Il PNRR dal punto di vista delle imprese. Aspetti positivi e criticità
- 20 Dicembre 2021

Il PNRR dal punto di vista delle imprese. Aspetti positivi e criticità

Scritto da Francesca Mariotti

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In questo contributo viene sintetizzato il punto di vista sul PNRR di Confindustria, di cui Francesca Mariotti è Direttore generale.


 

Francesca Mariotti

PNRR: per l’Italia una opportunità storica

Tre anni fa in questi mesi autunnali iniziava la discussione per la Legge di bilancio per il triennio 2020-2022. Il quadro descritto dalla NADEF 2019 prevedeva un tasso di crescita del PIL dello 0,6% nel 2020 e dell’1% negli altri due anni: la solita ‘non crescita’ giocata sui decimali, che l’Italia si trascinava dagli anni Duemila e che sanciva un ritardo strutturale e crescente con il resto dell’area euro. Nessun dato segnalava una discontinuità nell’immediato futuro. Le finanze pubbliche erano tutto sommato sotto controllo sebbene il debito pubblico in rapporto al PIL rimanesse molto elevato, gli interessi drenassero tante risorse da progetti più meritevoli e l’avanzo primario fosse modesto. Le priorità non erano le riforme ma la ricerca di spazi di bilancio così risicati da non consentire di introdurre quelle misure necessarie per rilanciare una vera crescita nel Paese. Mai all’epoca ci si sarebbe potuto aspettare che un tale quadro di finanza pubblica diventasse così obsoleto nel giro di pochi mesi dalla sua pubblicazione. Ma non solo, anche che gli equilibri in Europa si modificassero così in fretta. Si è fatto fronte comune alla crisi economica scaturita dalla pandemia, le istituzioni hanno reagito tempestivamente e consistentemente. Bisogna prenderne atto.

Il Next Generation EU (NGEU) si è concretizzato in un’occasione storica per l’Italia: l’Unione Europea, infatti, ha costruito uno strumento basato, per la prima volta, sull’emissione di debito comune, nel quale l’impiego delle risorse da parte degli Stati membri è legato all’implementazione, da parte degli stessi, di alcune riforme che siano state ritenute funzionali a rafforzarne il potenziale di crescita. Confindustria ha sempre sostenuto la necessità di debito comune: gli eurobond furono tra le principali proposte già alle nostre Assise di Verona, nel 2018. Più di recente, con il volume Il coraggio del futuro – Italia 2030-2050 abbiamo sottolineato come, in occasione della pandemia, l’UE non sia caduta nella ‘trappola’ decisionale che l’aveva condotta, durante la crisi finanziaria del decennio scorso, a intervenire troppo poco e troppo tardi.  Il Piano italiano di Ripresa e Resilienza (PNRR) punta, da un lato, ad accelerare i processi di modernizzazione e transizione del nostro tessuto produttivo e, dall’altro, a ‘ricucire’ i divari che ancora caratterizzano il Paese, riparando, al contempo, i danni economici e sociali causati dalla crisi pandemica. Quest’ultima si è abbattuta su un Paese già fragile dal punto di vista economico, sociale e ambientale. Il PNRR punta proprio ad affrontare le debolezze strutturali dell’economia italiana: gli ampi divari territoriali, il basso tasso di partecipazione al lavoro di giovani e donne, i ritardi nell’adeguamento delle competenze tecniche, nell’istruzione e nella ricerca. Insomma, un’occasione unica per accrescere il potenziale di crescita del Paese. Nel post pandemia l’Italia, se saprà agire sapientemente, sarà in grado di ridare slancio al progetto europeo. La buona riuscita del nostro PNRR, vista l’enorme dote di oltre 235 miliardi, potrà davvero indicare una direzione da intraprendere, cioè se ci sarà più o meno Europa. Ecco, a maggior ragione, perché è un’opportunità storica da non perdere.

 

Una valutazione sui punti di forza e di debolezza del PNRR

Occorre che tutti gli sforzi siano indirizzati a creare una vera discontinuità con il passato. La ricetta la conosciamo e consiste nel mettere in campo una strategia coerente dove gli effetti di lungo termine degli investimenti vengano rafforzati da adeguate riforme strutturali. Senza queste due componenti non è possibile pensare di accrescere il potenziale di crescita del Paese.

In primo luogo, è bene ricordare che le risorse europee saranno consegnate all’Italia secondo una scansione temporale precisa. I 191,5 miliardi del dispositivo Recovery and Resilience Facility (RRF) saranno erogati in 10 rate, la prima prevista per fine 2021, e poi a seguire una ogni 6 mesi circa, con importi mediamente maggiori nei primi anni, più un prefinanziamento iniziale (già ricevuto il 13 agosto, pari a 24,9 miliardi) per consentire di avviare subito alcuni progetti. Le risorse del REACT-EU, essendo dedicate al sostegno della ripresa economica e della coesione territoriale (politiche attive, supporto alle PMI, sostegno ai sistemi sanitari), dovranno essere utilizzate entro il 2023. L’Italia ha recentemente ricevuto tutti gli 11,3 miliardi previsti per il 2021. Anche i 30,6 miliardi del Fondo complementare, finanziati da risorse nazionali, seguiranno le stesse regole e tempistiche previste per quelli del RRF, sebbene serviranno per realizzare dei progetti strategici e complementari che non sono perfettamente in linea con i criteri qualitativi e quantitativi stabiliti a livello europeo.

In secondo luogo, l’erogazione delle risorse è subordinata al positivo conseguimento di 527 ‘condizioni’ concordate con l’Europa. Per accedere alle risorse europee del RRF, l’Italia deve raggiungere i cosiddetti ‘traguardi’ e ‘obiettivi’ stabiliti in un denso cronoprogramma. Soltanto se saranno rispettate le condizioni previste per ciascuna rata, allora le risorse saranno erogate. A differenza del passato, si pensi al caso greco dal 2010, il timore che la ‘condizionalità’ potesse essere vista come un’ingerenza dell’Unione Europa sulle politiche fiscali nazionali non si è manifestato perché sono stati i Paesi stessi a fare richiesta di risorse aggiuntive senza esserne costretti dal contesto (tra l’altro l’Italia è uno dei pochi Paesi che ha fatto richiesta anche di prestiti europei, non solo di sovvenzioni).

In terzo luogo, le riforme da realizzare con il PNRR sono in larga parte quelle che le istituzioni internazionali suggeriscono all’Italia da parecchi anni per ritornare a crescere. Senza entrare nel merito di ciascuna di esse, 63 in totale, è bene sottolinearne due che sono definite ‘di contesto’: la riforma della giustizia e della Pubblica Amministrazione.

Sulla prima, è quanto mai necessario che si riducano i tempi per ricevere una sentenza: in media in Italia i processi durano 7 anni e 3 mesi, il doppio rispetto alla media europea (dati CEPEJ sul 2018). Se un’azienda sa che in caso di processo, per esempio per un torto subito in merito a un brevetto, riceverà una sentenza non prima di 7 anni, non c’è da stupirsi se probabilmente non verrà mai a investire in Italia, preferendo farlo altrove. La qualità della giustizia, infatti, si misura non solo se il giudizio è corretto, ma anche da quando questo arriva. Parte del problema potrebbe essere risolto scrivendo meglio le leggi, ma senza dubbio serve rafforzare la disciplina degli accordi extra-giudiziali (alternative dispute resolution) per snellire il numero di processi pendenti.

Sulla seconda, ci sono aspettative elevate perché è fondamentale che la riforma accresca il capitale umano a disposizione della PA. Recentemente ha fatto scalpore la bocciatura di tutti i 31 progetti presentati dalla Regione Sicilia per un bando del PNRR da 880 milioni indetto dal Ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali. Tra le cause del rigetto c’è sicuramente la scarsa qualità e la scarsa capacità progettuale della PA. Il problema è ben noto, ma se si pensa che circa 65-70 miliardi del dispositivo RRF dovranno essere gestiti e ‘messi a terra’ dalle amministrazioni locali, il quadro diventa allarmante. C’è il rischio di caricarle di lavoro senza che abbiano personale sufficiente e competente. Perciò è necessario potenziare il personale attraverso un’adeguata spesa per formazione e nuove assunzioni. In tal senso, è sicuramente un punto di forza che il PNRR abbia previsto e allocato risorse per il reclutamento di profili (tecnici e gestionali) e l’istituzione di task force dedicate al supporto della PA. E che abbia anche previsto la velocizzazione e semplificazione del processo di assunzione del personale pubblico attraverso test di preselezione e requisiti specifici per le posizioni ricercate. Tuttavia, non si possono sottovalutare strozzature sul lato dell’offerta di lavoro, come si è visto con il bando per l’assunzione di 2.800 tecnici al Sud (che si è rivelato un mezzo flop). Occorre quindi riformare la PA in modo tale da attrarre competenze, ma anche incentivare il merito e promuovere misurazioni delle prestazioni orientate ai risultati ottenuti (outcome-based perfomance), evitando però che si traducano in un semplice esercizio formale senza alcun miglioramento effettivo, come è avvenuto di fatto con la cosiddetta Riforma Brunetta del 2009.

Oltre a queste riforme, sono da considerare positivamente gli interventi di snellimento burocratico di oltre 200 procedure per ridurre i tempi di risposta della PA, semplificazioni in materia di valutazione di impatto ambientale, l’eliminazione delle autorizzazioni non necessarie, l’introduzione del tacito consenso. Tuttavia, la semplificazione richiederà un lavoro scrupoloso da non trascurare. Positive anche le due ‘leve trasversali’ previste nella governance del PNRR, il potere sostitutivo e il superamento del dissenso, che consentiranno di intervenire tempestivamente sulle criticità attuative. Qualche preoccupazione, invece, proviene dalla gestione stessa del Piano, che è molto frammentato: su 134 investimenti, 86 valgono meno di 1 miliardo di euro. Anche se ciò potrebbe significare che le risorse sono state indirizzate con attenzione e parsimonia, di sicuro la frammentazione rende il monitoraggio più complicato.

Le riforme sono tante, alcune con tempistiche stringenti, i cui potenziali ritardi potrebbero avere effetti negativi a cascata sulla realizzazione degli investimenti. Altre riforme invece sono vaghe e verranno dettagliate soltanto nei futuri decreti. Perciò ora non è possibile valutare appieno la loro efficacia. Oltre alla già citata riforma della PA, un altro esempio è la tanto attesa riforma delle politiche attive, solo enunciata a linee molto generali nel Piano. Si dovrà attendere l’emanazione dei decreti attuativi a fine anno per poterne esprimere una valutazione. Non solo, alla luce delle precedenti considerazioni potrebbe anche verificarsi un ‘effetto sostituzione’ di risorse, materiali e umane, a discapito di altri progetti che vengono messi da parte per cercare di chiudere per tempo quelli del PNRR.

L’impegno allocativo di destinare almeno il 40% delle risorse al Sud, come ricordato dall’Ufficio parlamentare di bilancio, potrebbe far sorgere delle difficoltà nella selezione di alcuni progetti perché magari di scarsa qualità o non corrispondenti alle necessità. Di conseguenza si finirebbe o per non destinare una parte di risorse o per finanziare progetti non meritevoli. Pertanto, sarebbe stato meglio procedere prima con una ricognizione delle priorità e delle eventuali carenze sul territorio. In questo, il coinvolgimento del settore privato avrebbe certamente un impatto positivo. Ma, al momento, il Tavolo permanente per il partenariato economico, sociale e territoriale non è ancora partito. Pur essendo stato istituito il 14 ottobre 2021 con un DPCM, con 32 soggetti coinvolti, inclusa Confindustria. Il Presidente del Consiglio potrà individuare come coordinatore un soggetto tra personalità con «elevate competenze e comprovata esperienza». Posto che si tratta di un Tavolo ampio, la scelta del coordinatore diventa un elemento centrale per la sua funzionalità. La partecipazione al Tavolo dovrebbe consentire anche di verificare le modalità con cui il Governo considera rispettati i cronoprogrammi previsti dal Piano. Al momento, tale verifica non è possibile. In termini di contenuto, il PNRR avrebbe potuto fare di più su due tematiche rilevanti per le imprese, ovvero la loro crescita dimensionale e il riequilibrio della loro struttura finanziaria. Non appare ben delineata neppure una vera e propria strategia per il sostegno dell’export, componente fondamentale per la competitività del sistema industriale italiano.

Ad oggi, in questa fase di prima attuazione del PNRR, la più grande criticità che ci troviamo ad affrontare riguarda la trasparenza. È sicuramente apprezzabile lo sforzo fin qui compiuto dalla Presidenza del Consiglio, con l’avvio di un portale dedicato a inizio agosto e con il primo documento di ricognizione dello stato di attuazione pubblicato il 23 settembre. Tuttavia, le attuali esigenze di trasparenza richiedono un quadro di dettaglio più completo e costantemente aggiornato. Ad oggi abbiamo rilevato diverse difficoltà nel monitorare dall’esterno lo stato di attuazione. E ora che l’Italia sta finalmente arrivando alla fase di coinvolgimento del settore privato nell’attuazione del piano, le esigenze di trasparenza saranno ancor maggiori, per garantire che i soggetti privati siano debitamente informati sulle opportunità a disposizione e sui canali per sfruttarle.

Nel portale dedicato al PNRR – Italiadomani. gov.it – non sono presenti alcuni documenti che potrebbero essere utili ai fini del monitoraggio e a un maggiore coinvolgimento dei soggetti coinvolti nella realizzazione dei progetti. Il portale deve al più presto diventare una sorta di sportello unico dove i soggetti interessati possano trovare tutte le informazioni utili e aggiornate. Il principale limite che vediamo nella fase di implementazione del PNRR, a ben vedere, risiede proprio nella scarsa condivisione con la società (ha influito senz’altro il contesto nel quale è maturato). Si potrebbe rimediare a questa lacuna con un processo di partecipazione ampia nella fase dell’attuazione. A tal fine, alcune azioni appaiono urgenti. Prendiamo il caso dei bandi e avvisi per la selezione dei progetti, ovvero uno step fondamentale per l’effettiva realizzazione degli investimenti. Una prima criticità è che finora non c’è stato coinvolgimento delle imprese nella predisposizione dei bandi e degli avvisi per la selezione dei progetti: coinvolgimento che, tuttavia, è in alcuni casi essenziale. Un’ulteriore criticità è la poca trasparenza nel rendere note alle imprese le opportunità disponibili: a parte il fatto che nel portale è stata aggiunta una ‘sezione dedicata’ ai bandi e agli avvisi per la selezione dei progetti solo il 28 ottobre, questa appare non includere quelli ‘a valle’ per la concreta partecipazione alle gare. Per questi ultimi non è stata al momento definita una modalità di pubblicazione (al netto degli obblighi europei vigenti), ma è evidente che anche per questi è necessario trovare al più presto un canale organico e aggiornato di comunicazione.

Vi sono poi ‘questioni aperte’ anche in relazione a tematiche di natura più tecnica e giuridica. Per esempio, non sembra ancora esserci un’idea unitaria su quali strumenti giuridici verranno utilizzati per dare il via agli investimenti del PNRR (decreti ministeriali, interministeriali, ecc.). Sarebbe invece auspicabile individuare una forma unica per attuare il piano o, quantomeno, un percorso che sia facilmente individuabile dagli operatori privati, potenzialmente interessati alla partecipazione alle gare. Un’altra questione da chiarire, e che potrebbe avere impatti significativi in termini di efficacia delle scelte di politica economica, riguarda il coordinamento tra gli strumenti previsti dal Piano e quelli ordinari, con particolare riferimento alla cumulabilità dei diversi incentivi. Si pensi, ad esempio, alla cumulabilità, attualmente prevista, tra il credito di imposta ‘Investimenti 4.0’ e il bonus ‘Investimenti Sud’. È necessario chiarire se la cumulabilità sarà ancora possibile in costanza di finanziamento del Piano 4.0 con risorse europee. Facciamo il punto, dunque, su cosa occorre ancora fare, e velocemente. Serve, in primo luogo, che l’Italia faccia un passo avanti nella selezione dei progetti per assicurare che le risorse comincino ad essere spese fin da subito. Le considerazioni presentate sopra sulle modalità per un maggior coinvolgimento del settore privato sono esattamente funzionali a questo scopo. L’implementazione delle misure deve essere, tuttavia, accompagnata da un serrato monitoraggio e da una seria valutazione dei risultati. Il vero successo del Piano va valutato, infatti, in termini di efficacia delle misure attuate. A tal proposito, si rileva che dall’Unione Europea servono criteri più precisi di valutazione ‘formale’ dell’attuazione del Piano, anche dato che l’erogazione delle risorse è subordinata al conseguimento dei traguardi e obiettivi concordati.

Al tempo stesso, in Italia servono meccanismi volti a garantire l’efficacia ‘sostanziale’ delle misure implementate. Pur in presenza di criteri più precisi per la valutazione del raggiungimento del cronoprogramma di traguardi e obiettivi, rimane infatti il rischio di condizioni che formalmente (sulla carta) sono raggiunte, ma nella sostanza non lo sono (ad esempio viene approvato un decreto attuativo rispettando le tempistiche, ma gli effetti che produce sono inconsistenti). In tal senso, è positiva la scelta di seguire un attento e stretto programma di monitoraggio, per garantire la qualità e per correggere tempestivamente eventuali utilizzi improduttivi di risorse, ma sarebbero utili anche progetti pilota per decidere cosa, solo successivamente, mettere su larga scala. L’importanza della qualità dell’implementazione è numericamente colta nelle stime governative dell’impatto macroeconomico atteso del PNRR. In caso di «errori nella selezione, progettazione e messa in opera degli investimenti» l’impatto stimato scenderebbe da 1,2 a 0,9 punti di PIL. Il costo si amplierebbe notevolmente sull’intero orizzonte di attuazione del piano, arrivando a dimezzarsi nel 2026: 1,8 punti percentuali anziché 3,6.

Alla luce delle considerazioni svolte, il Piano italiano ha tutte le carte in regola per essere un successo. L’auspicio è che ciascuna istituzione, PA, ente, impresa coinvolta nella sua implementazione abbia ben chiara la portata dell’opera a cui sta prendendo parte. Ora più che mai serve ‘cogliere l’attimo’ per tornare a una crescita sostenuta e duratura nel nostro Paese.

Scritto da
Francesca Mariotti

Direttore generale di Confindustria dove è anche Direttore dell’Area Politiche Fiscali. Avvocato e revisore legale, si è laureata in Giurisprudenza all’Università degli Studi di Roma La Sapienza. Ha rappresentato Confindustria in molte sedi istituzionali, sia a livello nazionale, partecipando a commissioni istituite dai Ministeri dell’Economia e delle Finanze, delle Politiche Comunitarie, dello Sviluppo Economico e dell’OIC, sia a livello internazionale, presso l’OCSE e BusinessEurope.

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