: rafforzare sostegno interno e reclutamento; spostare l’attenzione dai fallimenti economico-sociali del loro “governo” autoritario; ergersi a capofila della popolare causa palestinese, anti-israeliana e ora anche anti-americana; negoziare con l’Arabia Saudita da una posizione di ulteriore forza; elevare il loro status nella costellazione regionale filo-Teheran. Dopo essersi presentati come coloro che “resistevano” all’Arabia Saudita, ora gli houthi intendono fare lo stesso contro gli Stati Uniti.
Quali sono le relazioni tra gli houthi e quello che è considerato il loro principale supporter regionale, l’Iran? Come si colloca oggi il movimento all’interno del cosiddetto “Asse della Resistenza”, il nome usato dai gruppi che si oppongono a Israele e sono sostenuti da Teheran (tra cui Hamas e il movimento libanese Hezbollah)? Cosa ci dicono, infine, i recenti sviluppi del livello di interdipendenza tra gli houthi, la Repubblica Islamica e gli altri gruppi della “resistenza”?
Eleonora Ardemagni: L’intervento militare dell’Arabia Saudita in Yemen nel 2015 ha spinto gli houthi ad avvicinarsi di più all’Iran, che ha iniziato a fornire sistematicamente armi, addestramento e intelligence al gruppo armato yemenita. Il ruolo di Hezbollah è stato assai significativo poiché ha consentito ai miliziani houthi di imparare ad assemblare internamente i droni tramite le componenti fatte illegalmente entrare nel Paese dall’Iran. Adesso, i raid americani contro le postazioni militari houthi avranno l’effetto di spingere Ansar Allah ancor di più nell’orbita filo-iraniana e anti-occidentale. Gli houthi sono entrati a far parte dell’ “asse della resistenza” guidato da Teheran per convergenze ideologiche, nemici comuni e soprattutto opportunità politiche, ma non sono stati creati dall’Iran: non sono proxies della Repubblica Islamica, ma alleati. E ci sono differenze “pratiche”: per esempio, Abdel-Malek Al-Houthi non ha incarichi ufficiali nel “quasi-Stato” houthi, a differenza dell’ayatollah Khamenei in Iran, a capo di un inamovibile potere religioso parallelo a quello del presidente eletto. Aver avuto una storia locale prima dell’incontro con i pasdaran di Teheran differenzia gli houthi dagli altri movimenti armati filo-iraniani del Medio Oriente, permettendo loro di essere più autonomi nelle scelte politiche.
Oltre ad Anṣār Allāh, quali sono gli attori regionali e internazionali che più beneficiano della recente crisi nel Mar Rosso? Quali le loro motivazioni?
Eleonora Ardemagni: A mio avviso, l’Iran è l’unico Paese a non avere interesse – al momento – alla sicurezza marittima del Mar Rosso. Il fronte aperto dagli houthi rientra nell’orizzonte strategico di Teheran, che può così alimentare il senso di accerchiamento di Israele (paralizzando peraltro il porto di Eilat), logorare la capacità di deterrenza statunitense nell’area e tenere soprattutto il focus dello scontro lontano dal Golfo e dal territorio iraniano.
Qual è lo stato attuale della guerra civile in Yemen? In che modo la guerra in corso a Gaza, la crisi nel Mar Rosso e la risultante risposta anglo-americana impattano il contesto di fragilità odierno dello Yemen? Siamo di fronte ad una “regionalizzazione del conflitto yemenita”?
Eleonora Ardemagni: La regionalizzazione del conflitto yemenita è avvenuta dal 2015, con l’intervento militare saudita ed emiratino dopo il colpo di stato houthi e il sostegno militare dell’Iran agli allora ribelli. Oggi direi che per certi versi assistiamo all’internazionalizzazione del conflitto yemenita, per due motivi: l’instabilità del Mar Rosso è una questione globale e con i loro attacchi alla navigazione gli houthi hanno intrecciato la guerra di Gaza con il conflitto in Yemen, portando gli Stati Uniti a impegnarsi in prima persona nel quadrante. Ciò che sta accadendo inserisce una variabile di instabilità in più nei negoziati, a cominciare dai colloqui bilaterali Arabia Saudita – houthi. Nel dicembre 2023, l’ONU ha annunciato che le parti belligeranti yemenite si sono impegnare a definire una road map che porti al cessate il fuoco. Un passo diplomatico che va oltre la tregua ma non è ancora sufficiente per il cessate il fuoco: anche perché le parti dovranno ora accordarsi sul meccanismo e la sequenza di applicazione delle misure. Inoltre, il variegato fronte che si oppone agli houthi rimane frammentato, con la componente dei secessionisti del Consiglio di Transizione del Sud sempre più forte, complicando così la definizione di una piattaforma comune dalla quale negoziare con gli houthi.
A partire da gennaio, gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno intrapreso un’azione militare escalatoria contro gli houthi nello Yemen, in risposta agli attacchi dei ribelli sciiti alle navi nel mar Rosso. Nella loro azione di contrasto all’attività degli houthi, come possono gli Stati Uniti risolvere il dilemma strategico di ripristinare la libertà di navigazione nel Mar Rosso senza però scatenare un’ulteriore escalation a livello locale e regionale? Cosa fare, invece, riguardo alla minaccia securitaria offerta dagli houthi nel Mar Rosso in una prospettiva di lungo periodo, considerando anche l’imminente fine del mandato dell’attuale amministrazione Biden? Dove si inserisce invece la risposta europea alla minaccia degli houthi nel Mar Rosso? Quali sono le differenze tra Prosperity Guardian e la missione navale europea? Siamo di fronte a una prospettiva simile a quanto già accaduto nello stretto di Hormuz, con due missioni a guida diversa (una statunitense e l’altra europea) con finalità simili ma indipendenti? Quali le ragioni principali?
Eleonora Ardemagni: Intanto, anche Prosperity Guardian è una missione difensiva e non va confusa con i raid mirati di Washington e Londra contro i siti militari houthi, che non avvengono nel quadro della missione navale lanciata nel dicembre 2023. Penso che di fronte agli attacchi contro la libertà di navigazione gli Stati Uniti non avessero altra scelta che provare a ripristinare la deterrenza – e la sicurezza – tramite i raid. Ma non servirà e Biden ne è consapevole. Il rischio è che gli americani scivolino giorno dopo giorno in un conflitto a bassa intensità con gli houthi, ma non possano più fare un passo indietro dal quadrante non avendo raggiunto l’obiettivo di riportare la stabilità nel Mar Rosso. Neppure una tregua o persino il cessate il fuoco a Gaza garantirebbe lo stop agli attacchi houthi: il movimento armato ha ben compreso che quest’offensiva asimmetrica, a metà fra il terrorismo marittimo e la pirateria, paga e dunque potrebbe tornare a colpire in futuro, quando lo ritenesse utile per avanzare i propri obiettivi od ottenere nuove concessioni dall’Arabia Saudita. Rispetto alle iniziative navali, non soltanto Prosperity Guardian (Stati Uniti e Gran Bretagna) e Aspidis (Paesi dell’Unione Europea) sono missioni diverse e parallele, ma il punto principale è che Stati Uniti, Gran Bretagna da una parte e Unione Europea dall’altra sono divisi sugli obiettivi da raggiungere. Americani e inglesi hanno sottolineato di voler indebolire le capacità offensive degli houthi, mentre gli europei sono principalmente interessati a mitigare il rischio marittimo, quindi commerciale, degli attacchi houthi. La domanda che gli alleati dovrebbero porsi, e di cui dovrebbero discutere anche con i partner arabi a cominciare dalle monarchie del Golfo, è dunque: che fare con gli houthi?