Scritto da Gianluca Panciroli
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Sin dai tempi più remoti, è consuetudine degli esseri umani rievocare il passato in svariate forme – orale, scritta, grafica – al fine di lasciare ai posteri una testimonianza, una traccia del proprio vissuto. Cimentarsi nel racconto di ciò che è stato non è faccenda immune da rischi. Un primo possibile ostacolo è la propensione a enfatizzare oltre misura le proprie gesta, amplificandole o distorcendole per guadagnarsi la stima dei riceventi, siano essi ascoltatori, lettori od osservatori. Si tratta di un’attitudine alquanto diffusa, riscontrabile specialmente nelle autobiografie di eminenti uomini di potere, come statisti e condottieri. Un altro potenziale rischio è quello di incensare il tempo che fu, tipicamente quello della propria giovinezza, ponendolo in contrasto con un presente avvertito come arido, immorale, magari persino catastrofico. In alcuni casi, questa dicotomia tra passato glorioso e presente misero è a tal punto grossolana e parossistica da risultare involontariamente comica, e la spinta a guardare con nostalgia al passato, tramite una lente deformante che lo faccia apparire più nobile e degno di quanto fosse nella realtà non è certo un comportamento che caratterizza soltanto il mondo odierno. Ne consegue che, se si vuole provare a comprendere un certo periodo, uno specifico snodo storico o un qualsivoglia evento dotato di particolare rilevanza, occorre maneggiare con cautela le cosiddette fonti memorialistiche.
A Stefan Zweig, scrittore austriaco di notevole successo vissuto tra il 1881 e il 1942, dobbiamo quello che è in tutta probabilità il più significativo memoir sull’epoca, anzi sulle epoche attraversate dall’Europa tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo non è semplicemente un’autobiografia, ma un vero e proprio testamento intellettuale, poiché il letterato, esule in Brasile, si sarebbe tolto la vita insieme alla moglie subito dopo averlo terminato[1]. Gli estremi biografici di Zweig e il suo cognome inconfondibilmente ebraico dovrebbero suggerire a chiunque abbia anche solo un minimo di dimestichezza con la Storia che, perlomeno in questo caso, l’abisso che separa il periodo giovanile da quello della maturità e della senescenza non sia una mera rielaborazione nostalgica, ma qualcosa di reale, di drammaticamente concreto. Zweig nacque e crebbe a Vienna, ai tempi in cui la città era capitale dell’Impero austro-ungarico, e il «mondo di ieri» che dà il titolo al libro è proprio quello della tarda monarchia asburgica. Parallelamente alle tappe che hanno scandito la sua esistenza sul piano intellettuale e su quello personale, lo scrittore illustra con prosa elegante i caratteri di quel mondo, la disgregazione dello stesso e l’avvento di una nuova, tragica era – simbolicamente inaugurata dall’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando – connotata da tassi di odio, violenza e fanatismo senza pari nella pur travagliata vicenda del Vecchio Continente.
Così Zweig rievoca i tempi della propria gioventù: «Tutto nella nostra quasi millenaria monarchia austriaca sembrava duraturo e lo Stato appariva il sommo garante di questa ininterrotta solidità. I diritti che esso concedeva ai cittadini erano assicurati dal parlamento […] e ciascun dovere era fissato con precisione»[2]. In questa «età d’oro della sicurezza», come la definisce Zweig, non c’era spazio per sanguinosi e laceranti conflitti tra classi, etnie o religioni: «Pur stuzzicandosi di tanto in tanto, poveri e ricchi, cechi e tedeschi, cristiani ed ebrei vivevano in pace», lontano da «quella crudele animosità che, velenoso retaggio della Prima guerra mondiale, si sarebbe insinuata nel sistema circolatorio della nostra epoca». Nessuno, in definitiva, «pensava a guerre, sconvolgimenti e rivoluzioni. Ogni evento tragico, qualsiasi tipo di violenza, appariva ormai inimmaginabile»[3]. Il quadro offerto dallo scrittore, è importante sottolinearlo, non scivola nell’agiografico: pagine sferzanti sono dedicate agli aspetti più negativi del tempo passato, a partire dal sistema scolastico – ostile a ogni forma di pensiero critico e veicolo di un apprendimento puramente nozionistico – sino ad arrivare all’aura di bigottismo e ipocrisia che circondava tutto ciò che era relativo, anche solo in modo blando, alla sfera sessuale[4].
Agli occhi di Zweig, però, è indubbio che gli elementi virtuosi del mondo perduto fossero di gran lunga predominanti, tanto che leggendo il testo si potrebbe ricavare l’idea che l’Impero austro-ungarico fosse qualcosa di molto vicino a un’incarnazione dei principi illuministici di cosmopolitismo e tolleranza. La domanda sorge spontanea: le cose stavano davvero così? Occorre prudenza nel considerare Il mondo di ieri come un resoconto esaustivo della Mitteleuropa fin-de-siècle. Come ha messo in luce lo storico Tony Judt, la prospettiva di Zweig e di altri intellettuali ebrei della sua generazione era circoscritta alle oasi urbane dell’Impero. Ma al di là della capitale, descritta da Zweig come una «metropoli cosmopolita e millenaria» nella quale «era facile sentirsi ed essere europeo», e di poche altre grandi città come Budapest, Praga e Cracovia, il territorio imperiale era composto prevalentemente da aree rurali. In queste ultime «gli ebrei di Vienna, e più in generale la vita culturale viennese, erano un mistero, o un bersaglio su cui riversare odio, o entrambe le cose»[5].
Il punto di vista di Zweig è peculiare, poiché è quello di un intellettuale ebreo di estrazione sociale elevata e di orientamento umanista e pacifista (si potrebbe aggiungere proto-europeista), di un membro dell’élite urbana diremmo oggi. Il mondo di ieri non può essere ritenuto un’illustrazione completa, a trecentosessanta gradi, della vita collettiva sotto la monarchia austro-ungarica, ma sminuirne per questo il valore sarebbe errato. Adeguatamente contestualizzato, il testo costituisce una preziosa testimonianza di come una fetta della società europea guardava al proprio presente e ancor di più al proprio futuro nel periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento. Per quell’alta borghesia di cui lo scrittore era parte integrante, il quarantennio antecedente alla Prima guerra mondiale fu realmente un tempo di prosperità e di splendore. Grazie agli enormi progressi tecnologici, i rampolli della buona società viennese, ma anche di quella londinese, parigina o berlinese, potevano viaggiare in lungo e in largo per il continente (e per i continenti!) con una velocità ed una comodità che sarebbero state inconcepibili soltanto pochi decenni prima; essi potevano poi discutere animatamente di arte, musica, letteratura o filosofia con i loro beniamini, partecipare ai più svariati eventi mondani, dilettarsi con le ultime mode sportive o recarsi nei nuovi luoghi di villeggiatura marittimi e montani.
Tutto questo, naturalmente, richiedeva solide certezze sul piano finanziario. Proprio in quei decenni, l’integrazione economica globale, guidata da un’Europa mai così egemone a livello planetario, stava contribuendo ad accrescere enormemente le opportunità di investimento e di guadagno per gli individui appartenenti alle classi agiate del Vecchio Continente; i fruttuosi proventi ricavati permettevano a quegli stessi individui di acquistare a buon prezzo, e nella quantità desiderata, beni provenienti da tutto il mondo. Nel 1919, ben prima di raggiungere una vasta notorietà con la sua Teoria generale, l’economista britannico John Maynard Keynes aveva descritto il mirabolante processo di internazionalizzazione della vita sociale ed economica dei decenni prebellici, ponendo l’attenzione soprattutto sui vantaggi che la classe borghese ne aveva tratto: prima della guerra, afferma Keynes, «l’abitante di Londra poteva ordinare per telefono, sorseggiando in letto il tè mattutino, i vari prodotti di tutto il globo terracqueo […] e contare ragionevolmente sul loro sollecito recapito a casa sua»; nello stesso momento e con lo stesso mezzo «poteva avventurare la sua ricchezza sulle risorse naturali e nelle nuove imprese in qualsiasi parte del mondo, e partecipare senza sforzo né incomodo ai loro sperati frutti e vantaggi»[6].
Quello che sia Keynes sia Zweig mettono in risalto è la sottovalutazione, da parte di tanti borghesi istruiti della loro generazione, dei sempre più forti segnali di tensione tra le potenze europee del primo Novecento. Per il londinese agiato dell’epoca edoardiana, evidenzia l’economista, i crescenti umori nazionalisti e militaristi, «destinati a fare la parte del serpente» nel suo paradiso, erano poco più che un «passatempo» cui dedicare giusto qualche minuto durante la lettura mattutina del quotidiano. Dal canto suo, Zweig non manca di rimarcare l’ingenuità, unita a una buona dose di presunzione, che caratterizzava la borghesia mitteleuropea di quegli anni. Ancora nel luglio del 1914, ricorda lo scrittore, era ampiamente condivisa nel suo ambiente l’idea che la guerra sarebbe stata evitata o che, nella peggiore delle ipotesi, avrebbe avuto una durata assai breve: «Il nostro comune idealismo, il nostro ottimismo fondato sulla fiducia nel progresso, ci indusse a ignorare e a sottovalutare il pericolo»; e poco più avanti aggiunge: «Che cosa aveva a che fare con la mia vita la morte dell’arciduca? Mai si era vista un’estate più bella; noi tutti guardavamo il mondo senza la minima preoccupazione». In una delle poche concessioni all’ironia presenti nel testo, Zweig rammenta di aver autorizzato alcuni suoi amici a impiccarlo qualora la Germania guglielmina avesse realmente attaccato la Francia passando per il Belgio: «Ancora oggi sono grato a quei miei amici di non avermi preso in parola!»[7].
La seconda metà del libro racconta una vicenda molto diversa. Lo storico Eric Hobsbawm ha definito il periodo compreso tra il 1914 e il 1945 «Età della catastrofe»[8]. Si può dire che Zweig si sia trovato suo malgrado nella condizione di sperimentare appieno il carattere catastrofico di quella fase storica: ebreo di lingua tedesca, dal 1918 cittadino di un piccolo Stato alla ricerca di una propria identità, lo scrittore visse infatti sulla propria pelle gli orrori del razzismo e dell’intolleranza verso il dissenso.
Già nelle pagine dedicate al primo conflitto mondiale, appare evidente il senso di estraneità e di isolamento dell’autore nei confronti di un’Europa in preda a un’ingiustificata foga bellicista, un’Europa così lontana da quel “lume della ragione” che pure aveva rivendicato come caposaldo della propria cultura sino a pochi anni prima. Non ha torto Zweig nel ritenere la Prima guerra mondiale come l’origine dell’imbarbarimento della vita politica dei decenni successivi. Quando il dualismo amico/nemico si trasferisce dalle trincee alle piazze e alle aule parlamentari, colui che è portavoce di idee diverse non è più un soggetto con cui discutere, magari anche in modo acceso, ma un corpo estraneo potenzialmente letale. La competizione politica diventa quindi un gioco a somma zero, in cui il trionfo di una fazione presuppone la sottomissione, o la cancellazione, delle altre. Naturalmente, il percorso che porta questa concezione schmittiana della politica a prevalere nel continente europeo non è lineare[9].
L’autore ricorda come alla metà degli anni Venti, dopo i complicatissimi anni dell’immediato dopoguerra, si intravedessero spiragli di luce per il futuro, segnali incoraggianti che indussero molti osservatori a ritenere che l’Europa si fosse rimessa sui binari del progresso, non soltanto materiale ma anche e soprattutto civile e morale. Lo stesso Zweig ammette di aver guardato all’avvenire con un certo ottimismo in quel frangente. Proprio negli anni Venti, del resto, egli conobbe una significativa affermazione come scrittore e drammaturgo: «Per quanto concerne la mia vita privata – ricorda – l’evento più notevole di quegli anni fu che un nuovo ospite bussò alla mia porta […]: il successo»[10]. Con amara ironia, Zweig rileva che il maggior successo commerciale lo riscosse in Germania, lo stesso Paese che solo pochi anni dopo avrebbe finito per bruciare i suoi libri sulla pubblica piazza.
Nel 1934, a fronte di un’Austria schiacciata geograficamente e ideologicamente tra il Terzo Reich e l’Italia fascista, Zweig si trasferì in Gran Bretagna, dove soggiornò per i sei anni successivi, vivendo tra Londra e Bath. «L’unica cosa che contava per me era dedicarmi nuovamente al mio lavoro e proteggere la mia libertà, quella interiore come quella esteriore», scrive l’autore, che a più riprese confessa la costante sensazione di sgomento e di angoscia provata per il destino dell’Europa durante gli anni passati in esilio[11]. Il ricordo più doloroso serbato da Zweig è quello del momento in cui apprese la notizia dell’Anschluss, l’annessione dell’Austria da parte della Germania nazista nel settembre del 1938. Al di là della personale sofferenza provata nel vedere la propria terra natale fagocitata dal regime hitleriano, l’annessione parve a Zweig come la definitiva prova delle smodate ambizioni naziste: «A differenza di milioni di londinesi, sapevo perfettamente che alla caduta dell’Austria sarebbe seguita quella della Cecoslovacchia, e che i Balcani sarebbero divenuti allora preda di Hitler»[12].
Con lo scoppio del secondo conflitto mondiale, nel settembre 1939, a Zweig toccò di subire un’ulteriore umiliazione: essendo ormai l’Austria parte integrante del Terzo Reich, lo scrittore fu classificato dalla burocrazia britannica come enemy alien, e perciò costretto a subire le limitazioni e i controlli previsti per i cittadini di uno Stato nemico. «Possibile immaginare una situazione più assurda?» – commenta Zweig – «Un uomo da tempo espulso da una Germania che lo aveva proclamato antitedesco […] e che ora, in base a un decreto burocratico, era forzosamente assegnato a una comunità alla quale, come austriaco, non era in realtà mai appartenuto!»[13]. Di lì a pochi mesi, Zweig e Lotte Altmann, già segretaria dello scrittore e sua sposa in seconde nozze, lasciarono per sempre l’Europa, trovando ospitalità dapprima a New York, poi in Brasile. Fu proprio a Petrópolis, città non lontana da Rio de Janeiro, che nel febbraio del 1942 Zweig e la moglie si tolsero la vita tramite l’assunzione di dosi letali di barbiturici.
La tragica fine dei coniugi Zweig può ricordare quella di un altro grande intellettuale ebreo di lingua tedesca loro contemporaneo: Walter Benjamin. Vi è tuttavia una differenza importante: il filosofo e critico berlinese attuò l’estremo gesto nel settembre 1940, presso la frontiera franco-spagnola, credendo naufragato il proprio tentativo di fuga verso gli Stati Uniti d’America (per una tragica ironia, il visto per gli USA di Benjamin sarebbe regolarmente arrivato il giorno successivo alla sua morte); Zweig e la moglie, invece, scelsero di togliersi la vita quando si trovavano già oltreoceano, ragionevolmente al riparo dagli artigli dei nazisti. Per comprendere le motivazioni della loro azione, si può fare affidamento alla fitta corrispondenza intrattenuta dai due nelle settimane e nei giorni precedenti alla morte. Dalle lettere scritte dai coniugi ad amici e parenti emergono l’orrore nei confronti del mondo presente, l’angoscia per il futuro, l’insensatezza di una vita priva del valore supremo della libertà, la stanchezza associata al dover ricominciare da capo, una volta ancora, la propria esistenza[14]. A ben vedere, tutte le pagine conclusive dell’autobiografia suonano come un lungo addio. Si considerino, ad esempio, i seguenti passaggi: «La mia più intima missione, quella cui per quarant’anni avevo dedicato tutte le mie energie, tutte le mie convinzioni, un’Europa unita e in pace, era fallita. Ciò che io avevo temuto più della mia stessa morte, la guerra di tutti contro tutti, si stava scatenando per la seconda volta»; e ancora: «Colui che per tutta la sua esistenza aveva operato con passione ed entusiasmo per una fratellanza degli uomini e degli spiriti […] si sentì inutile e solo come mai in tutta la sua vita»[15]. Sono considerazioni emblematiche, perché oltre al profondo senso di disperazione, in esse è possibile scorgere tutta la passione politica dell’autore, a torto considerato per lungo tempo uno scrittore e intellettuale “impolitico”.
Perché rileggere, oggi, l’autobiografia di Zweig? La risposta più semplice è in tutta probabilità quella più convincente. Il mondo di ieri è un monito, una testimonianza scritta con prosa elegante ma mai ampollosa, di come possa essere semplice, per un Continente che si bea del proprio grado di civilizzazione, ricadere nell’odio e nel tribalismo più brutali. Nella sua autobiografia, Zweig presenta una vasta gamma di elementi rovinosi e distruttivi del suo tempo. Se ne distinguono soprattutto tre, peraltro robustamente connessi tra loro: il nazionalismo, definito «la piaga peggiore di tutte», capace di «avvelenare il meglio della nostra cultura europea»; la xenofobia, giudicata «l’epidemia morale del nostro secolo»; infine, la guerra, follia fratricida destinata a produrre nient’altro che morte e disperazione, specie in presenza di armi e tecnologie che avvicinano pericolosamente l’umanità a Dio[16].
Vale la pena citare un altro elemento nefasto, soltanto in apparenza secondario, su cui Zweig si sofferma: il ruolo e le responsabilità degli intellettuali, ossia di coloro che hanno sufficiente autorità e prestigio per condizionare, con il proprio pensiero, quello di altre persone. Zweig rivolge una critica feroce a quegli intellettuali che nel 1914, per opportunismo o per convinzione, non persero occasione di farsi messaggeri della propaganda bellicista. Se non si può dire che essi siano stati determinanti nello stravolgere il corso della storia, è certo che essi diedero il loro contributo all’avvio di quella valanga di violenza che avrebbe travolto l’Europa, e il mondo intero, per i tre decenni successivi[17].
Alla vigilia del secondo conflitto mondiale, scrive Zweig verso la fine del suo memoir: «Il mondo si era ormai abituato alla brutalità, all’ingiustizia e alla barbarie come non accadeva da secoli»[18]. Una constatazione amara, sconsolata, che ricorda un passaggio di Anna Karenina di Lev Tolstoj, altro grande ideologo pacifista: «Non ci sono condizioni tali a cui l’uomo non possa abituarsi, in particolare se vede che tutti quelli che lo circondano vivono allo stesso modo»[19]. Considerato il momento storico che stiamo vivendo, è un ammonimento che sarebbe opportuno tenere a mente.
[1] Stefan Zweig, Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo, traduzione di Paolo Lucca e Lorena Paladino, Garzanti, Milano 2022 (ed. originale: Die Welt von Gestern: Erinnerungen eines Europäers, Bermann Fisher Verlag, Stoccolma 1942).
[2] Ivi, p. 11.
[3] Ivi, cfr. pp. 11-39. Le citazioni sono rispettivamente alle pp. 36 e 12.
[4] Ivi, cfr. pp. 40-103.
[5] Tony Judt e Timothy Snyder, Novecento. Il secolo degli intellettuali e della politica, Laterza, Roma-Bari 2012 (ed. originale: Thinking the Twenieth Century, Penguin Press, New York 2012), p. 15.
[6] John Maynard Keynes, Le conseguenze economiche della pace, traduzione di Franco Salvatorelli, Adelphi, Milano 2007 (ed. originale: The Economic Consequences of the Peace, Macmillan, Londra 1919), cfr. Introduzione.
[7] Stefan Zweig, op. cit., cfr. soprattutto pp. 209-241. Le cit. sono rispettivamente alle pp. 217, 236-237 e 239.
[8] Cfr. Eric Hobsbawm, Il Secolo breve. 1914-1991, Rizzoli BUR, Milano 2007 (ed. originale: Age of extremes. The short Twentieth Century, 1914-1991, Penguin, Londra 1994).
[9] Il riferimento è al concetto di “politico” presentato dal celebre giurista e politologo tedesco Carl Schmitt (1888-1985), presentato in numerosi suoi scritti, ma in particolare in: Der Begriff des Politischen.
[10] Stefan Zweig, op. cit., p. 339.
[11] Ivi, cfr. pp. 402-438.
[12] Ivi, p. 427.
[13] Ivi, pp. 461-462.
[14] Cfr. Darién J. Davis e Oliver Marshall (a cura di), La vita stessa è già tanto in questi giorni. Ultime lettere dall’esilio americano, Castelvecchi, Roma 2022 (ed. originale: Stefan and Lotte Zweig’s South American Letters, Continuum, New York 2010).
[15] Stefan Zweig, op. cit., p. 462.
[16] Ivi, le cit. sono alle pp.
[17] Ivi, cfr. pp. 249-256.
[18] Ivi, p. 432.
[19] Il passaggio citato è l’incipit al capitolo XIII della Parte settima del libro.